Sara Alzetta: «Solo da adulta ho saputo delle tristi vicende di nonna Vittoria»

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Sara Alzetta: «Solo da adulta ho saputo delle tristi vicende di nonna Vittoria»

Perché a parlare dei nonni ci si illumina? Forse perché la loro lunga esperienza stempera le reazioni, smussa le asperità, dona al mondo sfumature morbide che vorremmo fossero la quotidianità. In effetti ci accompagnano anche nei momenti più difficile ricordandoci che c’è sempre una soluzione, che non ha senso il tormento, la via d’uscita esiste. Saggezza, forza, coscienza del fluire del tempo, nonostante tutto.

“E tutto appare in un dimensione distesa e rilassata”, conferma Sara Alzetta, attrice che lavora “in Italia” intendendo fuori da Trieste dove vive e dove realizza spettacoli e incontri ma sempre troppo pochi rispetto a ciò che si sente di dare, dopo un lungo percorso di preparazione e lavoro a Roma e a Milano.

Volto aperto, sguardo dolce e gli occhi s’illuminano quando parla di questa grande donna che nel suo immaginario è l’Istria per antonomasia: la nonna Vittoria Urizio.

“È la nonna materna, nata a Cittanova da dove è partita per andare sposa a un distinto signore ligure, seguita a ruota dalla sorella Ucci. Due donne bellissime, sorelle di uomini speciali dai quali ho assorbito tanto, soprattutto un affetto infinito. In Istria era rimasta la loro madre, la mia bisnonna, in quella cittadina sul mare che ogni tanto torno a visitare. Mi imprime nuova forza pensare a queste donne. Vittoria in particolare era aperta, di larghe vedute. Mi sono sempre chiesta da dove le venissero leggerezza e potenza, tra noi tre – io, lei e mia madre – la più vitale. Penso spesso a loro, a questa famiglia che è andata sparsa ovunque nel mondo senza lasciare più traccia nella città che li aveva visti protagonisti, vivi e vegeti, inseriti, padroni dello spazio e delle cose. Poi, il silenzio, il nulla”.

Ma della vicenda dell’esodo che cosa ti hanno raccontato?

“Per me bambina erano dei saggi, eppure non parlavano mai di questa sconfitta ma rievocavano momenti di un’altra vita, ormai consumata ma mai sfumata, durante grandi pranzi che sottolineavano le feste comandate, i riti, le tradizioni. E quando facevo domande la nonna rispondeva: non stemo parlar… Con gli anni ho capito che aveva fatto una scelta, vivere l’oggi e il domani. Il passato doveva rimanere alle spalle”.

Anche con l’avanzare degli anni?

“È mancata che ne aveva 97 e già a 90 si stupiva di aver raggiunto quella veneranda età. Ricordava spesso di aver visto l’automobile azionata a manovella, mentre maneggiava con lo smartphone senza alcun imbarazzo ma con grande curiosità. I suoi racconti sembravano quelli di Rossella O’Hara pieni di colpi di scena, grandi amori e sogni da ragazza. Con lei ho capito cosa significasse l’accoglienza, il rispetto del prossimo, l’amore degli Urizio. Sferruzzava per conferzionare maglie e sciarpe colorate che dovevano tenermi al caldo, cucinava da dio e mi amava incondizionatamente”.

In che cosa le assomigli?

“In poche cose, purtroppo, ma la sua presenza c’è sempre. Ogni giorno ripercorro la sua lezione di leggerezza e di eleganza. Immagino la bisnonna rimasta in Istria a badare all’impresa agricola: se ne andrà con l’esodo. La zia Anita che aveva sperato in una società migliore, ha deciso di andare in Africa. Ricordo una sua foto, di quelle minuscole con i bordi ondulati, appare accanto alle tipiche maschere tribali che oggi troviamo un po’ dappertutto. Lei così bianca circondata da tanti bambini di colore. Brandello di una famiglia sparsa ai quattro punti cardinali. Credo che a soffrirne fosse proprio la bisnonna Anna, che mia madre idolatrava”.

Posto che in famiglia non se ne parlava, come hai conosciuto la vicenda della tua famiglia, i particolari del loro esodo?

