Iginio Covacich: «Mi piacerebbe organizzare un raduno degli esuli di Parenzo sparsi nel mondo»

Chiacchierata con l'alunno della classe 1947 che lasciò la Città dell’Eufrasiana nel 1958

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Iginio Covacich: «Mi piacerebbe organizzare un raduno degli esuli di Parenzo sparsi nel mondo»
Il portale della casa natale di Iginio Covacich non versa in ottime condizioni. Foto: IGINIO COVACICH FACEBOOK

In estate e agli inizi d’autunno sono molti i parenzani esuli che tornano in visita a Parenzo, da parenti e amici, spesso accompagnati dai loro figli. Tra questi, Iginio Covacich, che ogni mattina incontra amici e conoscenti sul terrazzo di un ristorante del centro, dove l’abbiamo incontrato anche noi, per farci raccontare la sua storia.

Iginio Covacich durante l’intervista.
Foto: DENIS VISINTIN

“Mi son Iginio Covacich, nato el 21 setembre 1947 a Parenzo e qua go fato quatro clasi elementari, con la maestra Annamaria – Ucci – Balanzin. Quando torno a Parenzo ritrovo sempre i compagni de clase. La Strada granda, la Decumana, iera el mio parco de divertimento: corevo avanti e indrio col sercio dela bicicleta e el baston”, esordisce Iginio nel tipico dialetto locale
“Ricordo le case bombardate, dove noi ‘mularia’, andavamo a prendere ferro, ghisa, rame e tutto quanto si poteva portare allo straccivendolo per racimolare qualche soldo e comprarci un gelato – prosegue –. Sono nato in una casa sotto il campanile. La casa, piccola, era di mio nonno. Poi c’eravamo trasferiti in Rivetta: in dieci anni avevamo cambiato cinque case. La casa di mio nonno era stata bombardata nel 1943 o 1944; ne era rimasto soltanto il portale, poi demolito in quanto pericolante. Poi giunse il giorno della partenza. Noi bambini non sapevamo niente di quello che succedeva dopo la guerra; i genitori preferivano non parlarne. Mio nonno, Gregorio Covacci, partì nel maggio del 1950. Noi rimanemmo qui ancora otto anni. Mio padre faceva il panettiere e non lo lasciarono partire fino al 1958, quando c’imbarcammo sulla nave, lasciando qui tutti i parenti materni a Visignano, Radossi, Parenzo e Villanova. Oggi è rimasta in vita soltanto una zia di parte materna, della famiglia Gašparini. I Kovacic, Covacci, o Covacich, dipende da chi governava, andarono via tutti”.

Avete continuato a mantenere i rapporti con Parenzo?
“Da quando siamo partiti nel 1958, siamo sempre tornati in vacanza dai parenti materni e dagli amici di Parenzo. Mio padre andava in porto a trovare i suoi amici. Io allora avevo 13-14 anni, andavo in giro con gli amici. Mia mamma stava a Visignano dalle sorelle. Giungevamo sempre con cinque o sei valige piene di abiti per le zie, che parlavano in croato e quando sceglievano gli abiti esclamavano ‘To je najbolje za mene!’”.

Dove avere vissuto da esuli?
“Dapprima a Trieste, dove siamo rimasti per cinque giorni, al campo profughi di San Sabba, poi a Udine. Qui vivevamo in una stanza di 4 metri per 4, con 2 letti a castello. Eravamo in 4: i genitori, io e mio fratello. I materassi puzzavano e io e mia madre c’eravamo messi a piangere. Dopo 3 mesi, siamo finiti a Tortona, con il nonno, allora sessantaseienne, che aveva già trascorso quasi 10 anni al campo profughi. Nel 1960 ci venne assegnata la casa. Una famiglia composta da quattro persone riceveva una camera e una cucina. Erano abitazioni nuove fatte edificare dal governo ad Alessandria, in cui s’insediarono 360 famiglie di istriani, fiumani e dalmati. Vivevamo tutti assieme come fossimo una famiglia, ma eravamo malvisti dalla popolazione locale. Col tempo le cose cambiarono. A vent’anni mi arruolai nella Polizia, dove rimasi per tre anni, poi andai a lavorare alla Michelin, dove rimasi trent’anni. Nel frattempo mi sono sposato e ho avuto figli, ma il desiderio di rivedere Parenzo, anche oggi, a 75 anni, è troppo forte”.

