Pupazzi, performance e punk tecnologico

Nel fine settimana la 27.esima edizione della Rassegna dei teatri dei burattini ha ospitato due spettacoli di carattere diametralmente diverso, dalla provocazione alle storie sull’amicizia

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Pupazzi, performance e punk tecnologico
Nikola Radoš nei panni di Oscar. Foto: GORAN ŽIKOVIĆ

Lo spettacolo, ovvero la performance del “Tigar teatar” intitolata “Counting sheep” e definita dagli esecutori stessi come un Cabaret punk tecnologico ha aperto il programma del fine settimana della Rassegna dei teatri dei burattini di Fiume. Tra i tanti eventi e spettacoli che sono andati in scena in questi giorni, questo è stato sicuramente il più bizzarro e decisamente il meno adatto a un pubblico di minorenni (anche se nel programma il limite d’età era fissato ai 12 anni).

L’idea di base di unire le tecniche cinematografiche a quelle teatrali e di aggiungervi la musica dal vivo è stata molto interessante. Nella performance la teenager Dora, ossessionata dal telefonino e dalle reti sociali, decide di incontrare un ragazzo conosciuto in Rete. Il pubblico assiste mentre la ragazza cerca cosa indossare e la guarda mentre si spoglia e prova i vari capi d’abbigliamento. Il tutto si svolge di fronte a uno sfondo verde e grazie alla tecnica del chroma key, più comunemente conosciuto come il “green screen”, si ottiene una sovrapposizione di immagini e sembra che la ragazza si trovi prima nella sua stanza e successivamente alla fermata del tram. In conclusione della messinscena Dora viene proiettata sullo sfondo di un videogioco e deve superare una serie di ostacoli per arrivare al traguardo. In questa sua avventura ogni tanto compare qualche pecora e il pubblico ha il compito di contarle per confrontare i risultati alla fine. La parte meno adatta ai bambini è stata la performance punk di Attila Antal che rivolge alla ragazza una serie di oscenità sessualmente esplicite. I genitori erano stati messi in guardia sul fatto che lo spettacolo possa essere un po’ spinto, ma il tipo di volgarità sulla scena ha superato la fantasia dei presenti. Un altro elemento degno di nota è una velata (auto)critica sociale degli autori che leggono un testo nel quale gli adulti di oggi criticano la cosiddetta “Gen Z” (i ragazzi nati a cavallo dei due millenni), in quanto composta da ragazzi che guardano il telefono e non fanno attività fisica. In risposta a questa critica i giovani accusano i genitori di aver preso loro la libertà negli anni della pandemia, la scuola, la possibilità di incontrarsi e viaggiare. L’indignazione dei genitori, dunque, è senza fondamento, perché i giovani di tutti i tempi vogliono solo divertirsi e amare liberamente.

Il ruolo del linguaggio
A chiudere il programma del fine settimana è stato, invece, uno spettacolo per molti versi classico. La “Grande fabbrica delle parole” (La storia di Oscar) di Agnes de Lestrade/Bruno Margetić, è un bellissimo racconto che parla di solitudine, di amicizia e dell’importanza (ma a volte anche dell’inutilità) del linguaggio. In un mondo in cui le parole si devono acquistare e mangiare per poterle successivamente pronunciare, i cittadini poveri sono costretti al silenzio. Il piccolo Oscar, che trascorre molto tempo libero nella Fabbrica delle parole, impara che i bambini possono esprimere i sentimenti più profondi anche usando pochissime parole.
La scenografia dello spettacolo ricorda i teatri dei burattini classici, coi pupazzi, il teatrino col sipario, mentre i costumi ricordano tantissimo l’era industriale inglese della fine del XIX secolo. Presi nella loro totalità scenografia e costumi fanno venire in mente il celebre romanzo di Roald Dahl “Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato”. Questo interessante spettacolo ha unito con successo il canto operistico adattato ai bambini ed eseguito da Buga Marija Šimić, alla pantomima e al teatro fisico. Le marionette, infatti, non sono sempre dei pupazzi, ma a momenti gli attori stessi entrano nei panni dei personaggi e danno loro non soltanto la voce, ma anche un volto. La musica che accompagna la messinscena è eseguita dal vivo dalla Maestra Ana Dadić.
L’edificio della Fabbrica, nella quale gli operai tagliano e sciolgono le parole per farne sillabe nuove, nell’aspetto è molto simile alla macchina usata dal professor Balthazar per dare corpo alle sue idee con tanti ingranaggi colorati e il vapore che esce da un piccolo camino. La vita del bambino Oscar, che gioca nel cortile della Fabbrica, cambia quando incontra la bambina Silva e usa il pretesto di farle vedere il Ruscello delle parole per giocare con lei e fare amicizia. Lo spettacolo “La storia di Oscar” della regista Morana Dolenc, è la seconda parte della trilogia “La Grande fabbrica delle parole”.

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