Si accende una speranza per i malati di Alzheimer

Iniziato ieri, nella sala congressi della Facoltà di Ingegneria civile, il 7º Forum internazionale sulle malattie neurodegenerative, con la presenza di illustri scienziati di tutto il mondo

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Si accende una speranza per i malati di Alzheimer
Grande interesse per il convegno fiumano. In primo piano, il prof. John Hardy, a cui è stata consegnata nei giorni scorsi la Laurea honoris causa. Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

“Nel 1909 i fratelli Wright realizzarono sulla spiaggia di Kitty Hawk, nella Carolina del Nord, il primo volo con un mezzo motorizzato. Nel 1919 venne effettuato il primo volo commerciale da Londra a Parigi. Noi dobbiamo pensare ai voli transoceanici, ma al momento siamo ancora sulla spiaggia di Kitty Hawk”. Con queste parole Sir John Hardy, genetista e microbiologo dell’University College London, luminare nel campo delle malattie neurodegenerative, ha descritto i risultati delle sue ricerche incentrate sulla cura del morbo di Alzheimer. Lo scienziato britannico – il primo a identificare il ruolo dell’amiloide nell’Alzheimer e ora il primo a individuare un farmaco che finalmente potrà aiutare i pazienti – è stato relatore d’eccezione, nonché il primo a raggiungere il podio nella sala congressi della Facoltà di Ingegneria civile del Campus universitario di Tersatto, al 7º Forum internazionale sulle malattie neurodegenerative.