Com’era la Parenzo degli anni Cinquanta?
“Per noi era bella. Era piccola e andavamo tutti d’accordo, sia quelli che parlavano il dialetto italiano, sia coloro che s’esprimevano nel dialetto croato. Ciò che mi faceva paura più di tutto nell’ex Jugoslavia era la Milizia. Allora c’era poca gente che andava in chiesa e quando ne uscivi ti guardavano male. In particolare avevo paura di Ljubo, la guardia, che ci correva dietro, però non ci ha mai fatto niente di male, era simpatico”.

E a scuola com’era?
“Ho frequentato qui le prime quattro classi dell’elementare. Tra i pochi ricordi, c’è un libro di storia che trattava solo di Tito. Poi si faceva geografia e c’era un’ora al giorno di lezione di croato. Per me, in definitiva, è stato un divertimento”.

Che cosa ricorda della vita religiosa?
“All’epoca il parroco era don Banko (Tomo, nda). Facevo il chierichetto e durante la cerimonia dell’Eucaristia, gli mettevo più acqua invece del vino e lui mi sgridava, dicendomi che dovevo aggiungere più vino. Quando dovevo fare la comunione, avevo già l’abito e le scarpe pronte, ma siccome non andavo più a catechismo, me l’aveva rinviata di un anno, posticipando pure la cresima. Dopo un anno le scarpe erano diventate piccole e dovetti stringere le dita per farci stare dentro i piedi. Me le aveva regalate mio nonno, allora già in Italia. La dottrina si svolgeva in italiano, le messe non mi ricordo. Quando andai in Italia, don Banko m’inviò una lettera firmata dagli amici, con molti dei quali ci siamo persi di vista”.

Come vede lei i rapporti tra esuli e rimasti?
“I rapporti con gli italiani rimasti, con i parenzani, li abbiamo sempre mantenuti. Tramite Facebook mi sto facendo quanti più amici possibile. Ho giocato a calcio e seguo la ‘Jadran’ di Parenzo. Un ritorno dei parenzani, della terza generazione, sarebbe una bella cosa. Ho degli amici nei dintorni che vivevano a Trieste e che ora stanno tornando in questi paesi dov’è rimasta l’istrianità. I vecchi parenzani sono ormai tutti novantenni. Su Facebook è stata pubblicata una foto della classe precedente la mia, degli anni 1953-54, con la prima classe elementare e la maestra Balanzin. L’anno scorso per il Festival dell’istroveneto di Buie ho preparato un piccolo filmato, che parla dell’uso di questo dialetto ad Alessandria.
Nel 2004 Nella Bazzara (Maria Grazia Benčić Bazzara, nda) aveva organizzato una rimpatriata della mia generazione che aveva frequentato la prima elementare croata e italiana. Ci eravamo ritrovati a Parenzo e c’era anche la maestra Balanzin. Ci eravamo incontrati dopo mezzo secolo ed era stata una cosa molto bella. Il prossimo anno, a metà settembre, mi piacerebbe organizzare un raduno di tutti i parenzani nel mondo a Parenzo. Lancerò l’idea sulle reti sociali. In questo modo rimarrà vivo il ricordo dei vecchi parenzani”.
Lo sguardo di Iginio scorre verso la piazza “Fora le porte”: “Al posto del monumento che c’è, potevano metterne uno dedicato alla ‘Mula de Parenzo’, canzone universalmente nota”, dice.
Concludendo la nostra piacevole chiacchierata Iginio Covacich esprime un altro suo desiderio: “Manca un busto, una targa dedicata alla maestra Annamaria Balanzin, un mito, che ha cresciuto tanti ragazzi di Parenzo. Ho provato a parlarne con il sindaco; gli ho pure scritto. Sarebbe una cosa che farebbe certamente piacere ai parenzani sparsi per il mondo, che si ricordano tuttora di lei”.

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