«Il lavoro di pubblica utilità favorisce l’integrazione»

Intervista a Ivana Sokolov, assessore cittadino alle Politiche sociali e giovanili

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«Il lavoro di pubblica utilità favorisce l’integrazione»
Ivana Sokolov, assessore alle Politiche sociali e giovanili. Foto: DARIA DEGHENGHI

Sei mesi fa Ivana Sokolov ha preso in mano le redini del mastodontico assessorato alle Politiche sociali e giovanili della Città di Pola, che sovrintende alla rete scolastica e prescolare, alla tutela e alla previdenza sociale, alla salute pubblica, allo sport, alla cultura tecnica, ai giovani. Con il caso dello sfratto dai due ostelli per operai della società Uljanik Standard, venduta all’asta dopo il fallimento del cantiere navale, è finita immediatamente nell’occhio del ciclone e questo è stato il suo banco di prova, il proverbiale battesimo di fuoco. Ora le idee che sta cercando di diffondere nella pubblica amministrazione si fanno notare per la loro stessa forza persuasiva senza alcun bisogno di PR. Tra queste la manovra con cui s’impone il lavoro di pubblica utilità ai beneficiari dell’assegno sociale minimo garantito, che va dalle 1.000 alle 1.300 kune mensili a seconda del caso, ovvero in corrispondenza o meno di abilità lavorative.

Assessore Sokolov, ci spieghi la manovra.
Il lavoro di pubblica utilità per i beneficiari dell’assegno sociale minimo garantito è una forma di lavoro temporaneo non remunerato che la Legge sulla tutela sociale ci permette di utilizzare per favorire l’inclusione sociale di categorie per definizione fragili. A Pola non è mai stata applicata perché è difficile da imporre giacché gli interessati tendono a rifiutarla. Tuttavia ci sono Comuni che hanno avuto buoni risultati in questo campo e, pur essendo possibile che nelle piccole località la misura sia più facilmente attuabile, abbiamo deciso di tentare perché abbiamo pressappoco 145 fruitori dell’assegno minimo senza certificazione d’inabilità o inabilità parziale al lavoro. Naturalmente la legge descrive casi eccezionali che non si toccano: gli over 60, e quindi i prossimi al pensionamento, le donne in attesa, le puerpere… Lo scopo della manovra è favorire l’integrazione sociale di categorie che tendono all’esclusione. In questo caso la società chiede loro un piccolo contributo in lavoro in cambio dell’assistenza che offre. Le faccio notare che l’aiuto che la società offre ai disagiati non è insignificante anche se l’impatto dell’assegno in sé non è grande e varia da 1.000 a 1.300 kune, ridotte soltanto nel caso in cui gli utenti siano più di uno in famiglia. Ci sono infatti aiuti complementari che vanno a potenziare l’assegno e si parla della copertura delle spese per l’affitto, del bonus per l’energia elettrica… Quindi, la spesa pubblica per può essere anche significativa.

Abbiamo dunque 145 assistiti che non lavorano pur essendo in grado?
La questione non è così semplice. Abbiamo già convocato una trentina di persone e stiamo per convocarne altre sessanta. C’è stato dell’assenteismo, è vero, e anche tra quelli che si sono presentati all’appello diversi hanno dichiarato che non sono in grado di lavorare, oppure che non se la sentono, che sono malati, o qualcosa di questo genere. Ora in questi casi è possibile richiedere il giudizio d’idoneità lavorativa all’Istituto per le perizie. Questo è anche nell’interesse dell’assistito, perché nel caso in cui la persona fosse realmente inabile al lavoro avrà diritti maggiori: per esempio, l’importo dell’assegno sociale aumenterà oppure andranno le condizioni per richiedere la pensione d’invalidità. In ogni caso abbiamo bisogno dimaturando  un giudizio valido, di una certificazione dell’ufficio competente: il parere del fruitore dell’assegno non basta. Ora, se l’utente rifiuta il dialogo e non coopera, l’assessorato si rivolgerà al Centro sociale che avrà la facoltà di revocare gli assegni, richiedere ulteriori perizie e altro ancora.

 

I risultati?
Finora abbiamo firmato tre contratti di lavoro di pubblica utilità presso la società di nettezza urbana Herculanea: tre persone ci lavoreranno fino alla fine del mese non meno di 60 e non più di 90 ore mensili. Ma non sappiamo ancora come andrà a finire con gli assistiti che si sono rifiutati di lavorare. L’iter è lungo, specie nel caso delle perizie, e quindi per saperne di più bisognerà attendere la fine del procedimento. Entro l’anno sapremo certamente di più. Ma intanto tra i primi tre che hanno accettato di lavorare è già arrivata un’assunzione a tempo pieno. Una signora di età media ha accettato il lavoro di netturbina, si trova bene ed è soddisfatta, proprio come sono soddisfatti di lei in azienda. Questa è una storia a lieto fine, mi creda. Una persona che finora campava con l’assegno sociale ora percepisce oltre 5.000 kune al mese ed è contenta di guadagnarsi da vivere col proprio lavoro. Questo è il senso della manovra: dare la possibilità, creare le condizioni per lavorare. Chi può e vuole lavorare, e chi ha avuto l’offerta di lavorare, non storcerà il naso.

