Fabrizio Radin: «Una comunità che genera infelicità non ha raggiunto il suo scopo»

Sulle aspettative riposte nella politica e sugli errori in cui incorre chi la esercita. Una riflessione profonda e acuta sulla società in cui viviamo e le scelte che gli italiani di queste terre e le loro associazioni dovranno fare se vogliono mantenere il ruolo che si sono conquistati

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Fabrizio Radin: «Una comunità che genera infelicità non ha raggiunto il suo scopo»
Foto: GORAN ŽIKOVIĆ

L’intervista con Fabrizio Radin avrebbe potuto continuare all’infinito, considerata la mole di argomenti che abbiamo trattato: un fluire di pensieri e ricordi, preziose testimonianze di chi ha vissuto sulla propria pelle le vicende della nostra Comunità, di chi è stato, e lo è tuttora, uno dei suoi protagonisti. Nel suo lungo percorso professionale – è stato politico, amministratore pubblico, dirigente scolastico, attivista, persona attenta ai cambiamenti della società –, pur ricoprendo incarichi rilevanti che richiedevano determinazione e responsabilità, come quello di vicesindaco di Pola e di governatore dell’Istria, ha sempre evitato di mettersi in prima fila. Forse perché è una persona schiva, forse perché è prudente. Ma, una volta levata la “corazza”, si rivela un interlocutore gradevole, dalla battuta sempre pronta, spiritoso e un po’ sarcastico.
Volevamo parlare in primo luogo dell’Istria, dei suoi traguardi, dei suoi problemi, dei trent’anni dall’istituzione della Regione. Ma poi, inesorabilmente, abbiamo toccato questioni che premono sulla Comunità nazionale italiana, anche considerati i ruoli ricoperti sia nell’ambito dell’Unione italiana – è stato, tra l’altro, consigliere dell’Assemblea e presidente del Comitato per lo Statuto, oltre che “giuntino” responsabile del settore scuole (sua l’iniziativa del bonus, versato ai docenti delle nostre istituzioni, nei primi anni Novanti, per fermare l’emorragia in un periodo di paghe bassissime) – che alla guida del sodalizio di Porta Ercole, oltre a dirigere l’ente giornalistico-editoriale Edit di Fiume. E anche sui problemi di “casa nostra” è stato molto schietto e diretto, in ultima analisi fondamentalmente sincero. Ci ha offerto degli spunti di riflessione, pur immaginando che le sue parole avrebbero potuto creare un po’ di scompiglio. O forse no?

Quali dei valori fondanti, quelli legati alla costituzione della Regione Istria, che ha festeggiato i trent’anni dalla fondazione, sono stati mantenuti? Mi riferisco a valori come coesistenza, autonomia, anche fiscale, cavalli di battaglia degli esordi…
“Gli ideali di convivenza tra le varie etnie, le varie nazionalità, soprattutto di quelle che possono vantare una presenza storica, secolare sul territorio, sono stati mantenuti, perché questo è un elemento culturale basilare, costituente in ambito regionale. Se qualcosa si è riusciti almeno in parte a salvaguardare è il senso d’appartenenza all’Istria, questa presa di coscienza delle nostre peculiarità che io definirei emancipazione e che ha coinvolto anche una delle componenti presente da sempre, a memoria d’uomo, su questo territorio: la popolazione latina che si identifica nella Comunità nazionale italiana. Non potrei dire che in questi trent’anni la Comunità nazionale italiana in Istria sia stata deprivilegiata, maltrattata, marginalizzata, non lo posso sicuramente affermare. Anzi, posso tranquillamente sostenere, senza il timore di venire smentito, esattamente il contrario. Che poi le aspettative fossero magari un tantino maggiori, questo certamente sì”.

Nel mese di novembre è stato organizzato a Cittanova un incontro tra alcuni degli ex governatori istriani nella ricorrenza del trentesimo della fondazione della Regione. Vi hanno preso parte Stevo Žuić, Ivan Jakovičić, Valter Flego e Fabrizio Radin.
Foto: GORAN ŽIKOVIĆ

Una generazione che sognava
In quale senso?
“Nel senso che nella realtà le aspettative erano più grandi in tutte le popolazioni dei Paesi che oggi sono indipendenti, ma che in passato hanno costituito l’ex Jugoslavia. Indubbiamente c’è stato, inesorabile, l’influsso della guerra degli anni Novanta, poi di un dopoguerra che è stato parimenti difficile da gestire e, contemporaneamente, del revival di tutti i nazionalismi che, almeno in Istria, sono presenti, per ora, in una forma più attutita. Il merito di ciò va attribuito ad una politica che ha tenuto fermo il punto di una coesistenza pacifica tra le varie etnie, soprattutto quelle che sono da secoli presenti su questo territorio, sia come popolazione di maggioranza che di minoranza”.

