Ammaliati dai Suoni del destino

Brahms & Beethoven. Brillante esecuzione dell'orchestra e del coro del TNC «Ivan de Zajc» di Fiume in occasione del concerto alla vigilia di Ognissanti

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Ammaliati dai Suoni del destino
Il coro e l’orchestra durante la prima parte del concerto (Brahms). Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Serata memorabile, quella di martedì, al Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume. Lo è stata grazie alla brillante esecuzione dell’orchestra e del coro in occasione del concerto che era stato annunciato come “I suoni del destino” alla vigilia di Ognissanti e della giornata dei defunti. In questo caso dobbiamo fare una netta distinzione tra la prima e la seconda parte del concerto. Nella prima, infatti, i protagonisti assoluti sono stati i 35 membri del coro, diretti dal Mº Matteo Salvemini, mentre nella seconda il pubblico si è potuto godere l’“esplosione” di un’orchestra particolarmente ispirata e diretta dal giovane (29 anni) ed energico Valentin Egel. E se questi erano i suoni del destino, lasciatici in eredità da Johannes Brahms e Ludwig van Beethoven, allora questo destino andava accolto a braccia aperte, così come lo ha fatto il pubblico accorso allo “Zajc”, che ha tributato i protagonisti della serata con un lungo, caloroso ed entusiastico applauso.

Profondità emotiva e bellezza musicale
Tutto è iniziato con il “Canto funebre” (Begräbnisgesang), op. 13 di Johannes Brahms (Ambrugo, 7 maggio 1833 – Vienna, 3 aprile 1897), composizione per coro e orchestra scritta nel 1858 a Detmold, dove Brahms venticinquenne, durante i mesi invernali degli anni 1857-1859, insegnava il pianoforte alle figlie del principe Lippe-Detmold e istruiva un coro privato alle dipendenze della corte. Questo canto è stato composto per onorare il principe Johann Carl von Österreich, che era un membro della famiglia imperiale austriaca e amico di Brahms e la cui morte ispirò Brahms a comporre questo lavoro, che è strutturato in quattro parti ed è scritto per un coro misto e un’orchestra. Ascoltando questa composizione, non si può non notare la profonda e solenne espressione musicale influenzata dalle opere corali di altri due maestri tedeschi, Ludwig van Beethoven e Franz Schubert, con i quali condivide, tra l’altro, anche il luogo di sepoltura, lo Zentralfriedhof di Vienna. Questo lavoro – va detto che si tratta di una composizione significativa nella carriera di Brahms – è un esempio di come il musicista abbia saputo combinare, con profondità emotiva e bellezza musicale, le tradizioni musicali del passato con la sua “calligrafia” compositiva unica, creando una musica che parla direttamente all’anima e al cuore degli ascoltatori. L’orchestra si è premurata in ogni momento, con un timbro di arcaica solennità, di collegare alla perfezione le entrate del coro.
L’opera inizia con un coro maschile in un ambiente quieto e meditativo, esprimendo un senso di tristezza e solennità, ma trattandosi di un “canto funebre” non poteva essere che così. “Or seppelliamo il corpo/che, non dubitiamo,/risusciterà all’ultimo giorno, /e intatto riaffiorerà”, sono alcuni dei versi di quest’opera. La musica si sviluppa gradualmente in una sezione centrale più intensa e drammatica, culminando in un coro completo che esprime emozioni profonde di lutto e riflessione, mentre la conclusione è in pratica un ritorno al tono iniziale di calma e riflessione.
I 35 coristi dello “Zajc” hanno trasmesso con grande maestria anche il “Canto del destino” (“Schicksalslied”), op. 54, considerata uno dei migliori lavori corali di Brahms insieme al “Requiem tedesco” (“Ein deutsches Requiem”), opera corale composta nel 1871. Questa composizione è basata su un testo tratto dalla poesia “Hyperions Schicksalslied” di Friedrich Hölderlin, ed è stata ispirata da una visione piuttosto romantica del destino umano. È stato scritto per coro misto e orchestra ed è diviso in due parti. La prima parte inizia con un coro che esprime l’idea dell’armonia celeste e dell’eterno riposo degli dei, in netto contrasto con la condizione umana, caratterizzata da lotte e sofferenze. La musica iniziale trasmette una sensazione di calma e serenità, ma si sviluppa gradualmente in una sezione più drammatica che riflette le lotte umane, ponendo l’accento, appunto, sulla disparità tra il regno celeste e l’esperienza umana.

