Paolo Trani. La pandemia raccontata come una guerra

Il connazionale ha scelto come tesi di laurea l’argomento «Il nemico (in)visibile. Riflessioni linguistico-cognitive sulle metafore concettuali ai tempi del Covid» facendo una dettagliata ricerca sulle espressioni usate dal nostro quotidiano

0
Paolo Trani. La pandemia raccontata come una guerra
Foto: DARIA DEGHENGHI

Ci sono stati quasi due anni che la giornata non cominciava senza il bollettino della Protezione civile: i numeri dei tamponi positivi, dei casi gravi, dei ricoverati al ventilatore, dei decessi “per o con” coronavirus. Dal 2020 al 2022 i giornali, come i medici, si sono “trincerati” nella “difesa” collettiva della popolazione contro la “minaccia” del coronavirus, il “nemico” subdolo e completamente ignoto che aveva osato “colpirci” senza nemmeno dichiarazione di “guerra”. Tra l’altro veniva dall’estremo oriente per cui la paura non poteva che sfociare in malcelata (se non plateale) xenofobia. Il linguaggio dei giornali è cambiato con ossessione ai tempi del coronavirus, al secolo Covid-19, nome scelto dalla scienza per differenziarlo dagli altri suoi parenti più o meno innocui e per evitare che il germe patogeno sia geneticamente correlato alla sua sinica terra d’origine. Intanto si è di colpo arricchito di paroloni scientifici del complesso armamentario epidemiologico, che altrimenti non ci saremmo mai preoccupati di apprendere e poi ha fatto esplodere un fenomeno linguistico, in buona parte stilistico, freneticamente correlato a un lessico di guerra. Le parole sono nel mondo, descrivono il mondo e – si badi bene – creano il mondo, anzi, creano tutti i mondi che gli pare.

Il lessico bellicoso della stampa
La “bellicosità” del linguaggio giornalistico nell’era Covid è stata studiata dappertutto producendo risultati non solo comparabili, ma anche coincidenti, se non equivalenti. Ce ne sono state diverse in Italia e in Croazia, ma solo una ha preso in esame il linguaggio corona-virale del nostro quotidiano, “La voce del popolo”. Lo ha fatto un dottorando di linguistica generale della Facoltà di lettere e filosofia di Zagabria, già studente del liceo italiano di Rovigno e laureato in italianistica all’Università degli studi di Pola, tra l’altro col massimo dei voti e due premi del Rettore. Trani è stato anche un collaboratore del nostro quotidiano come corrispondente da Rovigno e ha studiato ai tempi del Covid, per cui la scelta dell’argomento della sua tesi di laurea magistrale, difesa lo scorso settembre, “Il nemico (in)visibile. Riflessioni linguistico-cognitive sulle metafore concettuali ai tempi del Covid”, non può essere stata una mera coincidenza.

Perché questo tema e perché proprio «La voce del popolo»?
La scelta è stata determinata da una concomitanza di fattori, direi che si è quasi imposta da sé. La mia relatrice, Sandra Tamaro ha proposto di condurre una ricerca nel campo della linguistica cognitiva. Essendo al corrente delle mie intenzioni di proseguire gli studi, ha pensato che sarebbe stato utile illuminare alcune tematiche centrali in linguistica come la nozione di metafora concettuale alla luce di un fenomeno d’attualità completamente ignoto come la pandemia. Avendo lavorato come corrispondente del quotidiano per un anno e mezzo proprio in tempo di Covid, mi sono rimaste fortemente impresse nella memoria alcune espressioni e alcuni titoli, occhielli e sommari per cui ho trovato utile illustrare il discorso sulle metafore concettuali con espressioni sulla pandemia tipiche della carta stampata in generale e della “Voce” in particolare. Abbiamo escluso la televisione e gli altri giornali dalla ricerca per l’ovvia necessità di ridurre il bagaglio lessicale e fraseologico al contenitore chiaramente limitato di una tesi di laurea. La ricerca ha preso in esame tutti i numeri dal 2 gennaio 2020 al 31 dicembre 2021, quindi due anni di pubblicazioni. In estrema sintesi: abbiamo esaminato 606 numeri, in tutto 19.216 pagine del quotidiano. Naturalmente ringrazio “La voce” per avermi dato l’opportunità di usufruire delle edizioni digitali perché a condurre la ricerca alla vecchia maniera ci avrei messo un’eternità.

