Alla Vigilia di Natale si mangia pesce, ma non si sa più bene per quale motivo; se sia la Chiesa a prescrivere il precetto, oppure se si tratti di un’usanza popolare le cui origini si perdono nella notte dei tempi (forse, è vero, proprio nei secoli che diedero forma ai Vangeli). Effettivamente la Chiesa ha contribuito a creare del disordine in materia di precetti alimentari festivi cambiando le regole del gioco in meno di cinquant’anni: nel 1917 il Codice di diritto canonico aveva prescritto l’astinenza dalla carne nei giorni della vigilia delle solennità di Pentecoste, dell’Assunta, di tutti i Santi e del Natale, ma la Costituzione Apostolica del 1966 avrebbe poi emendato quelle disposizioni per stabilire il digiuno solo il mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo (nonché l’astinenza dalla carne tutti i venerdì dell’anno, ma non più nelle vigilie). Insomma, oggigiorno la maggior parte dei cattolici non praticanti tira a indovinare (sbagliando) e così mangia la carne anche il venerdì, ma non alla Vigilia di Natale mentre andrebbe fatto il contrario.
Tutto questo preambolo di diritto canonico per dire che di questi giorni la pescheria cittadina (dalle stelle alle stalle!) è straordinariamente rifornita di pesce fresco, quasi che fossimo in estate e non in pieno inverno. Che nelle stanze dei bottoni sia detto quel che si vuole, per la Vigilia di Natale noi mangiamo pesce e possibilmente del buon pesce, soprattutto baccalà mantecato alla maniera veneziana, ma anche gamberi, capesante e sogliole, sempre ad avere i mezzi. I mezzi, tuttavia, tendono a polarizzarsi piuttosto che a diffondersi equamente. Ma lasciamo correre anche questi giudizi di ordine economico e passiamo a vedere l’offerta di pesce in concomitanza con il fine settimana della Vigilia e il ponte Natalizio.
La convenienza è merce rara di questi tempi, per cui con pochi euro in tasca è possibile acquistare praticamente solo le minute sardelle (a tre euro e mezzo il chilogrammo), le salpe (a 5 euro) e triglie di dimensioni minori (a sei euro) oppure qualche altra varietà di pesce azzurro meno pregiato o di pezzatura ridotta, mentre già gli zerri costano 10 euro il chilogrammo e le razze solo poco meno: si vendono infatti a partire da nove euro in su. Le orate selvatiche di piccola taglia costano altrettanto, mentre quelle di dimensioni superiori raggiungono raggiungono i 20 euro. Insomma, per mangiare bene, meglio o qualcosa di più ricercato, è richiesto uno sforzo del bilancio di famiglia più pronunciato. Il merluzzo costa tra i 9 e gli 11 euro, le vongole vengono a loro volta 11 euro, il pesce rospo costa 12, i branzini in media 18, i saraghi 20, i calamari nostrani 20, 21 e 24, i dentici 26 e 27 euro, il filetto di salmone 25, le capesante e i gamberi 22, gli scambi 40 euro e gli scorfani 45 euro. Una curiosità a vedersi sono i granchi o “gransi”, rari come le mosche bianche, venduti a 15 euro al chilo. Una presenza solo festiva anche quella della carpa, grosso pesce di fiume che a Pola in pescheria compare solo nei giorni che precedono la Pasqua e il Natale. Costa 9 euro al chilogrammo e si presta a ricette tipiche della Slavonia e della Baranja sotto l’influenza della cucina ungherese.
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