Si è spento Furio Percovich fiumano nell’anima e nel cuore

È venuto a mancare pochi giorni fa a Montevideo, in Uruguay, all’età di ottantanove anni

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Si è spento Furio Percovich fiumano nell’anima e nel cuore
Furio Percovich. Foto: Facebook

È morto a ottantanove anni, a Montevideo, in Uruguay, il fiumano esule Furio Percovich. Nato nel capoluogo del Quarnero l’8 luglio del 1933, qui frequentò le scuole dell’obbligo fino il 1947. Il 4 marzo del 1949 lasciò Fiume con la famiglia, che scelse l’esodo e raggiunta Trieste, si sistemò in un primo momento presso lo zio, Ignazio Rusich. Visti inutili i primi tentativi di ottenere lavoro, suo padre decise di seguire la trafila dei Campi profughi e registratosi presso il Comitato fiumano di Trieste, venne inviato con la famiglia al Campo di smistamento di Udine, dove dal 30 aprile del 1949 ricevette un sussidio. Da Udine la famiglia fu quindi trasferita al Centro raccolta profughi di Latina, con una sosta di un paio di giorni al Centro raccolta profughi allestito a Cinecittà a Roma. A Latina rimasero circa due mesi. Nonostante i numerosi tentativi, il padre non riuscì a trovare un impiego e quindi decise di tornare a Gorizia, da un fratello. Tramite il suo ex datore di lavoro, l’ingegnere Tassilo Ossoinack, venne presentato a Luigi Ossoinack, già titolare de “La Marittima”, agenzia di forniture navali e di un pastificio a Fiume, nazionalizzati dopo il 1945. Imprenditore ricco di iniziative, aveva deciso di emigrare in Uruguay e rifondare a Montevideo il pastificio fiumano. Nel frattempo la famiglia Percovich aveva ottenuto di essere accolta dall’I.R.O. (International Refugee Organisation) ente delle Nazioni Unite. Trascorsero quindi circa otto mesi nel Centro raccolta profughi di Servigliano, allora provincia di Ascoli Piceno, nelle vicinanze di Fermo. Dopo alcuni viaggi preliminari fatti a Genova, al Consolato dell’Uruguay, per visite mediche e altro, il 6 luglio del 1950, con un paio di bauli e qualche valigia, la famiglia Percovich s’imbarcò sulla motonave “Andrea Gritti” della compagnia di navigazione “Sidarma”.
Furio a Montevideo lavorò dal 1950 al 1955 presso il pastificio “Adria” e dal 1956 al 1993 presso la “Banca francese e italiana per l’America del Sud”. Nel 1994 fu cofondatore del “Circolo Giuliano dell’Uruguay” composto da emigrati dalla Venezia Giulia ed esuli istriani, fiumani e dalmati. Viveva a Montevideo. Dopo il pensionamento è stato molto attivo anche nel mondo in Rete. Nonostante l’età avanzata comunicava in Internet con tantissimi fiumani, istriani e dalmati, esuli e rimasti. Fu uno dei primi collaboratori fiumani di questa nostra rubrica. Era anche uno dei fondatori del gruppo di discussione in Internet Mailing List Histria. Ebbe occasione di tornare nella sua Fiume dopo moltissimi anni, nel gennaio del 1996. Nell’agosto del 2013, in occasione di un viaggio del deputato al Parlamento croato della Comunità nazionale italiana Furio Radin in Uruguay, non mancò di incontrarlo a Montevideo.
La notizia della sua scomparsa è stata diffusa anche da “Gente d’Italia”, quotidiano indipendente fondato nel 1999 da Maria Josette Caprio e Domenico Porpiglia. A ricordare Percovich è stato Stefano Casini.
