Le Portatrici carniche, eroine dimenticate dal tempo e dalla storia

Donne che rivestirono un ruolo fondamentale nella difesa del fronte italiano durante la Prima guerra mondiale. Figure forti e tenaci, sfidarono la fatica e la fame in nome della libertà e della difesa dei giovani soldati e del proprio Paese

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Le Portatrici carniche, eroine dimenticate dal tempo e dalla storia
Il monumento in onore alle Portatrici carniche, eretto nel 1992 a Timau, in Friuli Venezia Giulia/Foto Shutterstock

La storia la fanno i vincitori, sorvolando inesorabilmente sul punto di vista dei vinti, sulle loro ragioni e motivazioni. Ma si tratta anche di un racconto scritto spesso e volentieri dagli uomini, lasciando fuori dai manuali e consegnando all’oblio della memoria le imprese portate a termine dalle donne. Quanti grandi personaggi femminili sono stati trattati con la stessa dignità e lo stesso rispetto riservati a quelli maschili? Pochi, molto meno rispetto alla miriade di personalità del genere dominante che riempiono le pagine dei libri del passato. Cleopatra, Giovanna d’Arco, Elisabetta I (probabilmente Elisabetta II, anche se è troppo presto per predire quale posto occuperà nella storia), Anna Bolena, Maria Antonietta, Maria Teresa d’Austria, la Regina Vittoria… Sono alcune delle donne a cui nel corso del tempo è stato concesso l’onore di ricoprire un ruolo maschile. Rimane innegabile, però, che parlando di battaglie, eventi epocali, guerre, le figure femminili non vengono nominate o, sono relegate a essere in secondo piano; custodi del focolare domestico, in attesa che i prodi mariti e padri ritornino dal campo di battaglia. Inoltre, tra le donne citate, la maggior parte si è trovata a svolgere una funzione riservata agli uomini, più per diritto di nascita e per mancanza di un erede maschio, che per propria volontà o merito. D’altro canto, però, è innegabile che, nonostante molte di esse siano capitate sul trono di qualche potenza mondiale per una casualità del destino, seppero adempiere a tale ruolo in modo egregio, distinguendosi dai tanti “colleghi” maschi per lungimiranza, intuito e capacità.
Se vogliamo invece guardare ai giorni nostri, non possiamo ignorare il fatto che gli Stati Uniti d’America, considerati una democrazia emancipata e progressista, non abbiano mai avuto un presidente donna, così come la stessa Italia. Quest’ultima con l’elezione di Tina Anselmi nel 1976 ha permesso per la prima volta a una donna di ricoprire il ruolo di ministro, mentre è stato necessario attendere il 2022 per eleggere il primo premier donna, Giorgia Meloni. La Slovenia, invece, attualmente è guidata dalla presidente della Repubblica, Nataša Pirc Musar, eletta nel novembre 2022. Per quanto concerne la Croazia, durante le elezioni dello scorso aprile si è discusso molto sulla mancanza di quote rosa all’interno delle liste, anche se nel passato lo Stato ha avuto un primo ministro donna, Jadranka Kosor, eletta nel 2009 a capo dell’XI governo croato e anche una presidente (dal 2015 al 2020), Kolinda Grabar-Kitarović, in precedenza ministro e diplomatica internazionale. Segni di emancipazione, che da un lato fanno sperare in un futuro (ancora lontano) di parità di genere, ma dall’altro evidenziano ancora di più il baratro che per millenni, per svariati motivi, ha separato l’universo maschile da quello femminile.