Tornando allora alla questione: che cosa hai trovato di interessante?
Ho trovato la bellezza di 4.000 espressioni metaforiche diverse con una diretta relazione alla metafora concettuale generica della guerra! Intanto bisogna notare che sono tante, anzi tantissime. Come spiegarci quest’abbondanza lessicale riferita alla guerra? Ho scelto di percorrere due strade prima di formulare una conclusione: da un lato l’approccio linguistico-cognitivo e dall’altro quello sociologico-linguistico. Secondo la seconda delle due ipotesi, quella più spiccatamente sociologica, il giornale o i giornali stavano compiendo una scelta del lessico meditata e consapevole per allarmare di proposito la popolazione affinché eviti di uscire di casa e affinché cominci a sentire la pandemia come uno stato di guerra effettivo. Si sarebbe insomma trattato di un uso conscio del linguaggio con l’obiettivo di incutere paura, di instillare nelle coscienze l’idea dell’insidiosità di un agente invisibile, col rischio, si capisce, di creare disinformazione. L’approccio cognitivo descrive invece una genesi del fenomeno inversa e dice che le metafore concettuali sono in noi fisicamente, in partenza, e sono parte integrante del nostro modo di pensare, di essere e di comprendere il mondo che ci circonda. Quella di descrivere la realtà in cui viviamo è dunque un’esigenza umana intrinseca e non un costrutto stilistico: si tratta di una nostra qualità umana innata, generalmente inconscia. Non dimentichiamoci che la pandemia l’abbiamo vissuta tutti per la prima volta, che l’oggetto del nostro timore era un microorganismo invisibile mentre le morti erano tangibili. Ora, noi sapevamo come uccide una guerra se non altro per aver visto i film e la televisione, ma non sapevamo ancora quante morti era in grado di seminare un agente patogeno invisibile ancora sconosciuto. Quindi, la mente che cosa fa? Trasferisce il significato lessicale dal dominio di partenza (la guerra) a quello d’arrivo (la pandemia) e finisce per sostituire un concetto meno noto con quello maggiormente conosciuto. La mente semplifica tutto e tutte le volte che è necessario. Se deve descrivere ciò che risulta ancora incomprensibile o poco chiaro, lo farà ricorrendo alle idee più vicine alla nostra esperienza quotidiana.

Quali sono le espressioni linguistiche “belliche” che hai individuato sulla Voce?
Sono tantissime. Intanto la metafora concettuale-tetto è la guerra. LA PANDEMIA È UNA GUERRA: questa è la più produttiva. Da lì scendono a cascata decine di espressioni metaforiche tutte riconducibili al concetto generale. Per esempio, “colpo” o “colpire”, sono le più frequenti e compaiono 894 volte nei 606 numeri del giornale analizzati. “Lotta” e “lottare” affiorano altre 764 volte, “combattere” appare in 329 occasioni. Queste risultano le espressioni maggiormente ricorrenti, ma ne seguono altre, in ordine decrescente per numero di apparizioni: allarme, battaglia, sconfitta, prima linea, nemico, guerra, difesa/difendere, al riparo, tregua, arma, esplosione, eroe, uccidere, vittoria, attacco, arruolamento, esercito, trincea, assedio, recluta/reclutamento, scudo, resistenza, strage, ostaggio, ritirata, pace, barricata, invasione, diserzione/disertare, bersaglio, infiltrare, schierare, espugnare, baluardo, alleato, retrovie, plotone e tante altre, insomma, gli esempi si sprecano. Quindi, la pandemia è una guerra, le persone sono soldati, il personaggio sanitario – il medico oppure l’infermiera in prima linea – è un eroe. Per l’arma il soggetto cambia secondo il contesto: il vaccino è un’arma, il contagio sociale è un’arma, il distanziamento sociale è sempre un’arma… Il più interessante è stato forse l’accostamento tra virus e alleato.

