L’INTERVENTO Rispetto, per favore

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L’INTERVENTO Rispetto, per favore
Palazzo Modello, sede dell'Unione Italiana e della CI di Fiume. Foto Željko Jerneić

Il 5 agosto, a Knin, in occasione della ricorrenza della Giornata della Vittoria e del Ringraziamento, Andrej Plenković ha detto tra l’altro, nel suo discorso, di essere fiero del fatto che la Croazia tuteli i diritti delle minoranze nazionali. Proprio così, ha parlato di “tutela dei diritti delle minoranze nazionali”. In controtendenza con l’uso corrente dei politici che parlano, invece, di “tolleranza”.
La parola tolleranza ha una lunga storia. È nata dalla Riforma, come conseguenza dello scisma della Chiesa di Roma, provocato da Lutero il giorno in cui (31 ottobre 1517) affisse alla porta della chiesa di Wittenberg le sue 95 tesi. Seguirono lotte e persecuzioni che contrapposero cattolici a protestanti e ad altre parti della cristianità e dissanguarono l’Europa. I conflitti si conclusero per sfinimento generale con le paci del 1648-59, alla fine della guerra dei Trent’anni. Deposti fioretti e moschetti, si era fatta strada l’idea che un metodo vantaggioso per gestire il problema delle minoranze religiose fosse quello di non combatterle ma di tollerarle. Ottimo espediente, una soluzione a buon mercato. Per i dominanti significava mettere ordine nello Stato per garantire la pace fra i cittadini e isolare le minoranze in un recinto, senza mettere in discussione la propria posizione dominante. Così, la parola tolleranza attraverserà i secoli XVI, XVII, XVIII e arriverà fino ai giorni nostri sventolando la bandiera della libertà: religiosa, sociale, politica.
Veramente la traslazione della parola tolleranza dal piano religioso a quello politico fu molto lenta e si è venuta affermando attraverso il pensiero, le teorie e le opere di Calvino, Lutero, Voltaire, Locke, Mill e altri pensatori. Grazie a loro, a partire dalla seconda metà dell’800, la tolleranza comincia ad avere valore politico, si svincola dalla problematica religiosa e trova pieno riscontro nel pensiero contemporaneo proponendosi come baluardo del pluralismo politico, dell’uguaglianza, della costruzione della cittadinanza, del diritto alla libertà d’opinione.
Ma niente è dato una volta per tutte, se le parole restassero ferme non avremmo più gli strumenti per interpretare il mondo. Cambia anche il significato di tolleranza. Da parola virtuosa qual era, diventa ambigua e pericolosa. Il primo mito da sfatare è proprio l’idea che la convivenza tra maggioranze e minoranze si basi sulla tolleranza, che è invece la maschera perbenista della sopportazione o dell’indifferenza. Si esprimono con essa rapporti gerarchici, atteggiamenti di superiorità del tipo: “io tollero il fatto che tu esista, e ti lascio per come sei, ma ciò significa che io, nel momento in cui ti tollero, ti faccio una concessione, perché solo io ho il diritto di esistere e godere del diritto di cittadinanza in questo mondo”. Quindi la tolleranza – che va contro il principio di uguaglianza e il pluralismo dei valori che sono alla base delle odierne democrazie – è guardiana delle disuguaglianze e artefice del controllo sociale.
Eppure la metafora della riserva o del recinto è calzante ancora oggi. I politici di casa nostra parlano di “tolleranza politica della società croata nei confronti delle minoranze nazionali”, o dell’“alto grado di tolleranza in Istria nei riguardi delle minoranze nazionali”, se ne impastano la bocca nei loro discorsi buonistici rivelando l’anima oscura della tolleranza che va a colpire la sensibilità del singolo e delle identità collettive. Come se la politica della tolleranza fosse un’alternativa valida o addirittura più funzionale rispetto al pieno riconoscimento della minoranza nazionale così come esso è inscritto nella Legge costituzionale sui diritti delle minoranze nazionali in Croazia.
Etimologicamente tolleranza deriva dal latino toleràre, forma durativa di tòllere. Significa sollevare, sopportare, avere pazienza per qualcosa che non ti appartiene ma tolleri, non ti piace, però porti pazienza e la sopporti. “Io ti tollero, ho pazienza per quello che sei, anche se non lo condivido”. È un termine che stabilisce rapporti gerarchici: io mi sento superiore, ma sopporto qualcuno che mi è inferiore e che rappresenta un peso, magari domani mi salta il ghiribizzo di non tollerarlo più.
I politici sembrano non conoscere il territorio dove vengono a spargere il verbo della tolleranza. Siamo di fronte a un cortocircuito intellettuale, culturale e giurisprudenziale. Sembrano non conoscere l’Istria e gli istriani, né il Quarnero e i fiumani. Qui il dibattito sulla tolleranza si intreccia con quello sul multiculturalismo e sulle famiglie miste. Siamo in due Regioni plurali, dove plurale significa un mondo di diversità, nel quale sorge spontanea la coesione tra persone di lingua diversa che, vivendo in uno spazio linguistico specifico, hanno generato nel tempo una identificazione affettivo-emozionale e relazionale con l’ambiente. Qui c’è poco cosa tollerare. Qui le persone con le loro lingue e le loro culture e le loro storie si attraggono e si respingono, si intrecciano e si mescolano, convivono e si oppongono, ridotte sotto costrizione, finiscono per avvicinarsi e ognuna veicola dei contenuti che appartengono all’altra. Le famiglie sono incastrate, incrociate, intrecciate, i giovani hanno un disperato bisogno di modelli a loro misura e non di precetti improponibili, i vecchi non hanno più ferite ma portano le cicatrici, hanno troppo sofferto nel passato sotto regimi oppressivi e hanno superato il duro tirocinio delle ideologie per dover ora ascoltare il canto di nuove sirene. Gli stravecchi e desueti schemi mentali nell’Istro-quarnerino non funzionano. Non ce li meritiamo.
Sarebbe bene sostituire alla parola tolleranza la parola usata dal premier: tutela. Come sta scritta nella Legge costituzionale sui diritti delle minoranze nazionali e nella Costituzione croata, architrave delle istituzioni e supremo riferimento all’uguaglianza dei cittadini. Nel suono familiare della nostra lingua tolleranza è sostituibile con uguaglianza, rispetto, reciproca conoscenza, dialogo, riconoscimento, integrazione senza assimilazione. O semplicemente – senza che alcuno si senta isolato, sopportato, tollerato – perché non ricorrere a un pezzetto della nostra storia? “Rispeta e fate rispetar” dicevano i nostri nonni, cresciuti alla scuola dell’Austria. Se non siamo disposti a questo, chiudiamoci pure nel nostro assedio ideologico finché è possibile.

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