INSEGNANDO S’IMPARA Il cattivo gusto

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INSEGNANDO S’IMPARA Il cattivo gusto
Foto: Goran Žiković

Dozzinale, rozzo, grossolano, volgare, kitsch, pacchiano; sono espressioni che tutti noi prima o poi abbiamo usato per descrivere qualcosa di obbrobrioso, dall’aspetto offensivo e spregevole. Sono parole che danno soddisfazione perché, quando vengono lanciate verso un bersaglio, denigrano l’obiettivo attaccato, ma contemporaneamente rafforzano anche la certezza nel proprio buongusto personale. Inoltre, anche l’origine etimologica di alcuni dei termini conferma l’intenzionalità di giudicare dall’alto in basso, di condannare o perlomeno criticare da una posizione di superiorità.
Volgare deriva da vulgus (volgo) ovvero riferito alle persone appartenenti allo strato sociale più basso, spesso considerate povere e ignoranti, prive cioè di qualsiasi raffinatezza, quella che noi implicitamente ci vantiamo di possedere. Lo stesso discorso vale per rozzo e grossolano dove, alla critica esteriore si aggiunge anche un giudizio morale, in quanto oltre all’assenza di grazia ed eleganza viene sottolineata pure una mancanza di buone maniere, di educazione e l’emergere di una natura portata a lasciarsi andare agli istinti più bassi. Perciò nel definire gusti, linguaggio e modi rozzi e grossolani si fa riferimento a una lingua elementare e malformata, e all’incapacità di esprimere con precisione i propri pensieri ed emozioni. In altre parole, si allude più o meno esplicitamente a un’inferiorità intellettuale.
Le persone che sostengono di avere classe e stile usano quasi con soddisfazione il termine dozzinale per definire prodotti di livello inferiore ai loro standard. È un altro modo per esprimere un giudizio di sufficienza. Presumo che tutti gli istriani che hanno fatto spese a Trieste, soprattutto durante gli anni dei “lasciapassare”, fossero consapevoli della dozzinalità dei negozi che vendevano i jeans a chilo rispetto alla rarefatta esclusività delle boutique dove i prezzi avevano sempre qualche zero di troppo. E questo prima che arrivassero i negozi dei cinesi, che hanno elevato il termine dozzinale ad altezze vertiginose.
La situazione cambia radicalmente con il termine “pacchiano” che rivela possedere una natura deliziosamente democratica e trasversale, in quanto la pacchianeria scavalca le classi sociali e può essere esibita dai ricchi come dai poveri. Pacchiano può essere sia ciò che ha effettivamente un grande valore commerciale, sia la paccottiglia. Prende vita quando si presume che ciò che è opulento e vistoso (e costoso) sia anche raffinato, a dimostrazione che il buongusto è una qualità sfuggente che non può essere comprata con il denaro. È pacchiano ornarsi di falsi oggetti firmati comprati ai mercatini, come anche assoldare architetti di grido per farsi una casa-palazzo con i cessi placcati oro (c’è un mercato fiorente a riguardo). Il buon vecchio Charles Bukowski una volta sentenziò che “il cattivo gusto crea molti più milionari del buon gusto”, ma noi vogliamo aggiungere che molti milionari creano cattivo gusto a manetta.
Se il pacchiano ha ancora illusioni di grandezza, il kitsch sa di essere kitsch e lo vive con ironia. La biografia del kitsch è interessante, ma troppo dettagliata per questo spazio, per cui ci limitiamo a citare un paio di definizioni della parola. Secondo Wikipedia, il kitsch vuol dire “…oggetti presuntamente artistici, ma in realtà di cattivo gusto”, mentre la Treccani indica che è kitsch “… ogni degradazione in senso manieristico dell’opera d’arte…”. Per cui stampare la Monna Lisa sulla borsa della spesa è kitsch, come lo è anche creare oggetti a forma di qualcos’altro: bicchieri a forma di teschio, borsetta di coccodrillo a forma di coccodrillo (oh, l’ironia!).
Un posto speciale lo detengono le miniaturizzazioni. Negli anni ‘60 e ‘70, sopra le nostre TV ancora piacevolmente piane, facevano bella mostra le collezioni kitsch dei ricordini delle gite scolastiche. Quasi tutti avevano la gondola di Venezia, seguita dal Colosseo e magari qualche torre di Pisa. I più fortunati esibivano la torre Eiffel o la ballerina spagnola che aveva anche il meccanismo per fare “Olè!”. Raccattapolvere di prima classe, non c’è che dire.
Dare una definizione universale del buongusto è un’operazione delicata e difficilissima in quanto tutti sono più o meno d’accordo sugli estremi (la bellezza sublime dell’arte rinascimentale da una parte e l’orrore delle riproduzioni scadenti made in China dall’altra), ma è la parte in mezzo che diventa problematica. Se è vero che “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” siamo malmessi in quanto ciò che per uno è ributtante, per un altro può essere splendido. Caso esemplare sono i nanetti da giardino. Nel mio paese d’adozione essi rappresentano la cartina di tornasole del buono o cattivo gusto. La maggior parte delle persone li trova abominevoli, ma vien da chiedersi come mai, se sono indice riconosciuto di cattivo gusto, appaiono con tanta frequenza intorno alle case di coloro che ritengono di avere buongusto. Con loro non si scherza neanche in Italia, in quanto nel maggio del 2010 si scatenò un caso mediatico a riguardo, quando il sindaco del paesino di Furore (SA) emanò un’ordinanza che bandiva la presenza degli gnomi dai giardini del paese perché considerati offensivi e “causa di alterazione dell’ambiente naturale”. Va da sé che tale decisione provocò il furore (è il caso di dirlo!) dei proprietari delle statuette incriminate tra cui quello di una donzella che vantava nel suo giardino l’intera collezione di Biancaneve e i sette nani e che era addirittura disposta a pagare l’ammenda pur di difendere le sue creature. Il caso arrivò perfino negli studi RAI dove se ne dibatté accaloratamente per almeno un pomeriggio. Non mi risulta che ci sia stato un seguito all’ordinanza e l’intera faccenda sembra esser finita lì. Ma la morale parla chiaro: “de gustibus non est disputandum”, per cui ognuno si curi delle proprie mutande e i nanetti non si toccano!

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