Quelle cose che le donne (non) dicono

Villa Ružić a Pećine ha ospitato un’interessante tavola rotonda sulla violenza nei confronti del gentil sesso. Grande la partecipazione

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Quelle cose che le donne (non) dicono
Morena Lekan, Iva Davorija, Tanja Prokop, Katarina Bošnjak e Mirjana Olujić a Villa Ružić. Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

“Violenza istituzionale sulle donne” è il titolo della tavola rotonda tenutasi nell’elegante salotto di Villa Ružić a Pećine, organizzata dal Consiglio della minoranza serba per la Regione litoraneo-montana, che ha visto la partecipazione della vicepresidente della Regione di Sisak e della Moslavina Mirjana Olujić, dell’avvocata Morena Lekan, nonché di Tanja Prokop e Iva Davorija dell’associazione SOS Rijeka – Centro per la nonviolenza e i diritti umani. L’evento è stato moderato dalla giornalista Katarina Bošnjak ed è stato aperto dallo storico dell’arte Theodor de Canziani, il quale ha espresso il suo compiacimento per il fatto che la signorile abitazione, la cui storia fu segnata proprio dalle figure femminili, sia stata scelta quale luogo per l’incontro. Nel suo discorso di saluto ha rilevato che “il 18 aprile festeggeremo il 150º anniversario della nascita della grande scrittrice Ivana Brlić Mažuranić, la quale nel corso di tutta la sua vita si prese cura delle donne, dei giovani, dei bisognosi dimostrando, oltre alla validità letteraria e all’importanza di essere la prima figura accademica femminile nell’Europa centrale dell’epoca, anche una forza e un coraggio atipici, che hanno ispirato molte altre dame a intraprendere carriere relative alle dimensoni intellettuale, scientifica, artistica e pubblica. In concomitanza a ciò, nonostante la difficile tematica spero che la villa vi lascerà nel cuore anche ricordi belli”.

L’insufficiente tutela delle vittime
A seguire, Tanja Prokop, il cui lavoro di dottorato è incentrato sulla tematica, ha esordito spiegando che sebbene le questioni femminili siano incessantemente raccontate dai media, la violenza attraversa in modo incisivo la nostra società e tutte le nostre comunità, ribadendo che “qui si tratta di insufficienza nell’agire delle istituzioni, le quali vittimizzano ulteriormente le donne che decidono di denunciare le violenze subite. L’anno scorso in Croazia ne sono state uccise nove, assassinate da uomini a loro vicini. Quelle che soffrono i soprusi, spesso non ne sono nemmeno consapevoli, non li percepiscono o riconoscono, quasi come fosse un destino scontato e non sanno come verbalizzare il tutto. Dal canto loro, invece che aiutarle – ha proseguito Prokop –, le sedi istituzionali tese a proteggerle le maltrattano. In tale contesto, non è semplice individuare un modo in cui cambiare radicalmente le cose nella società ed è fondamentale parlare e fare appello alle stesse. Nello specifico mi riferisco alle istituzioni sociali, il cui ruolo primario è quello di tutelare e sostenere le donne, il che spesso non avviene e, anzi, non di rado mettono in dubbio e in esame la loro stabilità mentale ed emotiva, derubricando e attribuendo minore importanza agli episodi di violenza”. Nel prosieguo Prokop ha segnalato che un’altra pratica sfavorevole consiste nell’incoraggiare le vittime di maltrattamenti a non rivelarli e a non parlarne, con la scusa dell’eventuale perdita dell’affidamento dei figli specificando che “al fine di poter trattenere e proteggere i bambini, alle madri che sperimentano la violenza domestica viene suggerito di celarla, ma non dovrebbe essere così. Nonostante l’obiettivo primario delle istituzioni dovrebbe essere focalizzato sulla tutela dei minori, in effetti essi diventano e risultano ‘invisibili’, allo stesso modo in cui lo è la violenza subita. Nella prassi, purtroppo, il diritto al contatto con i bambini da parte dell’aggressore arriva prima di quello di protezione della donna”.