Il ruolo della donna messo in secondo piano

Ritornando ai libri di storia e lasciando da parte figure di spicco quali re, regine, generali e soffermandoci sugli individui comuni, troviamo soldati che combattono battaglie, contadini che avviano la rivoluzione agricola, marinai che scoprono nuovi continenti e donne che accudiscono i figli, si prendono cura della casa e degli anziani e attendono pazientemente il ritorno dei mariti. Ma veramente per secoli e secoli il ruolo della donna si è limitato solo a questo? Probabilmente no, semplicemente i sacrifici, le prodezze e le azioni di migliaia di eroine non sono stati ritenuti altrettanto degni di nota da annotarli nei libri di storia.
Di seguito vi vogliamo invece raccontare l’incredibile impresa di un gruppo di donne, che durante la Prima guerra mondiale contribuì a mantenere il territorio italiano sulle montagne carniche. La loro storia è poco conosciuta e ha rischiato di finire nell’oblio, senonché negli anni ‘90 del secolo scorso qualcosa è cambiato e il loro ricordo ha iniziato a ricevere il giusto peso da parte delle istituzioni e delle autorità. Tanto che nel 1992 a Timau, in Friuli Venezia Giulia, fu eretto un monumento in loro onore, mentre nel 1997 l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, conferì la Medaglia d’Oro al Valore Militare a quante di loro ancora in vita, ricordandole anche nel discorso di fine anno. Queste figure femminili di immenso valore e dal coraggio indescrivibile sono conosciute come le Portatrici carniche e, con la loro forza e la loro resilienza, non solo furono di sostegno ai militari che combattevano sulle vette alpine lungo la linea del fronte, ma ne rappresentarono la linfa vitale.
Ci troviamo in Carnia, regione storico-geografica nel nord del Friuli Venezia Giulia, ai confini con l’Austria, oggi parte della provincia di Udine. Proprio in questa zona montuosa durante il primo conflitto mondiale stanziò il XII Corpo d’Armata dell’Esercito italiano. Quello carnico rappresentò un fronte fondamentale per la difesa del territorio italiano, il quale si stagliava dalle sorgenti del Piave a quelle del Natisone, incorporando pure le valli dell’alto Tagliamento, del Degano, del But e del Fella. In quest’area erano di stazza 31 battaglioni per evitare lo sfondamento a Monte Croce Carnico: se in quel punto il confine avesse ceduto, le truppe austriache avrebbero avuto diretto accesso alle valli sottostanti e da lì avrebbero potuto proseguire l’invasione dell’Italia. Questa linea di difesa italiana non cedette mai anche grazie alle Portatrici, che svolsero la loro attività dall’agosto 1915 all’ottobre 1917 e smisero solo quando i soldati furono costretti ad abbandonare le loro postazioni, per non essere sorpresi dal nemico, quando il fronte sull’Isonzo cedette, in seguito alla disfatta di Caporetto.

Un’impresa eroica

Quale fu il contributo di queste donne? In che cosa consistette la loro impresa? Le Portatrici avevano dai 16 anni ai 60 anni ed erano spesso madri, rimaste nelle loro case per occuparsi dei figli, del bestiame, dei campi e per prestare aiuto agli anziani che non poterono andare in guerra per l’avanzata età, mentre tutto il resto della popolazione maschile si trovava sul fronte di battaglia. Sulle Alpi Carniche erano schierati dai 10mila ai 12mila soldati e questi necessitavano quotidianamente di approvvigionamenti, ma i magazzini e i depositi militari erano dislocati a fondovalle e utilizzare uomini per il vettovagliamento avrebbe significato indebolire le difese. L’esercito si rivolse perciò alla popolazione civile dei paesini sottostanti, composta ormai da sole donne, bambini e anziani. Le uniche che poterono rispondere alla chiamata furono appunto le mogli e le madri rimaste nelle loro dimore che svolgevano già tutti quei lavori maschili rimasti fermi a causa dell’assenza degli uomini per portare avanti la vita dei villaggi. Queste donne si rimboccarono le maniche e corsero in soccorso dei soldati e dell’Italia. Per quasi due anni dal fondovalle salirono ogni giorno sulle cime delle Alpi a portare viveri, medicinali, armi alle truppe in difesa del fronte. Le Portatrici riempivano le loro gerle di tutto il necessario e affrontavano dislivelli in salita che raggiungevano anche i 1.200 metri. Per la precisione, le gerle sono delle ceste coniche di vimini, sulle quali sono cucite delle bretelle in modo da potersele caricare sulle spalle. Usualmente venivamo riempite di granoturco, cibo, biancheria, ma durante la Grande Guerra servirono a portare rifornimenti, contenendo un peso che variava dai 30 ai 40 chilogrammi.
Le Portatrici formarono un vero e proprio corpo ausiliare con una forza pari a un battaglione di 1.000 soldati. Ciascuna di loro possedeva un libretto di riconoscimento dove venivano annotate le presenze, i viaggi compiuti e i materiali trasportati a ogni salita. Inoltre, ognuna indossava un braccialetto rosso di riconoscimento con sopra inciso lo stesso numero del libretto. Il loro compenso era di 1,50 centesimi a viaggio, corrispondente a 3,50 euro attuali e venivano retribuite mensilmente. Queste donne, dimenticate dalla storia, erano a disposizione dell’Esercito italiano a qualsiasi ora del giorno e della notte, pronte a intervenire in caso di emergenza. Ogni mattina all’alba, puntuali, le eroine anonime sfiancate dalla fatica e dall’assenza totale di riposo, si ritrovavano nei depositi per prelevare la merce e compiere il loro dovere, guidate dal motto “Anin, senò chei biadaz a murir encje di fan” (Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame). Qui ricevevano il materiale da caricare in spalla e da portare al fronte.