Tuttavia c’è dell’assenteismo…
È inevitabile. Lo abbiamo messo in conto fin dall’inizio. I numeri lo dimostrano: gli interpellati o non si presentano all’appello, oppure si presentano con un certificato medico di non idoneità al lavoro provvisorio, ma queste certificazioni del medico di base non fanno testo. Ci vorrà il giudizio della commissione competente. Quello che stiamo cercando di fare è influire sulla comunità con le politiche sociali. Se la legge lo consente, se è possibile demolire i pregiudizi, se la disoccupazione è solo un fatto di mancanza di possibilità, o di spirito d’iniziativa, si può fare qualcosa. Si badi bene, qui non stiamo accusando nessuno di battere la fiacca. Le ragioni che portano le persone a richiedere un sussidio pubblico sono infinite e complesse. Ci sarà anche qualcuno che abusa, forse, ma non siamo qui per generalizzare. Siamo qui per aiutare e fare un po’ di ordine nel campo dei servizi sociali. A volte basta dare una mano a qualcuno che è troppo chiuso e non ce la fa da solo. Se basta questo, perché non farlo?

Che ne è degli sfrattati dei due ostelli destinati alla demolizione?
È andata bene malgrado tutto. Le persone sono 21, sono alloggiate a Pomer e si trovano a proprio agio. L’affitto e le spese di casa sono a carico della Città di Pola, che pagherà mezzo milione di kune fino alla fine dell’anno, ma le condizioni di alloggio sono nettamente migliori rispetto a quelle dell’ostello. Inizialmente il caso aveva tutte le sembianze di una sciagura sociale e le dico che eravamo letteralmente in agonia, ma un poco alla volta la situazione si è sgonfiata, per modo di dire. Quelli che in partenza sembravano più di 100 cittadini senza dimora, si sono ridotti a 30. Alcuni hanno trovato una sistemazione, molti sono tornati nelle loro località di origine, in Slavonia e altrove. Qualcuno ha avuto una sistemazione tramite la lista d’attesa per gli alloggi popolari e alcuni sono rimasti nell’ostello con un contratto nuovo concesso dalla Uljanik Standard. Ma devo insistere sul fatto che con la sistemazione di Pomer il problema non si esaurisce perché si tratta essenzialmente di gente senza casa e senza retribuzioni, di umili condizioni sociali. Nemmeno la soluzione del rifugio per i senzatetto è una soluzione duratura. Anche quella è per modo di dire una fermata provvisoria. Per questo con la Croce rossa siamo in cerca di soluzioni a lungo termine. Ci siamo guardati intorno e abbiamo notato le buone prassi di Lisbona. Le nostre politiche sociali devono cambiare se si vuole conseguire risultati duraturi. Per questo abbiamo scelto il modello Housing first (“la casa prima di tutto”) e abbiamo inviato due operatori sociali a specializzarsi in questo campo.

Che tipo di assistenza è?
Le persone in strada, una quindicina, che io sappia, dovrebbero poter avere l’opportunità di entrare in un appartamento autonomo senza la tappa obbligatoria del dormitorio, e dovrebbero essere assistite da un “case manager”, una specie di assistente personale istruito per sprigionare il massimo del loro potenziale umano. Avuta la casa, pagato l’affitto e assicurate condizioni di vita dignitose, la persona sarà sollecitata a occuparsi per prima cosa dell’igiene personale e dell’igiene dell’alloggio, e poi si passerà all’interazione sociale propriamente detta, ai primi tentativi di trovare un impiego… Il sistema è esattamente invertito rispetto ai dormitori tradizionali, che per lasciarti entrare ti chiedono di rinunciare anticipatamente all’alcol, agli stupefacenti, all’aspetto esteriore da barbone… Qui la strategia è invertita: prima ti offriamo la casa e un aiuto concreto in termini di assistenza personale e materiale e poi tu vedi se sei in grado di ripagarci impegnando la tua vita meglio di prima. Tutti sono scettici ma la cosa sembra funzionare all’estero, quando le basi sono buone. Col suo programma di Housing first, Lisbona ha avuto un 90 per cento di casi riusciti contro un solo 10 per cento di fallimenti. Per partire occorrerà un capitale iniziale che consiste in alloggi o contanti per le spese del vitto. Per formare il capitale cercheremo di mettere insieme soldi pubblici e donazioni private. Ci sono corporazioni che hanno la possibilità di fare beneficenza sul lungo periodo quando il loro sacrificio è remunerato da vite umane sottratte alla strada. In questo campo siamo solo agli inizi. Tuttavia occorre partire. Due operatori sociali si stanno istruendo per importare il modello a Pola. È solo il primo passo, ma è il passo essenziale”.

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