Giù le mani dai poeti

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Giù le mani dai poeti

Magris non si occupa dei motivi della provocatoria iniziativa di “Casa Pound” e delle reazioni che ne sono scaturite, ma di come la politica, ovvero un certo tipo di politica, si avvalga dei simboli della cultura, cerchi di contaminarla per perseguire dei fini angusti e ottusi. Di come, in altre parole, si usino, anzi, si sfruttino i nomi dei poeti, la carica simbolica della loro arte, per fare propaganda, per trasformarli in uno strumento di lotta ideologica, di spicciola battaglia politica quotidiana.
Certo Ezra Weston Loomis Pound – afferma Magris – è stato fascista. I discorsi dell’autore de “The Cantos” alla radio italiana, durante il Ventennio, contro gli Stati Uniti, il suo Paese in guerra (era nato nel 1885 a Hailey, nell’Idaho) sono “una colpevole dismisura che è stata severamente punita con l’oltraggio e la volgarità della vendetta”. Gli americani a guerra finita misero Pound in prigione a Pisa e poi per tredici anni in un manicomio criminale a Saint Elizabeth, forse per evitargli la condanna capitale per alto tradimento.
Pound, grande amico di Thomas Eliot, James Joyce ed Ernest Hemingway, era rimasto affascinato dai principi sociali del primo fascismo, quello sansepolcrista, ma non aveva visto – o non aveva voluto vedere – il totalitarismo dispotico, i delitti, le violenze insiti in quel regime.
Non è bene – dice Magris – chiedere ai poeti indicazioni politiche. Alcuni dei più grandi scrittori del Novecento sono stati nazisti, fascisti, stalinisti: Pirandello, Celine, Marinetti, Hamsun. “Quei grandi – ci spiega lo scrittore e germanista triestino – che si sono volutamente accecati come Edipo ci aiutano spesso, senza volerlo, a scoprire la giusta strada, che va in direzione opposta a quella presa da loro”.
Certo, sul piano delle scelte etico-politiche di fronte ai regimi totalitari ci sono, nel campo letterario, altri e più illustri esempi…
Magris ci pone però di fronte alla capacità e al dovere di “distinguere”: una qualità indispensabile nel campo intellettuale, culturale e letterario, ma parimenti utile pure in ambito politico. Distinguere fra pulsioni artistiche, fra le verità dell’essere che soltanto la letteratura e la poesia sanno svelare e le scelte quotidiane della politica, gli orientamenti dettati dall’ammaliante quanto ambiguo canto dell’ideologia. Fra la grandezza e l’abisso della nostra umanità, fra ciò che ci rende perenni, immortali – l’arte, la poesia – e ciò che invece ci corrompe, ci usa, ci spreme: il nostro essere nel branco, oggetto di processi sociali, del contraddittorio gioco della vita politica.
Che è al contempo anche la capacità di “discernere”, in noi stessi, fra le facce contrapposte della nostra identità: nel nostro io alberga spesso lo spirito dell’autodistruzione assieme a quello della salvezza, quello della speranza, dell’umanità, con il loro contrario, con lo spirito del carnefice.
Non si tratta di accettare il male, che è doveroso, imprescindibile sapersi sempre schierare a favore di ciò che riteniamo sia giusto, di ciò che è bene; ma capire la nostra complessità, il fatto che in qualche caso la scelta deve essere più profonda, trasversale e non una posizione di comodo, il frutto di una semplificazione.
Si tratta, in altre parole, del più arduo, improbo e faticoso dei compiti: quello di giudicare. Un atto cosciente che è alla base della tolleranza, dei valori più profondi della democrazia, dello spirito umano. Elio Vittorini nel romanzo “Uomini e no”, afferma che dobbiamo farci carico anche di quella parte dell’umanità che consideriamo “disumana”: perché è troppo facile dire “non sono umani”. Dobbiamo capire ciò che ha consentito loro di divenire tali, come in altre circostanze anche noi avremo potuto esserlo, quanto di loro c’è in fondo anche in noi.
Nel suo “La banalità del male” Hannah Arendt ci spiega, analizzando il processo ad Eichmann, come il totalitarismo allontana l’uomo dalle proprie responsabilità, consentendo anche al più comune degli uomini di compiere azioni inqualificabili e al male di diventare “normale”.
Le ideologie totalitarie soffocano ogni capacità di distinguere, di valutare, di essere tolleranti (il che non significa essere indulgenti): valori che sono il sale della democrazia, della civiltà.
Capire, distinguere, comprendere la complessità: è il compito dei poeti, dei letterati, degli uomini di scienza. Dovrebbe essere anche quello della politica. Una politica fatta di individui che pensano con la propria testa e non parti di una massa informe; di persone vigili e critiche tenute sempre a rispondere alla propria coscienza, a valori etici e morali, al principio di “responsabilità”.
Ecco perché dobbiamo dire fermamente no alle azioni di “Casa Pound” e al contempo continuare a essere tolleranti. Perché a Trieste, come a Fiume, non dobbiamo cadere nelle loro provocazioni. Ecco perché queste polemiche non ci debbono scomporre, non ci devono irrigidire, non debbono svilire la nostra capacità di “distinguere”, di continuare, ogni giorno, nel nostro piccolo, a costruire una società democratica, aperta al rispetto delle diversità, della cultura. Ecco perché, con Magris, diciamo: “Giù le mani dai poeti”.

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