Un’esplosione corale
La seconda parte, invece, è dominata da una grande esplosione corale e orchestrale, quasi una metafora del destino umano. Il testo parla di come gli esseri umani siano costretti a sopportare il peso del destino, mentre gli dei rimangono inaccessibili. Questa parte dell’opera è intensamente drammatica ed espressiva, con il coro e l’orchestra che raggiungono il loro apice in un potente climax. La conclusione riporta il brano a una sensazione di calma e riflessione, suggerendo una sorta di accettazione del destino umano. Sia l’orchestra che il coro hanno saputo interpretare mirabilmente l’intensità emotiva voluta da Brahms, con una lodevole abilità nel catturare il contrasto tra la perfezione divina e le sfide umane. Questa composizione incoraggia gli uomini a trovare conforto nonostante le tribolazioni della vita. Ma a noi è dato/in nessun luogo trovar pace,/dileguano, cadono, nel dolore gli uomini/ciecamente di ora in ora,/come acqua da pietra a pietra lanciata,/senza mai fine, giù nell’ignoto, sono alcuni dei versi che al pubblico sono stati offerti (letti) da Deni Sanković, attore del Dramma Croato.

Quattro note di un’opera iconica
Dopo aver bussato a lungo alla porta, dopo la pausa il “destino” l’ha letteralmente sfondata con la Sinfonia n. 5 in do minore, Op. 67 di Ludwig van Beethoven (Bonn, 16/17 dicembre 1770 – Vienna, 26 marzo 1827), una delle opere più iconiche e celebrate della storia della musica, eseguita per la prima volta il 22 dicembre 1808 al Theater an der Wien, in una serata musicale che non ebbe particolare successo, forse a causa del freddo e della lunghezza del programma. È la composizione che forse meglio incarna il vero Beethoven, ovvero l’uomo che lotta contro il destino e lo vince. “Ich will dem Schicksal in den Rachen greifen”, ossia “Voglio prendere il destino per il collo”, è una frase celebre pronunciata da Beethoven mentre si apprestava a scrivere la Quinta sinfonia. C’è qualcuno che non conosce il celebre disegno con il quale inizia il primo movimento: sol-sol-sol- mi/fa-fa-fa-re? Crediamo proprio di no. Queste prime quattro note, infatti, sono una delle frasi musicali più riconoscibili nella storia della musica classica, quattro brevi note, seguite da una lunga nota, ossia il “motivo del destino”, un motivo che ciascun ascoltatore può interpretare a suo piacimento: il destino che bussa alla porta, oppure la lotta contro questo stesso destino? E come interpretare l’assolto dell’oboe: il richiamo celeste oppure un gemito? L’elemento ritmico di questo inizio denota anche il gioco armonico, in quanto il motto iniziale non determina subito la tonalità di impianto. Quindi, ciascuno degli spettatori dello “Zajc” ha potuto dare una propria interpretazione di questo dualismo, di questa dicotomia filosofica.

Un’orchestra ispirata
L’estensione del concetto di destino è stata trasmessa magistralmente dall’orchestra sinfonica dello “Zajc”, guidata dal Mº Valentin Egel, il quale ha interpretato e comunicato brillantemente la musica di Beethoven all’ensemble fiumano, che ha potuto percepire il tempo, il ritmo, l’andamento e le dinamiche musicali dell’opera. Mirabile anche la sua espressione emotiva, con espressioni facciali e linguaggio del corpo che hanno dato brio alla musica e coinvolto un pubblico entusiasta. Nonostante la giovane età del direttore tedesco, la sua leadership all’interno dell’orchestra non ha avuto il benché minimo segno di cedimento e ha saputo dare vita a una performance coesa e armoniosa, puntualmente premiata dal pubblico, rimanendo imperturbabile anche in occasione del piccolo incidente durante il quarto movimento, che descriviamo a parte.

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