Vittimizzazione secondaria
“La vittimizzazione istituzionale che colpisce le donne quando decidono di sottrarsi al cerchio della violenza e ad allontanarsi dall’aggressore è probabilmente il rischio più grande che dovranno affrontare nella loro vita”, ha rilevato la consigliera cittadina Iva Davorija, rimarcando che “spesso vivono il trauma con un forte senso di colpa e di vergogna e con il condizionamento della presenza dei figli e dei vincoli economici. Tra l’altro, a volte ci sembra che le vittime dei reati rivivano condizioni traumatiche riconducibili alle procedure istituzionali poste in atto dopo la loro denuncia. In tale contesto, riscontriamo problemi a livello strutturale, di sistema, a causa dei quali la nostra associazione riceve quotidianamente chiamate da coloro che subiscono violenza. Laddove le vittime decidono di uscire dal silenzio rivolgendosi ai soggetti istituzionali si trovano a dover fare i conti con la diffidenza, i pregiudizi e gli stereotipi sessisti che minacciano la fiducia nella credibilità della loro testimonianza. Vengono interrogate sui loro comportamenti, sulle loro abitudini, deresponsabilizzando in questo modo le azioni degli aggressori. Fino a quando, a un certo punto, cominciano a chiedersi se ciò che hanno vissuto combaci con la realtà”.
Uno strumento potente utilizzato dagli autori dei maltrattamenti perpetrati alle vittime è la minaccia dell’alienazione parentale, ha ancora sottolineato Davorija. A sua detta “si tratta di un concetto che nasce dal bisogno sessista e misogino di screditare le donne che subiscono violenza. Sulla base dello stesso una donna che al fine di proteggere sé stessa e il minore abbandona il partner, può venir accusata di avere strappato il figlio al padre creandogli dei traumi emotivi. Questo tipo di denuncia da parte dell’autore della violenza è diventato uno dei meccanismi attraverso i quali continua a commetterla. Si chiama violenza postseparatoria, con cui le istituzioni diventano la mano tesa del bullo”.
A confermare le suddette riflessioni è stata Morena Lekan, a detta della quale la violenza di genere costituisce una delle piaghe più drammatiche della società contemporanea, il cui carattere trasversale e multiforme delinea un panorama di elevata complessità anche dalla prospettiva legale. L’avvocata, attiva nella difesa delle fruitrici del centro SOS, non ha mancato di segnalare l’inefficienza e i difetti relativi al diritto penale e familiare che si trova ad affrontare nelle aule di tribunale e non solo. A sua detta, recentemente è stata approvata una nuova legge sulla famiglia che, a più livelli, fa acqua da tutte le parti, delucidando che “non è stata adottata nessuna delle indicazioni proposte dalle associazioni, nonché il Governo non ha consultato né gli esperti del settore, né coloro che lavorano nello stesso. In effetti, essendo in prima linea e direttamente a contatto con le parti offese, sono proprio i sunnominati centri a essere a conoscenza di ciò di cui si abbisogna e come ci si dovrebbe atteggiare. Le stesse, purtroppo, hanno dovuto assumersi molte responsabiltà e obblighi che dovrebbero venire svolti dallo Stato, ai quali viene meno. La chiave per contrastare e migliorare la situazione sono la formazione e la sensibilizzazione di coloro che conducono le procedure, mentre i cambiamenti iniziano in giovane età. Inoltre, sono essenziali pure la cornice legale e il lavoro nelle scuole, nonché la consapevolezza che chiunque può diventare vittima di violenza, indipendentemente dall’estrazione sociale, dalle origini, dalla personalità o dallo status economico”. In conclusione del suo intervento, l’esperta ha riferito che, innanzitutto, gli stessi operatori del sistema procedurale dovrebbero spogliarsi dei pregiudizi e stereotipi, prodigandosi a comprendere meglio il fenomeno ed evitare il rischio della vittimizzazione secondaria. Sulla scia delle sue parole, Mirjana Olujić ha rimarcato che gli argomenti trattati fanno parte della quotidianità e sono profondamente radicati nella nostra società e cultura, per cui è fondamentale affrontarli nei modi che conosciamo. A tale proposito ha anche aggiunto che “ovuque ci giriamo, in tutti i milieu, assistiamo a dei momenti di violenza. Sono orgogliosa che nella città di Sisak sia attiva una Casa sicura, ma al contempo sono estremamente triste di quanto la stessa sia necessaria”.

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