A suo avviso, i meriti della coesistenza e della tolleranza vanno attribuiti alla Dieta democratica istriana?
“Vanno attribuiti a una generazione di persone uscite da un regime, da un sistema, certamente autoritario, che però hanno sperato, tentato e fortemente voluto costruire una comunità sociale più democratica e aperta. Il merito va in primo luogo alla generazione dei nostri padri che hanno conosciuto periodi, per molti aspetti, sicuramente più difficili di quelli che la nostra comunità nazionale sta affrontando oggi. E non mi riferisco solo ai padri degli appartenenti alla comunità nazionale italiana, ma pure ai padri di tutti coloro che hanno radici in questo territorio e a tutti coloro che in questo territorio sono arrivati dopo e sono stati accolti, inclusi e integrati. Beninteso le frange estreme, purtroppo, esistono ovunque, ma sono molto di meno presenti in Istria rispetto ad altri territori. Almeno per il momento”.

Lo capiremo alle prossime elezioni…
“Il mondo sta cambiando molto velocemente ed è difficile da interpretare, è sempre più arduo dare un senso alle cose che ci succedono intorno. Oggi, dopo che per tanti anni ho ricoperto posizioni da funzionario, mi sto rendendo conto di circostanze e aspetti della vita che prima, fatalmente, mi sfuggivano. Quando ricopri cariche politiche la percezione che hai della gente è quella del funzionario che riceve le parti. Le persone si rivolgono a te perché hanno dei problemi e sperano di risolverli, oppure hanno degli interessi e pensano di realizzarli grazie alla tua intercessione, hanno dei bisogni e pensano di riuscire a soddisfarli contattando il rappresentante dell’istituzione.
La percezione del funzionario, del politico è, volente o nolente, sempre di parte, distante, alterata dallo stesso ruolo di vertice che ricopre, per cui non è sempre in grado di mettere a fuoco la realtà delle cose e, soprattutto, il profilo autentico delle persone con cui viene a contatto. Persone che, in una parte ancora rilevante dei casi, si aspettano da lui ciò che non può e non deve fare, soprattutto da quando gli spazi di autonomia della politica si sono sempre di più ridotti, per effetto anche di tutto quel corollario di leggi e di procedure che ci ha portato in dono l’ingresso nell’Unione europea.
Quando sono uscito dalla politica, ho avuto il modo e il tempo di guardarmi intorno, di osservare. Di formazione sono sociologo e la gente, i fenomeni sociali, mi interessano, mi incuriosiscono. Ciò che si intravede in questo momento è un fenomeno paradossale: è evidente un’insoddisfazione generale nei confronti di tutto e di tutti, soprattutto della politica, diffusa tra i tanti che purtroppo hanno fondate ragioni di essere insoddisfatti perché seriamente deprivati da un punto di vista materiale, ma il malcontento è diffuso pure tra la minoranza benestante, se non proprio ricca, la quale evidentemente non sopporta limiti all’impulso che la spinge ad accumulare sempre di più.
Una comunità sociale che genera infelicità non ha raggiunto il suo scopo. E se questo è il risultato ultimo della competizione individuale immanente al meccanismo del mercato senza freni né scrupoli, noi che ancora oggi conserviamo il ricordo del mondo progettato da coloro che venivano da lontano, dovremmo porci più di una di domande”.

Possiamo ritornare al tema dell’autonomia dell’Istria?
“Dell’autonomia non ne abbiamo visto manco l’ombra. Qualcosa di somigliante alla sussidiarietà è apparso nel 2000 con il primo governo di centrosinistra, guidato da Ivica Račan. In quel periodo furono trasmessi alle autonomie locali i diritti di fondazione degli istituti scolastici, di livello elementare e medio superiore nonché, molto formalmente, degli ospedali, ma solo di quelli che non avevano lo status di Centri clinici, come ad esempio l’ospedale di Fiume.
Adesso tutti gli ospedali ritornano di proprietà dello Stato, mentre le scuole, nelle loro prerogative fondamentali (retribuzione del personale, nomina dei dirigenti scolastici, stesura dei programmi di studio) non hanno mai dipeso, ad essere sinceri, dalle unità di autogoverno locale e regionale. Qualcosa si è tentato di fare con l’introduzione di un programma scolastico che studia gli usi, i costumi e le tradizioni locali”.