Le salite sfiancanti

Le salite erano impervie, si trattava di sentieri di montagna per la fienagione, non percorribili né da asini e cavalli (che tanto non c’erano più in quel periodo di povertà assoluta) né tantomeno da automezzi, per di più sotto tiro dei cecchini austriaci. La difficoltà di queste salite è descritta in modo magistrale nel romanzo “Fiore di roccia” di Ilaria Tuti, edito da Longanesi, dove l’autrice ripercorre la storia tenace e intrisa di forza delle Portatrici, regalandola al grande pubblico. “Quando il piano inizia a salire, la fila di 30 donne si divide tra saluti e benedizioni. Proseguiamo a piccoli gruppi attaccando le giogaie come raggi di una ruota, ciascuno dietro al reparto che gli è toccato in sorte. I visi rivolti in alto, ci concediamo qualche istante per scrutare il gigante di pietra che siamo tenute a domare”.
Queste venivano divise in gruppi di 15-20 persone e dopo una marcia in ripida salita durante la quale facevano grande attenzione a ogni singolo movimento durante un percorso che durava dalle 2 alle 5 ore, giungevano alla linea del fronte situata sulle creste delle montagne. “Non c’è pietra che non possa ruzzolare, i vecchi lo ripetono sempre. Metti un piede davanti all’altro. Non staccare il secondo se la presa del primo non è ben salda. Tutto si muove. Tutto può franare e trascinarti giù”.
La fatica era disumana e una volta arrivate a destinazione si fermavano per una breve pausa prima di affrontare la discesa, ritornare a valle e riprendere le faccende della vita quotidiana. Il percorso diventava ancora più tortuoso in inverno, con la neve che arrivava alle ginocchia e rendeva estremamente più difficile ogni singolo passo assieme al gelo che penetrava fino alle ossa. Le gerle stracariche pesavano come macigni sulle spalle di chi le portava, provocando spesso ferite e dolori insopportabili. “Le cinghie di cuoio mi stanno entrando nella carne, e so che è soltanto l’inizio. Il carico sembra volerci far avvitare nella terra, quando invece i piedi dovrebbero volare per raggiungere la cima”. Tali astrusità sommate alla carestia e alla mancanza di cibo facevano provare loro una fame perenne: spesso per tutta la giornata si facevano bastare una patata bollita. Chi possedeva ancora una capra, per non parlare di una mucca, era considerato ricco e riusciva a racimolare una fonte di proteine e grassi indispensabili al sostentamento. Le condizioni di vita erano mostruose, si tirava, avanti giorno per giorno, perché immaginare un futuro più roseo sembrava impossibile con i bombardamenti e le cannonate che si udivano in lontananza e che facevano vivere tutti in un’angoscia senza fine.