“È successo quando ero già grande, frequentavo già l’accademia d’arte drammatica a Roma, presa dai miei progetti di vita. Un giorno mi affidano un faldone da consegnare a padre Rocchi, si stavano consegnando le domande per i beni abbandonati. Apro il faldone e leggo, per la prima volta, questa storia che i miei generosissimi parenti mi avevano risparmiato. Rimasi colpita dall’elenco della roba che era stata lasciata in Istria, e non mi riferisco solo ai beni immobili, la mia attenzione venne colpita soprattutto dalla lunga lista di alberi da frutto, macchine agricole e tanto altro indicato in grande ordine a comporre la quotidianità della mia famiglia che non conoscevo, non almeno da quel punto di vista.
Erano ricchi.
La cosa mi colpì. D’impulso sentivo il peso di un’ingiustizia.
Venendo da persone di sinistra, ormai i miti dell’ideologia erano già sfumati, da quel cigolìo del faldone che s’era aperto si liberava, all’improvviso, tanta tristezza. Gli istriani hanno pagato per tutta la nazione, lasciando una terra che era identità, appartenenza. La nonna ripeteva bon, bon non stemo parlar… Lei amava Trieste più di me o di mia madre. Ora ne capivo la vera ragione, cambiare pagina, ricominciare, era la sua filosofia. Ma mi chiedevo all’improvviso attraverso quali percorsi era avvenuto tutto ciò, anche la sua rinuncia al ritorno? E il mosaico andava a ricomporsi. Forse sono diventata adulta in quel momento. Ed ho capito perché l’altra nonna, la triestina Argia, si fosse sempre sentita padrona della città, mentre Vittoria, pur amandola, si comportava da ospite”.

Che cosa succede a chi lascia, cambia un mondo di conoscenze, abitudini, affetti?

“Non si trattava solo di perdere la casa, le abitudini, il territorio, l’appartenenza. Non c’è una traduzione automatica per chi se ne va, c’è una perdita profonda per chi lascia il luogo da cui proviene. Questo è ciò che ho capito quando ho aperto il faldone. Non c’è più un luogo in cui onorarli e ricordarli, immaginarli nella giovinezza: tutto questo mi fa stare male ma mi ha fatto crescere. Vado più spesso a Cittanova e quando sono per strada io li sento, sento la nonna che ormai identifico con quella terra, che considero meravigliosa. Mi trasmette profumi, sensazioni, immagini, sia di terra che di mare. È servita moltissimo anche l’esperienza fatta con il Dramma Italiano. Mi sono sentita benissimo, ci tornerei immediatamente”.

Perché dici che lavori in Italia, se vivi in Italia?

“Un gioco di parole. Dopo Roma, il Piccolo di Milano, poi ancora Roma, Strehler, De Bosio, Servillo, e altri grandi registi, c’è stata Torino. Tornata a Trieste ho avuto grandi attestati di stima ma lavoro comunque con Napoli ed altre città. Per fortuna la mia laurea in filosofia, nella città della scienza, mi permette di occuparmi anche di formazione. La scienza, dico spesso, allunga la vita. Faccio formazione anche a Roma”.
Trieste comunque è d’ispirazione per il tuo lavoro artistico?
“Mi sono resa conto che la storia del Novecento è qui, in questa città, ed è ciò che sto scrivendo, partendo da una vicenda della prima guerra mondiale vissuta attraverso due ragazze, una delle quali è bilingue e vive in un mondo che la guerra spazzerà dopo il 1918. La storia è una bacino felice per chi si occupa di teatro. A Rovigno ho avuto modo di presentare la vicenda del Baron Gautsch, finito su una mina e colato a picco, dal testo de giornalista e scrittore Pietro Spirito. Eravamo all’estivo della Comunità degli Italiani e i turisti di passaggio entravano ad ascoltare. Ricordo un gruppo di piemontesi impazziti nel sentire il racconto dell’ultimo viaggio della nave dalla Dalmazia a Trieste allo scoppio della Grande guerra. Sono queste le cose che mi piacerebbe fare”.

Che cosa ti ha colpito dell’esperienza col Dramma Italiano?

“Ho lavorato con Nino Mangano e con attori di tutta Italia che venivano a Fiume a fare delle esperienze. Fantastico. Mi ha colpito quella struttura che in Italia non esiste più, ovvero gli schemi di un teatro che qui è stato abbandonato. Struggente, incredibile quest’esperienza; al bar trovavi le persone più strane, un teatro vero insomma, con tutti i suoi fantasmi e la sedimentazione, la memoria, qualcosa che funziona grazie alla spinta di chi ti precede. Anche odore forte di istituzione che ho avuto modo di sentire solo al Piccolo e alla Scala, odore di teatro vero. La protezione che ti dona serenità”.
In un lavoro che invece è diventato l’esaltazione della sofferenza, un esempio di precariato che travolge e consuma, così nel teatro come nella musica, la creatività è un peso da portare con le proprie forze. I mecenati favorivano l’arte, a volte il passato ci aiuta a scoprire gli errori del presente. Ma questa è un’altra storia. Lasciamo Sara, una delle tanti nipoti istriane, fiumane o dalmate che dalla vicenda dolorosa di una terra riescono a tratte insegnamenti positivi e a spendersi per una conoscenza che premia la dignità di un popolo sparso.

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