”Furio Percovich, uno dei fondatori del Circolo Giuliano, uno dei più polemici ma grandi lottatori della nostra comunità è morto” – scrive Casini. – “Lo conobbi negli anni ‘70, quando iniziavo il mio approccio al giornalismo di collettività, con L’ora d’Italia e L’eco d’Italia. Eravamo molto più giovani e lo ricordo come fino all’ultimo dei suoi giorni: con il coltello tra i denti quando si trattava di difendere i nostri diritti, le nostre tradizioni, i nostri costumi. Vincolato da sempre con i Giuliani, il Friuli Venezia Giulia, regione che ha sofferto tanto, tra guerre, massacri e terribili ricordi. Ma lui non è stato soltanto un pilastro della sua regione, anche perché, con la consorte, la grande Clelia Vedovati, hanno marcato a fuoco l’italianità in Uruguay. Lo dico perché, da tanti anni, hanno avuto un ruolo fondamentale nell’Aiuda (Associazione italo-uruguaiana d’assistenza) e in altri enti e associazioni. L’hanno presieduta, l’hanno coccolata, l’hanno resa un ente fondamentale per “aiutare” gli italiani più bisognosi. Furio ha avuto una vita piena di ostacoli, ma anche di grandi momenti e soddisfazioni: ognuno di questi momenti se li è goduti per l’Amore (con maiuscola) per i nostri connazionali. Era un po’ scontroso, al contrario della sua cara Clelia, che lo ha accompagnato tutta la vita, ma sempre con quella dolcezza mescolata con una forza di volontà di ferro. Furio si è sempre battuto per i nostri diritti. A volte anche scontrandosi con tutti, dall’Ambasciata, al Consolato, al nostro stesso giornale, ma l’ha fatto con la piena convinzione di un uomo che è stato esempio per tutti coloro che l’hanno conosciuto. Furio Percovich è stato senz’altro il più famoso della prolifera famiglia Percovich, con fratelli, nipoti e pronipoti, come Marina, per decenni segretaria personale di una dozzina di Ambasciatori d’Italia. Ma Furio è stato sempre l’emblema della sua famiglia e di tutti i giuliani e discendenti (soprattutto) che abitano in Uruguay. Da anni la sua delicata salute non gli ha mai impedito di lottare per ogni italiano che abita in questo benedetto Paese che ci ospita. Con i suoi interventi, i suoi articoli che per decenni hanno invaso le testate italiane in Uruguay, sono sempre stato molto acuto: non aveva peli sulla lingua e anche se, molte volte, è stato attaccato, tutti gli hanno sempre dimostrato rispetto. Semplicemente perché Furio Percovich è stato coerente con le sue idee e i suoi durissimi attacchi contro le ingiustizie, provenissero da dove provenissero. Ha anche raccolto tanto amore dalla comunità italiana. Immancabile, fino all’ultimo, a ogni appuntamento importante, alle visite di ministri o di Presidenti della Repubblica. La sua lingua era come un coltello affilato. La usava di rado, perché sempre lo ricorderemo con un profilo così basso che, spesso, non si notava la sua presenza: ma quando apriva bocca, quel coltello affilato faceva danno alle ingiustizie ed è sempre stato ascoltato”.
La dipartita di Furio Percovich lascia addolorati la moglie Clelia; i figli Alessandro ed Estefanía, il nipote Santiago e altri parenti, amici e conoscenti tutti profondamente colpiti dalla sua scomparsa. È stato sepolto al cimitero del Buceo (Pantheon della Collettività italiana), vicino alle rive del Rio de la Plata. Qui vogliamo rendergli un ultimo omaggio con un suo commovente breve scritto che ci inviò 27 anni fa, al rientro dalla sua ultima visita a Fiume.
Sono stato a casa mia
Quella che segue, non è una cronaca di viaggio, ma una semplice espressione delle sensazioni che provano tanti emigranti o esuli quando, dopo venti, trenta o più anni, ritornano al luogo natio. E le ho provate anch’io, come le hanno provate tanti corregionali con i quali ho parlato di questi ritorni dopo tanto tempo, e vorremmo trasmetterle anche ai nostri figli, ai nostri nipoti e a tanti emigranti che non hanno avuto, finora, la possibilità di un ritorno, magari fugace, alla casa che li ha visto nascere e, un triste giorno, partire. In occasione del Convegno svoltosi a Trieste nel gennaio del 1996, sulla Storia dell’emigrazione giuliana nel mondo, al quale partecipai rappresentando il Circolo giuliano dell’Uruguay, ho avuto la possibilità di ritornare nella Regione Venezia Giulia dopo ventisei anni dall’ultima visita e dalla quale sono partito, prima per l’Italia e un anno dopo per l’Uruguay, nel 1949.
Già durante il trasferimento in autobus, dall’aeroporto di Ronchi alla città di Trieste, a destra le scogliere della costa tra Duino e Sistiana e le brulle rocce del Carso a sinistra, mi hanno fatto ritornare indietro nel tempo: mi sembrava di esser partito il giorno prima e non quarantasette anni fa. Appena finito il Convegno, sono partito per l’Istria e Fiume. Da ragazzino, tra Trieste e Fiume, attraversavo i posti di blocco dei “drusi” titini e degli alleati che governavano il Territorio libero di Trieste.