I silenziosi «scarpetz»

Per affrontare alture scoscese volte a raggiungere la cima, le donne indossavano gli scarpetz, calzature tradizionali carniche, fatte in casa con stoffe e velluti. Grazie alla maestria di secoli di conoscenza delle vette e della loro morfologia, gli abitanti del luogo impararono a confezionare scarpe resistenti alle pietre e alle rocce. Tali calzature avevano un vantaggio tattico: erano silenziose. Tanto che nel giugno 1915 un gruppo di alpini del Battaglione Tolmezzo riuscì a conquistare la vetta del monte Freikofel indossando proprio gli scarpetz, per non farsi udire dai soldati austriaci di vedetta.
Con queste scarpe, che sembravano quasi delle ciabatte, le Portatrici affrontavano anche le discese, per nulla più semplici delle salite. Costoro, al rientro nel paese, trasportavano barelle con sopra adagiati feriti, oppure morti; i primi per essere portati agli ospedali da campo a fondovalle, i secondi per venire sepolti nei cimiteri di guerra. Spesso trascinavano con sé anche la biancheria o le uniformi dei soldati, che lavavano accuratamente e riportavano al fronte, per donare loro un minimo di conforto e umanità in quei luoghi di morte.
Maria Plozner Mentil fu considerata la guida e l’anima di queste donne coraggiose e impavide: incarnazione di temerarietà e risolutezza, fu sempre in prima fila e non si tirò mai indietro di fronte al dovere e alla necessità di aiuto. Il 15 febbraio 1916 trovò la morte a Malpasso di Pramosio, sopra Timau, per mano di un cecchino austriaco che la colpì mentre si stava riposando prima di riprendere il cammino. Maria aveva 32 anni, 4 figli piccoli ed era la moglie di un soldato di stazza sul Carso. La sua dedizione e la sua audacia furono riconosciute dall’Esercito italiano, tanto che, nonostante i bombardamenti, il funerale fu celebrato con gli onori militari alla presenza di tutte le sue compagne e del picchetto militare. Ad oggi Maria Plozner Mentil è l’unica donna a cui sia stata intitolata una caserma militare in Italia. Nel 1997, fu riconosciuto il suo contributo essenziale per la difesa dello Stato italiano e le fu assegnata la Medaglia d’Oro al valore militare.
Le Portatrici carniche non furono mai militarizzate, perciò non ricevettero mai il sostegno economico riservato ai combattenti e, per troppo tempo, queste figure, essenziali per l’Italia durante la Prima guerra mondiale, rimasero nel dimenticatoio più totale. Chi però aveva combattuto al fronte e le aveva conosciute, nutriva per loro lo stesso rispetto riservato ai militari. Quando queste raggiungevano il reparto assegnato, i soldati le salutavano con il saluto militare e le trattavano come loro pari.
Per troppo tempo la storia di queste madri, figlie, mogli, sorelle è rimasta nell’oblio, alla stregua di una vicenda di poco conto, come se non meritasse di essere ricordata e trascritta nei libri. Invece sono proprio queste vicissitudini che ci fanno capire come le guerre e il terrore che ne consegue, influiscano sulla vita di tutti, indipendentemente dal sesso, dalla condizione sociale, dal credo religioso o dalla provenienza, rendendo tutti gli esseri umani uguali nella loro caducità. Gli unici elementi che possono fare la differenza sono la capacità di abnegazione e la forza di reagire di fronte a tragedie incommensurabili. E molto spesso, queste caratteristiche riguardano proprio le donne: “Questa guerra mi ha tolto tutto, lasciandomi solo la paura. Mi ha tolto il futuro, soffocandomi in un presente di povertà e terrore. Ma lassù hanno bisogno di me, di noi, e noi rispondiamo alla chiamata. Ci aggrappiamo agli speroni con tutte le nostre forze, proprio come fanno le stelle alpine, i ‘fiori di roccia’”.

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