Giorno del ricordo in ordine sparso

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Giorno del ricordo in ordine sparso

Dopo aver scandagliato programmi e manifesti di un altro Giorno del Ricordo, per certi versi, solitario, arriva puntuale il desiderio di ragionare su questioni fondamentali e azzardare alcune riflessioni per argomentare questa affermazione.

Ognuno chiuso nel proprio feudo, un racconto in proprio a casa propria, senza un indirizzo di massima che lasci il segno, che costruisca anno dopo anno nuove consapevolezze. Siamo alla nostalgia di quell’attesa, nei primi anni, di una giornata a Roma, scandita dai discorsi di personaggi come Lucio Toth, di quelli del Presidente Giorgio Napolitano di una rivisitazione profonda, in grado di scardinare le coscienze, in grado di riportare la barra al centro per nuovi viaggi, per nuove speranze. La curva del tempo, macina le emozioni: c’è un momento per iniziare, si tocca il punto massimo e poi arriva la stanca, come dopo la tempesta, mare piatto e tempo per ripensare il viaggio.
Ma non tutto è perduto, ci convinciamo, finalmente il 10 febbraio ha fatto strada, il Giorno del Ricordo coinvolge tantissima gente di buona volontà che si spende, ci mette del suo, s’impegna per portare “il verbo”, la conoscenza nelle scuole, nei consigli comunali, nei teatri, nelle piazze, tanto da rendere impresa ardua disegnare una geografia degli eventi senza rischiare di far torto agli esclusi. Sono piccoli colpi di vento che si rincorrono senza mai incontrarsi. Non certo per colpa di chi lavora, ci mancherebbe altro. Manca un indirizzo di fondo, riconoscibile e forte, che trasformi il Giorno del Ricordo in un’occasione unica, un progetto grande che tutti possano riconoscere e sul quale tutti possano decidere di spendersi. Un’occasione d’incontro che convogli le migliori teste pensanti a confrontarsi pubblicamente sulle strategie da adottare, su come costruire nuove basi di un associazionismo che non conosce il proprio futuro ma nemmeno tenta di immaginarlo, di disegnare mondi possibili, nuovi riscatti, coinvolgimenti.
Forse è nel Dna di questo popolo sparso, accontentarsi di poche cose giuste e sacrosante, la propria dignità, il decoro, le grandi voci del passato, senza dare fastidio, senza disturbare i potenti, comprimendo la rabbia, contenendo i diritti per essere dei bravi cittadini, dimenticati. Chi urla non lo fa con cognizione di causa, esprime solo il proprio malessere, chi critica probabilmente non conosce la verità, chi dovrebbe parlare tace. Chi comanda lo fa per tenere insieme un essere morente che non riesce ad agguantare, testa, braccia, gambe, tronco, tutto si disintegra.
Nonostante la diffusa consapevolezza di questa situazione lapalissiana, sotto agli occhi di tutti, si continua a far finta che la realtà sia un’altra, che ci sia coesione, che ci sia un progetto. La coesione è tra pochi, e forse neanche tra quelli, che rivestono ruoli importanti, ma lo scollamento tra vertice e una cosiddetta “base” è totale, laddove la base ancora esiste o si considera tale. C’è una forza centripeta che sta scardinando ogni legame.
Se ne parlerà in questo 10 Febbraio? Non è solo un Giorno per raccontare la storia delle foibe e dell’esodo, è una giornata in cui chiedersi dove si vuole andare, se si vuole tenere fede ai padri, di portare nel mondo la voce di un popolo sparso che di cose da dire ne ha tante, che ha contribuito a cambiare il Paese quando ce n’era bisogno, che nei luoghi dove è andato a vivere esule ha portato un esempio di diversa civiltà che si è scoperta ricca e piena di insegnamenti positivi. Questo lo riconoscono tutti in questo Giorno: si ricorda l’arrivo dei profughi sistemati nelle caserme, che hanno abbandonato appena possibile, impegnandosi col proprio lavoro a ricostruire nuove vite, nuove situazioni, hanno fatto studiare i figli, si sono integrati nelle località dove hanno trasferito la propria esistenza. Oggi le nuove generazioni ricoprono ruoli importanti, in tutti i settori della vita pubblica. Ma hanno perso la consapevolezza di un’appartenenza e nessuna occasione viene creata per cambiare questa situazione.
Chi dirige le associazioni si scontra ogni giorno con tanti problemi e forse non è loro compito immaginare questo nuovo mondo né le modalità per crearlo. Ci vogliono teste pensanti svincolate dalle pressioni quotidiane, ricercatori, storici, filosofi, sociologi e psicologi, in grado di elevarsi dalla mera conservazione e in grado di indicare una strada, che non sarà né semplice né immediata ma forse merita tentare di percorrerla.
L’estinzione di un popolo è legata ad un’invasione, ad un’epidemia, alla rinuncia a riprodurre se stesso o all’abbandono della speranza.
Il Giorno del Ricordo è nato per ridare speranza a queste genti, perché il ricordo dei morti consoli i vivi e li aiuti a crescere.
Da solo non ce la può fare, ecco perché indicare delle direttrici è un momento difficile ma necessario, affidato a chi è in grado di svolgere un simile compito con l’aiuto della società civile. E’ inutile la pietas di chi ricorda l’esodo e le foibe se le cose non cambiano. E’ inutile la testimonianza se non ha un seguito nel tempo. E’ pericolosa la storia di un popolo affidata a chi questa storia non la conosce e s’improvvisa relatore, autore, maestro o giornalista e racconta ai giovani e non, una vicenda contorta e piena di lacune, di luoghi comuni, di inesattezze. Fanno maggiore danno dei negazionisti che sono facilmente riconoscibili perché palesano il proprio dissenso. Ma la conoscenza limitata, infarcita di concetti captati sommariamente o di spiegazioni parziali, avvelena l’approccio alla tematica.
“Perché i altri sapia chi che erimo” diceva Toth “dovemo contarghe le cose giuste”.
Spesso non è così, il pressapochismo è alle porte. Il Giorno del Ricordo è troppo prezioso per accettare qualsivoglia sbavatura, è un giorno per pensare, rimembrare, costruire, per rendere finalmente giustizia alle vittime innocenti di quell’Italia al confine orientale che ha il dovere di fare i conti con la propria storia, per superare gli anni del silenzio, nel giusto modo, con il massimo rispetto.

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