Fragilità dettate da un percorso storico complesso e da un presente incerto, pieno di sfide e insidie

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Fragilità dettate da un percorso storico complesso e da un presente incerto, pieno di sfide e insidie

A conclusione del Convegno intitolato ”Italiani dell’Adriatico orientale: un progetto per il futuro” promosso a Trieste lo scorso 24 ottobre dal Circolo di cultura istro-veneta ”Istria” appare quantomai opportuno trarre un bilancio e fare alcune riflessioni sull’iniziativa.

Gli intellettuali, gli studiosi, le scrittrici e poetesse, gli esperti di varie discipline chiamati a raccolta, in rappresentanza della cosiddetta ”società civile”, per fare il punto sul destino e la realtà degli italiani di queste terre e sulle iniziative da adottare per garantire una continuità e un futuro alla presenza della nostra componente, hanno messo a nudo, con grande onestà, le nostre debolezze, le fragilità dettate da un percorso storico complesso e faticoso, e da un presente pregno di insidie e di sfide.
I numerosi interventi, di grande spessore culturale e civile e, soprattutto, il dibattito hanno avuto il merito di metterci allo specchio, di imporre a noi stessi il dovere di confrontarci, senza inutili infingimenti, con i nodi in gran parte irrisolti della nostra dimensione di ”minoranza” e di ”esodati”, di ”stranieri in casa popria e di esuli in Patria” come ci ha definiti nella sua relazione Fulvio Varljen.
Sono stati per molti – e forse per la prima volta in modo così intenso e partecipato – un’occasione per interrogarci sul nostro futuro, un momento di ”psicanalisi” collettiva, in cui è prevalsa la volontà di esprimere le proprie convinzioni più sincere, le proprie preoccupazioni, le proprie speranze; di dire, in altre parole, la verità, o almeno cercare onestamente di farlo.
Le attente e intense riflessioni di Nelida Milani Kruljac sugli orizzonti e i ”vuoti” della nostra identità nazionale, sugli strumenti e l’impegno – soprattutto quelli della scuola – necessari per recuperarla e ritrovare la consapevolezza di essere una comunità; le poesie e le parole di Loredana Bogliun, che ha espresso con grande amarezza, ma senza rassegnazione la nostra condizione di ”piegati” da una storia inclemente, di vittime del silenzio, dell’abbandono, dello sradicamento, il suo battere il pugno sul tavolo, pronunciando una bestemmia, fra gesto politico e poesia, per denunciare la sofferenza di un popolo, rivendicare la nostra dignità, sono stati forse gli esempi più autentici del significato del Convegno.
E poi, la schietta irruenza di Gateano Benčić, il suo convinto richiamo a un nuovo sforzo collettivo – riferendosi agli insegnamenti di Antonio Borme – per difendere e affermare il nostro senso di appartenenza nazionale, a ritrovare un’ ”anima” per il futuro della nostra comunità, le precise indicazioni e proposte, sulla dimensione economica, gli strumenti giuridici, le sfide politiche e culturali di Giorgio Tessarolo, di Guglielmo Cevolin, di Sandro Gherro, le riflessioni sui limiti delle relazioni e i percorsi della storiografia adriatica di Kristjan Knez, sulle prospettive di collaborazione fra andati e rimasti di Silva Bon, sulla necessità di creare una ”rete” e di innovare il nostro sistema di Guido Rumici, hanno stimolato nuove riflessioni e un dibattito che hanno contribuito a radiografare la dimensione reale degli italiani di questa parte dell’Adriatico, a delineare nuove proposte, a porre nuovi interrogativi ma anche a lanciare degli importanti segnali di speranza.