Prima del suo intervento, i discorsi di benvenuto sono stati fatti dal prof. Stipan Jonjić, a capo del Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Fiume – non ha mancato di sottolineare la Laurea honoris causa ricevuta recentemente a Fiume da John Hardy –, dalla prof. Vladimira Vuletić, titolare della cattedra di neurologia alla Facoltà di Medicina e primario della Clinica di Neurologia del Centro clinico-ospedaliero di Fiume, la prof. Zdravka Poljaković, presidente della Società croata di neurologia, dal prof. Alen Ružić, direttore del CCO di Fiume, dal prof. Goran Hauser, preside della Facoltà di Medicina e dalla vicerettrice dell’Università fiumana, Senka Maćešić, in assenza della rettrice Snježana Prijić Samaržija.
Ružić: «Siamo all’avanguardia»
Prima dell’inizio dei lavori, abbiamo avuto modo di interpellare il prof. Alen Ružić, il quale si è dichiarato estremamente soddisfatto “per il modo in cui vengono applicati gli ultimi risultati delle ricerche scientifiche”. “Sui nostri pazienti applichiamo metodi nuovi di diagnostica e cura in tutti i segmenti – ha aggiunto –, ma in modo particolare nel campo delle malattie neurodegenerative. Un forte contributo in questo senso lo possiamo attribuire all’intensa attività di ricerca che si trasferisce nella prassi. Il 7º Forum, al quale partecipano alcuni dei nomi più illustri della comunità scientifica nel mondo in questo settore, tra cui proprio Sir John Hardy, recentemente insignito da parte della nostra Università della laurea honoris causa per i successi conseguiti a livello mondiale e per la sua pluriennale collaborazione con l’Università di Fiume e il CCO, a tutto beneficio dei nostri pazienti. Grazie a ciò, la nostra Clinica di neurologia è diventata Centro di riferimento per la diagnosi e la terapia delle malattie neurodegenerative”.
Vuletić: «Una nuova pandemia»
“Lo scopo principale di questi convegni – ha detto invece la prof. Vladimira Vuletić, presidente, tra l’altro del comitato organizzatore del convegno – è quello di avere tra noi i massimi esperti di questo settore, che nei propri laboratori sono capaci di dare risposte importanti nel campo delle malattie neurodegenerative per un utile scambio di opinioni ed esperienze con i nostri scienziati e medici, ma anche per stimolare gli esperti del nostro territorio a occuparsi di neuroscienze e malattie neurodegenerative. Abbiamo ascoltato sempre che per queste patologie non esistono farmaci, che non ci sono possibilità di cura. Grazie alle ultime scoperte – ha rimarcato –, oggi abbiamo nuove soluzioni terapeutiche e nuove possibilità di rallentare il progresso delle malattie neurodegenerative, che vengono classificate come una nuova pandemia, perché i numeri di Alzheimer e Parkinson sono in continua crescita. In un futuro prossimo cambierà il discorso, in quanto sapremo molte più cose, potremo tenere la malattia sotto controllo e i malati avranno una migliore qualità di vita. La nostra clinica è ora un Centro di riferimento per le malattie neurodegenerative e i disturbi del movimento. In ogni caso, stiamo portando avanti molti progetti internazionali, per cui possiamo contare sulla collaborazione di esperti di tutto il mondo, pionieri in questo campo specifico. Stiamo andando verso un tipo di medicina personalizzata, di diagnosi precoce, riconoscendo i sintomi, non soltanto disturbi motori, nella fase embrionale della malattia”.
La forma più comune di demenza
Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza. Generalmente, i sintomi si sviluppano lentamente e peggiorano con il passare del tempo, diventando talmente gravi da interferire con le attività quotidiane. Il morbo di Alzheimer rappresenta un’elevatissima percentuale dei casi di demenza. Non va assolutamente considerato come un normale elemento dell’invecchiamento, anche se il massimo fattore di rischio conosciuto è rappresentato dall’aumentare dell’età, e la maggior parte delle persone affette dal morbo di Alzheimer hanno 65 e più anni. Diversi anni dopo la scoperta dell’Alzheimer – la malattia, che risulta essere la forma più comune di demenza senile, acquisisce il suo nominativo dal medico che per primo, agli inizi del ‘900, ne descrisse i sintomi, Alois Alzheimer – sembra quindi che ci possa essere una svolta dovuta alla prevenzione della patologia.
Hardy: «Rallentare la malattia»
“Il recente successo della sperimentazione clinica di Lecanemab e Dononemab offre finalmente speranza per trattamenti meccanicistici di successo per il morbo di Alzheimer – ha detto il prof. John Hardy –. Tuttavia, questi trattamenti non possono arrestare la malattia, ma possono rallentarne la progressione del 30 per cento”.
Nel prosieguo del suo intervento, lo scienziato britannico ha parlato di queste terapie e del contesto specifico che ha portato al loro successo, ponendo all’attenzione dei presenti anche l’efficacia dell’analisi genetica e dei biomarcatori biologici per favorire una diagnosi precoce e accurata. Il prof. Hardy ha accennato anche ad altri potenziali bersagli per le terapie per l’Alzheimer, auspicando che le terapie combinate possano essere in futuro un potenziale modo per arrestare la progressione della malattia e sottolineando la necessità di sviluppare farmaci che producano meno effetti collaterali. “Il primo passo è il più difficile e ora sappiamo esattamente cosa dobbiamo fare per sviluppare farmaci efficaci – ha puntualizzato –. È entusiasmante pensare che il lavoro futuro si baserà su questo e presto avremo trattamenti radicali per affrontare questa malattia”. “Possiamo migliorare? Sì, possiamo. Anzi, dobbiamo”, ha concluso Sir John Hardy.
Farmaco, si attende l’autorizzazione
In queste settimane l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), sta valutando l’autorizzazione all’immissione in commercio del Lecanemab, un anticorpo monoclonale anti-amiloide, studiato e sviluppato per le forme precoci della demenza di tipo Alzheimer.
Il farmaco dovrebbe avere la caratteristica di modificare sostanzialmente la storia naturale della malattia, dando la speranza a milioni di pazienti in tutto il mondo. Si ipotizza che la rimozione delle placche amiloidee dal cervello delle persone con un lieve deficit cognitivo riconducibile all’Alzheimer possa costituire il “primum movens” per determinare un cambiamento di rotta nella cura della malattia.

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