Il virus un alleato?
Infatti, ci siamo sorpresi anche noi per questo improbabile cambiamento di rotta… metaforica. Come ha fatto il virus a trasformarsi da nemico globale a prezioso alleato? Era un controsenso. Strano ma vero, il linguaggio giornalistico gli riconosce proprio questo nuovo titolo nel momento in cui si comincia a parlare di smartworking e della possibilità di aumentare la produttività col lavoro da remoto. Paradossalmente il virus può rivelarsi un sorprendente alleato. Un’altra metafora linguistica ricorrente è quella dell’ordigno esplosivo o bomba, con le voci verbali analoghe esplodere, scoppiare: “disinnescare o innescare la bomba”, la “bomba carceraria” perché nel frattempo il virus è entrato anche nei penitenziari. La partita di Champions league che si crede sia stata un focolaio di diffusione iniziale è stata una “vera bomba per la propagazione del virus”. Poi troviamo il “campo minato” e di colpo “gli ospedali sono un campo minato per i medici”. Quindi tutta una serie di espressioni metaforiche che dovevamo per prima cosa reperire e poi analizzate.

Ci sono state altre ricerche?
La nostra ricerca si è limitata alla Voce del Popolo ma è chiaro che ci sono stati innumerevoli studi nel mondo sul medesimo argomento e tutti hanno mostrato esattamente la stessa cosa. Uno studio sulla stampa croata on-line ha trovato due picchi stagionali delle espressioni metaforiche belliche tra marzo-aprile 2020 e ottobre-novembre 2020, febbraio-marzo 2021 e nuovamente tra ottobre-novembre 2021. E da quei picchi le salite e le discese. Andando a cercare le cause di questa proliferazione metaforica si è visto che i picchi linguistici erano sempre corrispondenti alle maggiori crisi dei contagi: la prima, la seconda, la terza e la quarta ondata, l’ultima, che è stata anche la più debole dato che il virus è stato fermato o indebolito dal vaccino. Anche questa coincidenza sembra provare che le metafore sono state usate inconsciamente e non deliberatamente, essenzialmente per paura, ma anche per necessità di semplificazione cognitiva. Ci sono state poi anche altre metafore concettuali, come quelle sportive: fine primo tempo, lotta (sportiva), il fischio finale… Poi quelle dell’armamentario concettuale animalesco: il Covid mostra gli artigli… Ricerche inglesi, italiane e croate hanno trovato espressioni analoghe e laddove siano state traducibili, sono state integrate anche in questa nostra analisi. Abbiamo notato per esempio diverse espressioni riconducibili a situazioni apocalittiche, per cui il Covid è stato anche uno “tsunami”, un “terremoto”, un “tornado” o persino l’apocalisse in persona. Ovviamente la ricerca sul Covid finisce qui perché con l’esaurimento della pandemia si sono necessariamente esauriti anche i suoi risvolti giornalisti giornalistico-linguistici. Ma va detto che in un certo senso il corpus concettuale bellico avrebbe poi spianato la strada ai servizi giornalistici inerenti a una guerra letterale e non solo metaforica: la guerra in Ucraina.

Ma la guerra in Ucraina che cosa c’entra?
Bisogna porsi la domanda se avessimo risposto con la stessa prontezza psicologica alla guerra in Ucraina se non avessimo prima vissuto come una guerra la lotta al coronavirus, benché combattuta in pigiama e ciabatte. In ogni caso mi pare di poter dire che dopo aver vissuto situazioni così emotivamente intense le persone non cambino in meglio, che non facciano tesoro dell’esperienza vissuta. Gli uomini non imparano alcunché. Si usa dire che dopo un grave malanno viene l’epifania, la rivelazione miracolosa sul significato e l’essenza dell’essere, ma non è vero assolutamente. Nel momento di crisi l’uomo si mobilita, è vero, e impegna tutte le proprie energie per contrastare la minaccia che incombe, ma una volta passato il pericolo ritorna alle vecchie abitudini senza aver perso né il pelo né il vizio.

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display