Questa volta pure ho attraversato non uno, ma due confini. Prima quello fra l’Italia e la Slovenia, appena fuori della periferia del capoluogo giuliano e, pochi chilometri dopo, la frontiera fra Slovenia e Croazia. A differenza di ciò che avveniva mezzo secolo fa, invece dei posti di blocco ci sono i “passi di frontiera”, più civilizzati e con più tolleranza nel controllo dei passaporti, però ugualmente si soffre constatando com’è stata divisa la nostra terra e la collettività italiana tutt’ora colà residente.
Accompagnato da un amico istriano, di Albaro Vescovà, presso Capodistria (ora Slovenia), conosciuto attraverso suoi parenti residenti in Uruguay, cioè il signor Leandro Zugna/Leander Cunja, abbiamo visitato famiglie istriane che ci hanno accolto fraternamente, conversando con noi non solo nel dialetto veneto, ma anche in lingua italiana. Sono passato per un villaggio dove, da bambino, i miei genitori mi portavano in vacanza: Lindaro, presso Pisino, e mi sono soffermato a Gallignana. Ho trovato poca gente: i villaggi quasi disabitati, ormai la gente si trasferisce nelle città più grandi, lavorando per i turisti, mentre l’agricoltura langue. Il sabato a mezzogiorno arrivammo ad Abbazia, la principale località turistica sulla costa orientale dell’Istria: oltre ai numerosissimi alberghi e pensioni che risalgono all’epoca dell’Impero austro-ungarico, quando i nobili di Vienna svernavano qui, ci sono ora anche molti alberghi moderni per i turisti centro-europei e italiani.
E finalmente siamo giunti a Fiume.
La giornata era grigia, triste, eppure mi sembrò estiva. Ripercorrendo il viale d’entrata nella città, tra file di platani spogli, ho visto di nuovo la Stazione ferroviaria, la Chiesa dei Cappuccini (dove feci la Prima comunione e la Cresima), la riva del porto, il Corso, la nostra cara Torre civica, oggi senza l’Aquila, distrutta dagli invasori. Camminai a lungo per le strade, dove le persone mi sembravano dei fantasmi: più che i cambiamenti edilizi (la popolazione è passata da 60mila a 200mila abitanti, tutti venuti dalle ex Repubbliche jugoslave, per i quali sono stati costruiti infinità di rozzi grattacieli di cemento nelle colline periferiche), ciò che più mi impressionò di Fiume fu la gente che incontravo per la strada, totalmente diversa dai 50mila fiumani che la lasciarono dopo la guerra. Decisi allora di non farci caso e di ripassare soltanto i ricordi della gioventù. Cosa strana: case, muretti, alberi, distanze, strade: tutto mi sembrava più piccolo, più vicino. Però, c’è una spiegazione: come succede a tutti coloro che lasciano un posto da bambini e vi ritornano adulti, c’è il cambio del punto di vista e delle gambe più lunghe. Tutto ciò che, visto da un metro d’altezza e percorso con passetti corti, ci sembrava grande e lungo, ora ci appare diverso. Salvo questa differenza anche a Fiume, come a Trieste, mi pareva di non essermene mai andato via: tante decadi d’assenza svanirono d’incanto.
Poi andai presso casa mia, nel rione di Valscurigne, sulla collina, in periferia, da dove prima si vedevano il Golfo e le isole di Cherso e Veglia. Oggi, invece, il piazzale è pieno di case che lasciano vedere soltanto il cielo. Feci delle fotografie e poi, presi coraggio e con Leandro come interprete, salii al primo piano, bussai e chiesi agli attuali inquilini dell’appartamento dove passai la mia gioventù, il permesso per visitarlo. Erano marito e moglie, croati. Lei però parlava il dialetto fiumano e quindi mi fu possibile entrare nuovamente a casa mia. Naturalmente diversa. Però riconobbi la cucina, il balcone, le stanze… c’era ancora la porta in ferro del focolaio nel muro (il “winthofer”), trasformato però come sfogo della stufa a metano. Anche qui, tutto più piccolo mi sembrava, però, almeno spiritualmente, era casa mia.

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