Dalla gran parte degli interventi sono emersi due punti fondamentali: quello del rapporto con i giovani, ovvero della trasmissione della nostra identità a chi verrà dopo di noi e quello del tempo, un tempo che – quanto a prospettive anagrafiche – sicuramente non abbiamo più. Temi che hanno animato il dibattito e fatto emergere anche punti di vista diversi. La dimensione economica – che per troppo tempo ci è stata negata – rappresenta, è stato detto, l’unico strumento per garantire il radicamento dei giovani al territorio, il ricambio generazionale e dunque la continuità della nostra presenza, assieme all’autonomia, alla soggettività e all’indipendenza delle nostre istituzioni. Ma non una ”qualsiasi” base economica, anche perché i finanziamenti a pioggia, gli interventi scriteriati, i ”soldi” e basta, in qualsiasi modo vengano erogati e spesi, sinora ci hanno fatto più male che bene. L’economia deve essere funzionale alla nostra soggettività, all’affermazione dei valori della nostra identità, alle prospettive di un reale sviluppo. Quasi luteranamente molti hanno ribadito che a un uso distorto dei finanziamenti, o a un’imprendoria che guardi solo ai propri interessi, sia meglio anteporre l’orgoglio della nostra dignità, e dire che siamo in grado di difendere la nostra lingua e la nostra cultura – come per molti decenni abbiamo fatto – anche senza soldi.
E poi il nodo centrale del ruolo formativo della scuola per l’identità e la coscienza nazionale; una scuola che spesso fatica a svolgere questo compito o che in alcuni casi ha persino abdicato rassegnandosi ad essere solo uno dei tanti tasselli dell’italofonia e del multiculturalismo del territorio. Una scuola dove gli studenti parlano fra loro sempre più spesso nella lingua della maggioranza e che invece dovrebbe essere il fulcro, il motore identitario della presenza consapevole della nostra comunità.
Il tempo. È il tempo – è stato detto – che lotta contro di noi, e che purtroppo non abbiamo. Fra qualche decennio – hanno rilevato in molti fra cui Gherro, Brakus e Varljen – le associazioni degli esuli saranno, in mancanza di un riscatto delle seconde e terze generazioni – solo un ricordo. E la minoranza? Come saremo nel 2030? Moreno Vrancich, esponente delle nuove generazioni, ha voluto introdurre una nota di speranza: ci saremo sempre, la nostra cultura non scomparirà, è assurdo e sbagliato pensare al diluvio dopo di noi. Il problema è però quello della capacità di delineare un progetto, un disegno per il nostro futuro. Di non lasciare che il nostro destino venga deciso da altri, dalle contingenze, dai capricci del caso.
Il Convegno del Circolo ”Istria” si è posto proprio quest’obiettivo: contribuire a disegnare un progetto di ampio respiro, una politica degna di questo nome – che attualmente manca – per salvaguardare, valorizzare e promuovere la presenza (intesa come presenza di una ”comunità vivente”) e l’identità degli italiani dell’Adriatico orientale. La crisi dell’UPT ha messo drammaticamente a nudo le lacune e i ritardi di questa politica da parte della Nazione Madre.
L’Appello e il Manifesto approvati dai partecipanti – che verranno inviati a tutte le istituzioni politiche – riassumono una serie di proposte, di iniziative concrete, di indicazioni operative per realizzare i contorni di quest’istanza, a partire dalla richiesta di approvazione, da parte del Parlamento italiano, della tanto attesa Legge d’interesse permanente per il sostegno e lo sviluppo delle istituzioni della Comunità italiana in Slovenia e Croazia, e la valorizzazione del patrimonio culturale, delle tradizioni e della presenza italiane in queste terre. Uno strumento normativo che riassuma, aggiorni e migliori, in un testo unico, tutte le norme e le disposizioni legislative sinora prodotte e che, soprattutto, offra garanzie certe di sostegno e di finanziamento, in un quadro organico e continuativo non più soggetto a costanti modifiche, necessità di rifinanziamento, incertezze, complessità di attuazione o ritardi burocratici.