Amministrazione fuori dall’ordinario
A un dato punto della sua carriera, si è trovato presidente ff della Regione Istria. Quali ricordi ha di questo periodo?
“L’ultimo incarico che ho ricoperto come facente funzioni di presidente della Regione è stato un periodo contraddistinto dall’ ‘ordinaria amministrazione…’” (sorride, ndr).

Non mi venga a dire che quel periodo è stato di ordinaria amministrazione…
“Mi sono trovato, dall’oggi al domani, catapultato ai comandi di un treno in corsa che stava viaggiando ad una certa velocità con il pericolo di deragliare, nel momento stesso in cui a Pola era fallito il cantiere navale Scoglio Olivi e con questo dissolti 150 anni di storia industriale della mia città. Più o meno, quindi, nient’altro che ‘ordinaria amministrazione’. Nei due anni in cui sono stato presidente della Regione è imploso lo stabilimento per la riconversione e il trattamento dei rifiuti di Castion. Mi si consenta di notare come, nel frattempo, le cose siano notevolmente peggiorate, ma senza più provocare quella risonanza mediatica alla quale eravamo sottoposti prima.
Sempre in quel periodo è stata varata una legge che ha imposto a tutte le Regioni l’obbligo di acquisire e integrare nei propri organici gli uffici regionali dell’amministrazione statale. Ciò significava ulteriori prerogative, deleghe e compiti da espletare in nome e per conto dello Stato; un organigramma del tutto nuovo da pianificare, finanziare e mettere a regime; altrettante persone da affiancare a quelle già presenti nell’organico in Regione, da collocare a ruolo e rendere operative, cercando di non provocare attriti e di non pregiudicare il normale funzionamento dell’apparato amministrativo. È stato proprio un compito, come ci tengo a ribadirle, di ‘ordinaria amministrazione’ (e sorride di nuovo, ndr). E poi è arrivata, questa volta non una guerra, ma solo una pandemia, per cui posso dirle, in tutta franchezza, che il mio mezzo mandato da presidente della Regione d’Istria è stato ‘estremamente tranquillo e poco stressante’”. (ride… ndr.)

Lo rifarebbe, con il senno del poi?
“Io non ho mai desiderato fare il presidente della Regione. È semplicemente successo. Infatti, nel 2019 l’allora presidente Valter Flego venne eletto al Parlamento europeo, il che non era una cosa facile e nemmeno scontata, di conseguenza non poteva più ricoprire l’incarico di presidente perché la legge non lo consente. Io ero il suo primo sostituto, in rappresentanza della Comunità nazionale italiana, candidato su proposta della Dieta democratica istriana. Se non avessi accettato di assumere la carica di presidente della Regione, ci sarebbero state le elezioni anticipate. Nota bene: c’era una corrente di pensiero abbastanza rilevante all’interno della Dieta che propendeva, per tutta una serie di motivi, proprio per quest’ipotesi.

«Una stranezza…»
A dire il vero, penso di non avere mai avuto la vocazione della prima linea. È il ruolo di vice quello che mi si addice, la prima linea non l’ho mai cercata, anche se spesso mi ci sono trovato in mezzo. Sono stato due volte assessore: alle minoranze a livello regionale e assessore alle attività sociali della città di Pola, dicastero che all’epoca comprendeva tutto fuorché i servizi comunali e l’assetto territoriale e urbanistico. Sono stato due volte preside della Scuola media in lingua italiana di Rovigno e, per un anno e mezzo, ho ricoperto il ruolo di ff. di direttore dell’EDIT, quando la casa editrice si trovava in condizioni finanziarie estremamente difficili. Ho ricoperto per 14 anni il ruolo di presidente della Comunità degli italiani di Pola, pro bono, senza mai ricevere un soldo, tanto per precisare. Puro volontariato e immensa responsabilità. Infine, sono stato per due anni, in condizioni ‘del tutto normali e di ordinaria amministrazione’, presidente della Regione d’Istria, ovvero il primo presidente della Regione appartenente alla Comunità nazionale italiana dal 1945. Una stranezza…”
Non dovrebbe essere una stranezza, considerata la diffusa idea che in Istria vi sia il rispetto e la convivenza tra le diverse etnie, ma anche il bilinguismo previsto dallo Statuto regionale.
“Ripeto, c’era una corrente di pensiero che propendeva per altre soluzioni, ma non a causa della mia appartenenza nazionale o, per dirla tutta, non era questo il motivo principale delle loro riserve. Però a un certo punto mi è arrivata una telefonata da parte del presidente effettivo della Ddi, Ivan Jakovčić, che mi ha detto due cose molto semplici”.

