INSEGNANDO S’IMPARA Nothing compares to… Sinéad

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INSEGNANDO S’IMPARA Nothing compares to… Sinéad
Sinéad O’Connor

Confessione preliminare: più di trent’anni fa ho sposato un irlandese (quello che m’ha portata via da Trieste e dall’Istria) e “Nothing compares to you” è la “nostra” canzone. Ulteriore confessione, salvo qualche altro brano, un paio di cover e alcune apparizioni TV, la mia conoscenza della discografia di Sinéad O’Connor si ferma lì. Importante precisazione: so moltissime cose della sua vita privata, del suo pensiero e degli alti e bassi della sua carriera. Ecco in sintesi l’enigma di Sinéad O’Connor. La conosciamo (o pensiamo di conoscerla) bene ma non per le ragioni che lei avrebbe voluto. In Irlanda, dove sono allergici al divismo, non è mai stata messa in discussione la sua capacità di interprete, ma l’atteggiamento generale nei suoi confronti, è simile a quello che si ha verso quel membro “scomodo” che tutti abbiamo in famiglia, quello che creerà disagio alle riunioni familiari, che dirà cose imbarazzanti e inopportune, ma che in fondo verrà perdonato in virtù della sua umanità.
Ogni volta che Sinéad se ne usciva con una nuova, tutti alzavano gli occhi al cielo e sospiravano “Anche questa!” e spesso cinicamente, come solo gli irlandesi sanno fare, facevano scommesse su quanto sarebbe durato l’ultimo exploit.
Sinéad Marie Bernadette O’Connor, alias Mother Bernadette Mary, alias Magda Davitt, alias Shuhada’ Sadaqat. Da dove cominciare? Già nel contemplare la carrellata dei nomi che la cantante si è data nella sua tormentata vita, sorge l’impressione che ogni nuova incarnazione funga da strato di cipolla al contrario; invece che rivelare via via la vera essenza della persona, la rivesta progressivamente, nel tentativo di coprire le vulnerabilità e le antiche ferite mai sanate. Terza di cinque fratelli, Sinéad è nata in una famiglia problematica (come tante all’epoca) che si sarebbe ben presto sfasciata tra conflitti, lacerazioni e battaglie per l’affidamento dei figli. Conflitti, lacerazioni e battaglie di affidamento che Sinéad avrebbe, non solo replicato (come da destino, per i figli di genitori divorziati) ma amplificato su scala epica, nonché pubblica, con quattro matrimoni, numerose relazioni e quattro figli tutti di padri diversi. Il colpo più duro, quello finale, impossibile da assorbire, l’incubo di ogni madre, l’è arrivato il 7 gennaio 2022, con la notizia del suicidio del figlio diciassettenne, Shane.
Sin dalle sue prime apparizioni, Sinéad è stata accompagnata da polemiche, provocazioni e rabbiose esternazioni. A cominciare dalla sua testa rasata, che è stato un tratto più o meno costante della sua persona e all’urlo mai sopito che aveva in gola. La foto del suo viso contratto in un grido, sul suo primo album “The lion and the cobra”, era così controversa che dovette essere addolcita per il delicato pubblico americano. Non ci soffermeremo sul polverone che ha scatenato lo strappo della foto del Papa in diretta TV, né sul fatto che, in totale contraddizione, negli anni Novanta fosse stata ordinata prete da Michael Cox, vescovo di una setta cattolica indipendente, movimento che avrebbe lasciato di lì a poco, come da copione, né sulla decisione del 2017 di voler diventare un’anonima Magda Davitt, cinque minuti prima di convertirsi all’islam e risorgere come Shuhada’ Sadaqat. In fondo queste sono solo manifestazioni esteriori di una contorta e dolorosa ricerca interiore. Lei stessa ha dichiarato nella sua autobiografia “Rememberings” di non aver mai voluto diventare una pop-star, ma di essere essenzialmente “a protest singer” (cantante di protesta). Brava a protestare, ma ingenua o poco scaltra sul modo in cui farlo (a differenza della collega Madonna con la quale ci fu uno scontro mediatico senza esclusione di colpi nei primi Anni ‘90), Sinéad, sbagliava anche i tempi. Sempre troppo presto o troppo tardi, mai al momento giusto.
Ma secondo me, tutto questo diventava irrilevante nel momento in cui lei apriva la bocca e dispiegava le ali del suo prodigioso talento. La sua voce era l’ancora che da sola avrebbe potuto tenerla salda nella tempesta del suo vivere. Mi sono innamorata di “Nothing compares to you” ancor prima di vedere il video, ma sfido chiunque a rimanere indifferente a quei cinque minuti di miracolo musicale. La canzone sarà anche stata scritta da Prince, ma è indubbiamente e visceralmente di Sinéad. E le immagini, in uno spietato primissimo piano, di una ragazza di una bellezza immensa e commovente sono indimenticabili. Quegli occhi come pozze di lava viva, i tratti del viso dolcissimi in contrasto con la potenza della voce, la meravigliosa linea della bocca affamata di tenerezza, fanno ormai parte della mitologia della musica moderna. Madonna sarà anche stata l’artista più accorta, dalla strategia perfetta, ma Sinéad vince 10 a zero su “Don’t cry for me Argentina”, ascoltate la versione, bella per carità, ma tirata e atomica di Madonna e poi confrontatela con quella misuratissima di Sinéad, che si libra su abissi appena accennati, che lei sceglie di non esplorare ma ci fa capire che ci sono. E questo Natale, fatevi un regalo. Nei momenti di raccoglimento interiore, ascoltatevi “Silent night” in versione O’Connor. Vedrete che ogni altra variante impallidirà al confronto.
Ci sono punti in comune tra la vita di Sinéad O’Connor e quella di altri suoi conterranei ugualmente baciati da doti straordinarie. Sto pensando ad esempio al calciatore di Belfast George Best, con il quale ha condiviso, oltre che un talento infinito, anche una propensione all’autolesionismo e all’autodistruzione. Oppure alla collega Dolores O’Riordan del gruppo dei Cranberries, altra cantante dalla voce bella e particolare, con la quale aveva in comune l’infanzia difficile e la strana coincidenza di una fine prematura e in solitudine a Londra. Questi grandi irlandesi ci ricordano che spesso doni divini abitano in personalità contraddittorie, complesse e tormentate.
RIP Sinéad O’Connor.

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