Le proposte articolate nel Manifesto indicano alcuni dei possibili snodi di questo ”progetto”: la legge per un equo e definitivo indennizzo dei beni abbandonati, il Trattato trilaterale per l’affermazione dell’unità e dell’uniformità di trattamento della minoranza, la coerente attuazione dell’Accordo italo-croato del 1996, l’avvio di iniziative per garantire, fra le altre cose, quel processo di ”ricomposizione” fra andati e rimasti e di ”ritorno culturale” delle seconde e terze generazioni degli esuli, che da tempo auspichiamo. E poi: lo sviluppo – indispensabile e non più prorogabile – di una più stretta collaborazione fra le associazioni degli esuli e dei rimasti, la costituzione di nuove istituzioni comuni per promuovere e rinsaldare i tratti di una comune eredità culturale.
Il tutto – è stato sottilineato con decisione dai promotori del Convegno – avviando un’azione complementare e di sostegno agli sforzi che vanno profondendo – fra mille difficoltà – le istituzioni della comunità italiana e degli esuli, per proporre idee e suggerimenti non contro, ma ”per” qualcosa; quel qualcosa che ci dovrebbe accomunare tutti.
Quanto i lavori del Convegno siano riusciti a stimolare la nostra realtà e l’opinione pubblica su questi temi, e a risvegliare l’interesse nei confronti della necessità di delinare un grande progetto di salvaguardia della presenza italiana in quest’area, è difficile dirlo.
Il Circolo ”Istria” ha fatto la sua parte, coinvolgendo un gruppo qualificato di intellettuali e di persone di buona volontà. Ai lavori è stata notata l’assenza dei vertici di gran parte delle associazioni degli esuli, e degli organi di stampa italiani, in particolare quelli locali – come se questi argomenti non tangessero il mondo associativo degli esuli e la realtà di Trieste – mentre nutrita è stata la presenza delle istituzioni e dell’informazione della minoranza italiana. Segno che resta moltissima strada da fare lungo il percorso della collaborazione fra andati e rimasti, sul sentiero che dovrebbe portare a ricomporre le lacerazioni della storia.
Al Convegno ci si è posti una domanda: le nostre sono delle inutili utopie? Qual’è, oggi, la reale coscienza dell’importanza e dell’urgenza di queste istanze in Italia, Slovenia e Croazia, tra le file della comunità italiana e delle associazioni degli esuli? In che misura siamo assuefatti al ”qui ed ora”, riteniamo che le cose non possano migliorare, o che non ci sia più nulla da fare? Dare continuità ai valori della nostra cultura, tramandarla ai posteri, conquistarci un domani è veramente quello che vogliamo? ”Nihil difficile volenti” dicevano i latini. Nulla è arduo per colui che vuole. Ecco, il punto è questo: per salvarci dobbiamo volerlo.
Non ci preoccupano soltanto gli ostacoli o l’indifferenza della politica, i rigurgiti dei nazionalismi, il silenzio dell’opinione pubblica. Dobbiamo preoccuparci (e occuparci) innazitutto del livello di coscienza e consapevolezza degli attuali eredi dell’italianità di queste terre (per evitare di tramandare un’eredità senza eredi); capire quali siano le reali aspettative, la voglia di avere un futuro, come ”comunità di destino” della nostra gente. Abbiamo bisogno di figure morali che insegnino ai giovani i valori della nostra identità, il senso d’appartenenza e l’orgoglio che ne deriva, a capire chi siamo. Come ha rilevato Livio Dorigo l’attaccamento alle nostre radici, il senso della nostra identità devono essere vissuti come una ”religione civile”.
Non sappiano cosa ci riserva il futuro. Nulla è predefinito, niente è dato per sempre. È per questo che non dobbiamo rassegnarci: dobbiamo continuare a sperare per dire ”ci siamo ancora”, per affermare che sappiamo che cos’è l’orgoglio di una piccola comunità spezzata e divisa.

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