Ma Jakovčić in quel momento non era presidente della Dieta…
“Io sto parlando del presidente effettivo della Dieta. Jakovčić mi ha detto due cose molto semplici. Una in dialetto istroveneto: ‘non sta far el mona’ e dopo in croato ‘che non ti salti in mente di rinunciare all’incarico’. E dunque, penso che in quei due anni, alla fin fine, diciamolo alla maniera propria dei democristiani di una volta: penso di avere operato per il bene pubblico e di non aver fatto dei danni.
Ho lasciato una situazione stabile al mio successore e da questo punto di vista posso dire di essere soddisfatto. Se poi mi chiedesse se lo rifarei, le rispondo di no. No, assolutamente no, perché ci sono due tipi di persone al mondo: quelli che si tengono lo stress e il nervoso dentro e quelli che le scaricano sugli altri. Le persone che si tengono le loro pulsazioni negative dentro cercando di fare bene il proprio lavoro, si rovinano la salute. Gli altri invece, quelli in grado di scaricare, rovinano la salute a coloro che gli stanno intorno.
Inoltre, il politico deve lavorare sulla propria promozione. Io ho sempre evitato i social, non sono bravo nel marketing politico, neanche nel raccontare le cose che realmente si fanno, le cose che comunque ho fatto. Non sono proprio in grado di farmi pubblicità e ho quasi una repulsione in questo senso. E poi sono uno che non saluta…”

E perché?
“Il più delle volte perché soprappensiero”.

Ma un bel sorriso non costa niente…
“Sentivo troppo la precarietà del ruolo e spesso non ero, uso un eufemismo, di buonumore. È un tratto caratteriale, acquisito ma incorreggibile. Sono in tanti che mi percepiscono come una persona ruvida, ruspida, assai poco gentile. Il fatto è che da sempre mi sono occupato unicamente di tenere in piedi la baracca di turno, quella che avevo ricevuto in responsabilità e non ho mai sentito il bisogno, te lo dirò proprio in dialetto che viene meglio, ‘de farghe grizoli ala gente’”.

La «lezione» di Ugussi
Quali insegnamenti ha tratto dalla sua lunga carriera di pubblico amministratore?
“Ai tempi del ginnasio ho avuto come professore Romano Ugussi, oggi purtroppo defunto, persona di indiscussa notorietà non solo all’interno della nostra Comunità nazionale. A metà degli anni ‘80 mi era stata offerta l’opportunità di sostituirlo nell’insegnamento delle materie di studio umanistico-sociali al Centro scolastico medio in lingua italiana di Pola, dato che era in procinto di trasferirsi alla Facoltà di pedagogia. Chiesi ad Ugussi: ‘professore, come mi devo comportare, qui, con i ragazzi?’. E lui mi ha detto una cosa molto semplice: ‘non essere cattivo con i ragazzi, cerca di essere benevolo nei loro confronti, non fare l’errore di imitare i comportamenti autoritari di altri’.
E io ho seguito quel consiglio, non solo a scuola ma anche ricoprendo incarichi nell’amministrazione pubblica, dove i rapporti tra le persone non sono quasi mai idilliaci: sempre orientato a cercare la collaborazione del personale dipendente e poco propenso a dare ordini. Un metodo che contribuiva a creare un’atmosfera gradevole sul posto di lavoro oltre a dare, in un’altissima percentuale di casi, dei risultati concreti. In altri termini, i rapporti gerarchici autoritari (per non parlare del mobbing) nell’amministrazione pubblica, dove qualunque impiegato di livello più alto, nel suo campo specifico, ne sa’ il doppio più di te, in presenza di una costante scarsità di risorse umane professionalmente formate, non dà alcun risultato e non porta da nessuna parte”.

