Ma chi sono questi croati?

0
Ma chi sono questi croati?

Ma chi sono questi croati? Se lo chiese la stampa internazionale, per la prima volta su larga scala, quando ai Mondiali di Francia 1998 la Croazia di Boban e Šuker conquistò il terzo posto. Stringere la medaglia di bronzo tra i denti, come a voler dire che era vera e che non si stava sognando, fu la foto di Šuker che consegnò la Croazia non tanto alla storia, quanto alla prospettiva di farne parte, finalmente, in meritata dignità.
A quell’epoca, politicamente la Croazia era uno stato democratico ancora in fasce, geo-strategicamente fragile, economicamente disorganizzato e psicologicamente dilaniato. Reduce dei postumi traumatici di un conflitto sanguinoso in cui, al suo diritto alla sovranità, non fu risparmiato nulla, la Croazia trovò in quella vittoria la legittimazione ufficiale alla propria esistenza.
Esserci, avere di nuovo un’identità autonoma dopo quasi dieci secoli di congedo, fatta eccezione di pochi brevi interludi vissuti all’ombra dei grandi d’Europa, per altro collassati in vario modo nel risucchio vorticoso della storia moderna, fu interpretata come un’occasione di rilancio, una condizione di sprone da cogliere senza indugi.
Con quella vittoria riemersero i primi simboli dell’appartenenza: colori, bandiere, inni. In Europa i croati c’erano, ne avevano sempre fatto parte. Adesso era giusto ricordarsene e chiamarli di nuovo per nome. Perché volerci essere, in effetti, non significa voler dominare: è una sana rivendicazione del proprio legittimo diritto alla presenza, una condizione per altro naturale dell’esistenza. Chi è presente non per forza è tenuto a rivaleggiare con gli altri, per imporre la propria egemonia sulla collettività con toni aggressivi o denigratori, benché una parte della tifoseria, quella più irriverente e meno evoluta (intesa senza distinzioni etniche), preferisca esprimersi così (siamo il meglio, siamo invincibili, voialtri a casa, arbitro cornuto, ecc.). C’è un nuovo capitolo di storia, appena aperto alle soglie di questo ventennio, che ci sta invitando a leggere i tempi in prospettiva diversa.
A vent’anni di distanza da quell’esordio internazionale, i ragazzini che allora tifavano per le strade con le guance dipinte di rosso-bianco-blu e le bandane a scacchiera sulla fronte, nel 2018 si ritrovano adulti, e ora che sono stati loro a giocare su quello stesso campo erboso, sotto agli occhi del mondo, ci si è aspettato che divenissero degli eroi.
Disse Heinrich Heine “povero è lo stato che ha bisogno di eroi”, ma mi permetto di aggiungere che è di gran lunga peggiore la condizione di quello che non ne abbia mai avuto nessuno. Un eroe, il vero eroe, è sempre un idealista che qualcuno – il miope, lo sciocco, l’ingiusto – vota al martirio. Tra i due, quello deprecabile, tuttavia, è semmai l’ultimo. Fare il tifo per la propria squadra, condividere le sue vittorie gioendone in maniera sana e meritata, non significa cedere alle lusinghe di un nazionalismo esasperato – un rimprovero rinfacciato da certe frange sedicenti neutre, soprattutto dopo i sorprendenti festeggiamenti dei croati, cui persino Google, per tutta la giornata di lunedì 16 luglio, ha dedicato l’intestazione.
Il dilemma, alla Germania, creò una reazione di paralisi etica nel 2006, quando tifare per i propri ragazzi, lasciandosi andare alla piena delle emozioni e all’arcobaleno della gadgettistica in mano alle folle, sembrò indecoroso in rapporto all’archivio poco emerito del proprio passato. Per la Croazia, oggi, tifare ha tutt’altre valenze, quanto è vero che diverso è il suo appello alla coscienza di quell’Europa che, se l’ha fatta soffrire per la riconquista della propria indipendenza, oggi se la ritrova di fronte come una madre il proprio figlio, dovendo rendicontare al mondo la qualità dell’educazione impartitagli.
L’integrità dei grandi, potenti, ricchi ed invincibili (il giocatore più costoso, le squadre più famose, la nazione più gloriosa), si sta sgretolando a favore dei piccoli, di quelli su cui nessuno avrebbe mai scommesso. Così, piace un nuovo modello di eroi al plurale, educati o cresciuti lontano da casa (11 calciatori della nazionale croata giocano in club prestigiosi europei), ma che ai mondiali avanzano insieme, in gruppo, a costo di gran sacrifici fisici e mentali.
L’egopatia, come sentimento dominante della collettività, che sia una squadra in cerca del suo campione, o un’intera nazione in cerca dei suoi eroi marziali, da coronare e poi esibire in vetta al totem pagano della gloria imperitura, si vede sostituire dalla solidarietà di un gruppo affiatato che, al suo interno, è formato da individui dai ruoli interscambiabili. Niente protagonismi, ma spirito di squadra. Team mobile con ruoli flessibili, non gerarchie verticali in cui, come in un orologio, ogni rotella deve sì ruotare interagendo con le altre, ma restando ben incastrata nel proprio asse.
Questo è un modo completamente nuovo di intendere il gioco. Di più: di intendere il lavoro di gruppo, che si fa orizzontale e rizomatico. La Croazia, per la prima volta nella storia, è entrata in finale. Le metafore si inseguono, la cittadinanza è in visibilio. La vittoria d’argento porta con sé onori, ricchezza e prestigio. Un’aura magica che dal singolo (la squadra) si irradia a macchia d’olio all’intera nazione (orgoglio, dignità, autostima), riverberandosi in positivo sulle sue infrastrutture, l’economia e sul turismo.
Effetti collaterali per nulla trascurabili, visto il giro d’affari potenzialmente coinvolti. Tuttavia è altro, ciò che resta: l’inedita lezione che questa piccola (poco più di 4 milioni d’abitanti) franta (altrettanti residenti all’estero) Croazia ha scritto negli annali del futuro europeo. Si vince servendo la collettività. Quegli altri tipi di vittoria – la coppa, le medaglie, i premi, i soldi – appartengono alla cronaca, non alla storia.

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display