«Io sono colei che non sono»: un invito al pensiero critico

Lo spettacolo scritto da Mate Matišić e diretto da Paolo Magelli ha portato in scena allo «Zajc» le sfide della condizione femminile

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«Io sono colei che non sono»: un invito al pensiero critico
A sinistra Maro Martinović, Doris Šarić Kukuljica e Barbara Prpić. A destra Milivoj Beader. Foto: GORAN ŽIKOVIĆ

Può sembrare infinito il potenziale comunicativo dell’arte teatrale, che più di ogni altra disciplina artistica si avvicina alla realtà, rendendola palpabile di fronte ai nostri occhi. Eppure, anche il teatro riconosce i propri limiti nell’esprimere argomenti delicati, nel portare alla luce la gravità dei problemi di cui noi stessi non riusciamo a individuare una spiegazione. Pertanto, a volte l’unica strategia da intraprendere nell’affrontare i contenuti opprimenti della vita – come la perversione, il trauma, il lutto – è quella della rinuncia alla formulazione di un giudizio, nel segno di un invito a un pensiero critico da parte dello spettatore, come nel caso dello spettacolo “Io sono colei che non sono” (Ja sam ona koja nisam) della compagnia zagabrese ZKM, andato in scena al Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume. Scritto da Mate Matišić e diretto da Paolo Magelli, lo spettacolo porta in scena le sfide e la sofferenza legate alla condizione femminile.

Confronto con il passato
Riprendendo la tesi espressa da Peter Szondi nella “Teoria del dramma moderno. 1880-1950”, potremmo affermare che “Io sono colei che non sono” recupera la modalità drammaturgica che, secondo lo studioso ungherese, avrebbe provocato la crisi del dramma come forma letteraria. Infatti, il drammaturgo croato si dimostra assai vicino agli autori affrontati da Szondi – e in particolare a Ibsen -, data l’assenza degli elementi che caratterizzano il dramma come stabilito dagli antichi Greci: il dramma è assoluto, nasce e si risolve in scena, è “una dialettica chiusa in sé stessa, ma libera” e pertanto “non conosce citazioni, né variazioni”, per citare Szondi. In altre parole, la pièce di Matišić, come quelle di Ibsen, Maeterlinck, Strindberg e altri, non corrisponde alla definizione di dramma quale “forma letteraria dell’accadere presente e intersoggettivo”. Praticamente senza eccezioni, i personaggi dello spettacolo vivono sotto l’opprimente influenza del passato – un aspetto che caratterizza soprattutto il primo atto e che viene confermato dalle proiezioni video (di Ivan Marušić Klif) sullo sfondo che creano una sorta di ferrea gabbia in cui le figure dei personaggi appaiono minuscole e inermi. L’intera azione scenica viene sviluppata a partire dall’incapacità di fare i conti con quanto accaduto prima, lontano dai confini della scena, sprofondando a momenti in rimembranze di avvenimenti traumatici. Più che proporre un dramma, dunque, lo spettacolo riprende la forma epica della rappresentazione. È proprio per questo motivo che risulta straordinaria la regia di Magelli, che concentra i catalizzatori dell’azione scenica negli elementi esterni alla drammaturgia. In particolare, va rilevata la molteplice funzione delle proiezioni, che, oltre a offrire l’immagine dell’asfissiante passato dei personaggi e ad amplificarne i pensieri, ridimensiona lo spazio (ideato da Miljenko Sekulić) e lo trasforma in un riflesso dell’atmosfera evocata dalla drammaturgia. Lo stesso discorso vale anche per le musiche (firmate da Ivanka Mazurkijević e Damir Martinović Mrle), che a momenti prendono parte attiva alla messinscena al punto da essere la trasposizione dell’interiorità del personaggio.

Nessuna presa di posizione
Non affidandosi solamente all’interpretazione attoriale, il progetto registico di Magelli fa di ogni elemento incluso nello spazio della rappresentazione un soggetto attivo dell’azione scenica, quasi riuscendo a fare dello spettacolo ciò che la drammaturgia gli impedisce: un dramma. In “Io sono colei che non sono”, come in ogni produzione basata su una regia onnicomprensiva e per niente scontata, la recitazione dell’ensémble è un tutt’uno con il resto dell’organismo della messinscena. Va evidenziata, in particolare, la strepitosa performance di Urša Raukar, la cui totale immedesimazione con il ruolo di Stanka supera di gran lunga quelle degli altri interpreti. Nella magnetica interpretazione dell’attrice, non vi è nessun gesto fuori luogo, nessuna intonazione casuale, né spazio a incomprensioni. A differenza invece di Milivoj Beader che, nella parte di Jerkica – decisamente tra i ruoli più riusciti a livello drammaturgico – offre una recitazione che sembra non saper quale direzione prendere, dimostrandosi del tutto esterno alla sintonia con cui gli altri interpreti condividono la scena. Data l’assenza dalla scena del dramma vero e proprio, quello dello ZKM è uno spettacolo in cui nessuno dei personaggi matura, né compie un “viaggio dell’eroe” (per usare la nota espressione di Christopher Vogler). Una caratteristica – e non propriamente un difetto – della drammaturgia, a cui la regia sembra voler rimediare. Lo spettacolo, invece di arrivare a una netta presa di posizione, si limita a fornire una lente d’ingrandimento sopra un continuum, sopra uno status quo che solo apparentemente viene smosso, andando a provocare disgusto e disagio da parte dello spettatore più critico e attento, ma senza rinunciare al grottesco, all’assurdo e all’estremo.

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