Isola Calva e San Gregorio, orrore che meriterebbe un museo

Una delegazione dell'AFIM e della Comunità degli Italiani di Fiume ha visitato quelli che fra il 1949 e il 1956 furono dei veri e propri campi di concentramento

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Isola Calva e San Gregorio, orrore che meriterebbe un museo
Foto Ivor Hreljanović

di Moreno Vrancich

L’Isola Calva, oggi, è un posto come tanti altri. Ci sono tutta una serie di edifici abbandonati, non dissimili dalle ex caserme militari che si possono trovare sulle pendici del Monte Lesco, nella periferia di Fiume, o da quelli della zona dell’ex porto militare di Pola. A parte poche targhe con scritte striminzite non ci sono indicazioni di alcun tipo per spiegare a chi è venuto sino a qui come quei luoghi all’apparenza pacifici per decine di migliaia di persone abbiano rappresentato l’inferno in Terra.

Parliamo di questo argomento perché la Comunità degli Italiani di Fiume in collaborazione con l’Associazione Fiumani Italiani nel Mondo ha deciso di organizzare una visita all’Isola Calva e a San Gregorio, con la seconda delle due che è stata in modo particolare campo di prigionia femminile, per conoscere meglio anche queste pagine di storia, che molto spesso vengono messe in secondo piano rispetto ad altri eventi.

Come Alcatraz?

L’Isola Calva si è spesso definita l’Alcatraz dell’Adriatico, ma Vanni D’Alessio, storico che si è prestato da farci da guida durante questa nostra visita sull’isola, non è d’accordo con questo accostamento. “Si trova spesso scritto che Goli otok era l’Alcatraz dell’Adriatico, ma Alcatraz era una prigione c’erano criminali comuni. Goli otok fino al ’56 non lo era. Era un’isola di prigionia e riabilitazione politica per persone che erano considerate non confacenti a quelli a quello che lo stato Jugoslavo voleva, erano voci dissidenti all’idea del comunismo jugoslavo. E quindi si tratta o di oppositori politici o di persone che vengono comunque trattate come tali, anche quando sono persone normali che hanno però rapporti con qualcuno che ha idee conformiste o che hanno espresso fra dei dubbi, privatamente fra amici, sul dove stava andando la Jugoslavia. Chiunque faceva delle considerazioni, diceva una parola sbagliata, poteva finire tra i nemici del popolo, anche i comunisti stessi. L’Isola Calva era dunque un progetto politico. Si può dire diventi simile ad Alcatraz soltanto dopo il ’56”, ha spiegato D’Alessio.

Fai la spia!

I primi prigionieri sono iniziati ad arrivare nel settembre del 1949 e per assurdo sono stati loro a costruire gli edifici detentivi per tutti gli altri. Molti di loro sono poi stanti coinvolti anche nei processi di interrogatori e torture. “Questo ha creato una situazione paradossale. Sull’isola regnava la cultura del fare la spia. Bisognava sempre fare dei nomi, dire con chi si aveva parlato e cosa ci si era detti. E guai a dire che non ci si era detti niente, perché l’interrogatore chiedeva subito ‘come è possibile che due persone si parlino senza dirsi niente’. Fare dei nomi era indispensabile se non si voleva venir torturati. La macchina della paura aveva bisogno sempre di nuovi nomi, per poter alimentare il terrore, per allargarlo”, ha affermato D’Alessio.

Minoranze discriminate

In questo primo periodo sull’isola ci furono circa 16mila prigionieri, molti dei quali appartenevano ad una qualche forma di minoranza. Gli italiani furono circa 400, che rapportati al totale dei prigionieri erano ben di più della percentuale di italiani che vivevano in Jugoslavia. Una sorte ancora peggiore toccò ai montenegrini, che sull’isola erano il 21 per cento dei prigionieri, a fronte di una popolazione totale molto più esigua. Non ci sono documenti che attestino una discriminazione etnica in base alla quale si finiva sull’isola, ma come spiegato da d’Alessio capitava che gli italiani risultassero comunisti un po’ meno convinti e in alcuni casi questo bastava per un programma di rieducazione forzata.

Regole assurde

Sull’isola vigevano alcune regole che andavano apprese molto in fretta per evitare guai peggiori di quelli ai quali si era già condannati. “Non si doveva mai dire di essere innocenti. Il motivo era molto semplice: l’innocenza avrebbe implicato un fallimento dell’UDBA, la polizia segreta Jugoslava, e questo era inconcepibile. Sull’isola erano tutti colpevoli e dovevano essere tutti grati al sistema per averli portati sull’isola, perché così avrebbero potuto pagare per i propri misfatti e rientrare in società. Anche lamentarsi delle cattive condizioni di detenzione era tassativamente proibito. O meglio, si poteva fare, ma questo non portava mai all’effetto sperato, anzi, era uno dei modi più sicuri per finire in cella di isolamento”, ci ha spiegato D’Alessio.

Un’esperienza forte

Roberto Pillepich ci ha raccontato di essere stato sull’isola per la prima volta e di essere rimasto estremamente colpito di quello che un essere umano è in grado di fare ad altri esseri umani. “Sapevo che qui c’erano condizioni orribili ma non immaginavo tanto. Ora voglio documentarmi di più su questo posto, leggere delle testimonianze e approfondire l’argomento”, ha affermato Pillepich.

“È un’isola che colpisce per il profondo contrasto: la bellezza del sito, una bellezza struggente, come solo la pietra di Dalmazia sa restituire e la memoria del dolore di cui si sente la presenza fisica. Ci sono episodi della storia del ‘900 che continueranno a provocare sofferenza finché gli uomini non avranno il coraggio di fare i contri con ciò che l’epoca ha suscitato. Qui c’è bisogno di chiarezza per riuscire a guardare in faccia la natura senza pensare alle tante tragedia di cui è stata testimone”, ha affermato Rosanna Turcinovich.

Sandro Vrancich, ideatore e organizzatore di questa esperienza, ha spiegato di aver scelto di visitare l’Isola Clava e quella di San Gregorio proprio per questi motivi e ha espresso il desiderio che il governo croato faccia qualcosa per ricordare al meglio quello che è successo in questi luoghi. Vanni D’Alessio ha confermato come spesso la Croazia abbia un problema nell’affrontare la propria storia e memoria e riconoscere il valore di determinati luoghi storici. Per dare maggior forza a questa tesi D’Alessio ha raccontato l’assurdità di come il monumento in memoria delle vittime del campo di concentramento di Arbe sia stato costruito con le pietre e con il lavoro dei detenuti del campo di concentramento dell’Isola Calva. Un’assurdità paradossale.

 

Foto Ivor Hreljanović
Foto Ivor Hreljanović
Foto Ivor Hreljanović
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Foto Ivor Hreljanović
Foto Ivor Hreljanović
Foto Ivor Hreljanović
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Foto Ivor Hreljanović
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