Tra le persone che hanno in un certo senso influito sulle sue scelte, sull’andamento della sua carriera vi è indubbiamente Nino Jakovčić. Che cosa la lega a Nino? E, secondo lei qual è stato il suo ruolo nell’affermazione e nella presentazione, anche all’estero, della Contea istriana?
“Sicuramente era un politico di alto profilo in grado di interpretare quel ruolo in qualsiasi parte e a qualsiasi livello. Un talento naturale, soprattutto per quel che riguarda il marketing e la comunicazione politica, dotato di un carisma che ha saputo usare per promuovere l’Istria in Croazia, ma anche in Europa, come un qualche cosa di particolare, di specifico, sia quando lo era di fatto ma anche quando, forse, non lo è stata più. È stato un divulgatore della politica, delle volte anche un dispensatore di sogni. In definitiva, ha saputo vendere l’Istria: ne ha fatto anche un brand, rendendola, talvolta, più bella e appetibile di quanto in effetti lo sia veramente”.

Cambiamo argomento. Che cosa ne pensa dell’elezione diretta dei sindaci?
“Sono stato testimone partecipe di due sistemi di conduzione della politica locale, completamente diversi tra loro. Il primo prevedeva l’elezione indiretta del presidente della Regione e del sindaco in assemblea, nonché la presenza di una Giunta, anch’essa eletta in assemblea, che li coadiuvava nell’espletamento della funzione esecutiva (un modello, questo, applicato fino al 2009, ndr.). Nel secondo sistema, attualmente in vigore, sindaci e presidenti della Regione sono eletti direttamente dai cittadini, detengono di persona la funzione esecutiva mentre la Giunta sparisce.
È opinione diffusa che in questo sistema la figura del sindaco diventi più efficiente. Io penso invece che sia più solo, più timoroso e oppresso dal carico delle responsabilità, assai meno tutelato nell’assumere decisioni rispetto a quando le sottoponeva al voto in sede di Giunta e, in definitiva, molto più orientato ad occuparsi della propria promozione personale (la campagna elettorale diventa un fatto quotidiano) che non dei problemi reali, specialmente se complessi e di lunga, difficile soluzione.

Un ruolo più defilato
Inoltre, nel sistema di elezione dei sindaci e dei presidenti di Regione che passava attraverso l’Assemblea, i vicesindaci o i vicepresidenti della Regione contavano eccome, avevano diritto di voto in Giunta, non correvano il rischio di trasformarsi in ficus, in piante ornamentali e protocollari, il cui ruolo effettivo dipende esclusivamente dalla disponibilità del capo di concedere delle deleghe concrete al proprio vice, oppure di non concederle affatto. Nel sistema attualmente in vigore questo rischio non solo è presente, ma è all’ordine del giorno”.

Ma lei nel ricoprire l’incarico di vicesindaco di Pola non ha voluto fare il ficus… Nasce da lì il conflitto con Miletić?
“Ma no, semplicemente si trattava di usura nei rapporti dovuta al cambiamento del sistema elettorale. Si poteva funzionare bene in un sistema che prevedeva una Giunta, perché come vicesindaco si interpretava un ruolo concreto e decisionale all’interno dell’esecutivo. Non funzionava più in un sistema a elezione diretta, o meglio: si era costretti a funzionare in maniera più defilata”.

Si spieghi meglio…
“Defilata vuol dire che se riuscivo a fare delle cose le facevo perché avevo dietro le spalle un’esperienza di amministratore, di assessore, di uomo dell’apparato, chiamiamolo così, per cui conoscevo i meccanismi e le persone che potevano risolvere i problemi e, con le dovute maniere e con il dovuto tatto, facevo in modo che venissero risolti. Sempre nel rispetto delle norme e per il bene comune, mai per interesse personale. Senza avere il bisogno di chiedere ogni volta il permesso al capo dell’esecutivo. E quando proprio di questo consenso non si poteva fare a meno, dovevi essere in grado di esporre il problema e di proporre la soluzione in cinque minuti, corrispondenti all’arco di tempo medio in cui potevi contare sulla necessaria attenzione”.

Con il pensionamento lei ha deciso di uscire dalla politica?
“Le dirò che è molto più facile entrare in politica che uscire dalla politica. Il passato ti rincorre, anche se cerchi di metterti da parte in maniera elegante, il passato continua a rincorrerti. Se poi hai cercato di essere un dirigente probo e onesto, la fortuna consiste nel fatto che è solo il passato che continua a rincorrerti. E non altre istituzioni dello Stato, come talvolta succede causa l’andazzo zoppicante della politica contemporanea”.

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