L’impresa che divide

Liberare questa pagina di storia dalle maglie della politica e dal prisma dell'attualità. Le due storiografie, quella italiana e quella croata, hanno cominciato a parlarsi, ma non si ascoltano fino in fondo. È trascorso un secolo, sono stati prodotti numerosi documenti e saggi storici che hanno ribaltato le prospettive, ma per la città odierna, ferma alla versione del protofascimo, si tratta di revisionismo. Rimane ancora tanto da fare contro miti e pregiudizi, ma anche da dire, in particolare sulle esperienze della popolazione fiumana e della parte croata

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L’impresa che divide

Margherita Besozzi, una delle attiviste più instancabili e libere della Città di Vita, sodale di Gabriele d’Annunzio a Fiume, scriveva: “Sono giovane. Fumo molte sigarette. Me ne frego della crociata contro il lusso, e porto sottovesti di seta e calze di filo. Che pago da me… Amo tutto ciò che è bello. Amo quindi prima di tutto l’amore. Poi me stessa. Poi la Patria”. Consapevole di rappresentare un nuovo modello femminile, rilevava: “Donne, è l’ora del vostro risveglio! […] La donna di Fiume non è altro che la madre della donna moderna. Distruggiamo tutto questo passato. Libertà. Spregiudicatezza. Coraggio”. Lei era cugina di Guido Keller, asso dell’aviazione della Grande Guerra. Incontrò per la prima volta il Vate proprio a Fiume e gli anni della relazione coincisero con quelli in cui si giocò il destino politico dell’uomo. Fu un po’ la madre delle donne moderne e delle donne di Fiume. La sua emancipazione andava ben oltre la conquista dei diritti (sotto d’Annunzio arrivò il voto e la possibilità di essere elette, mentre già in epoca austroungarica era stato concesso il divorzio), ossia puntava all’autonomia totale nella gestione del corpo, dei sentimenti, della sessualità.
Come lei, il 12 settembre 1919, al seguito dei legionari e di d’Annunzio centinaia di ragazze e signore arrivarono in città. Volontarie, con il gladio nella cintura, legionarie, crocerossine – e tra quelle iscritte nell’elenco ufficiale dei legionari fiumani depositati presso la Fondazione il Vittoriale degli Italiani il 24 giugno 1939 c’è anche la fiumana Mary Vosilla – con un’attenzione particolare alle condizioni della popolazione fiumana, impegnate nell’assistenzialismo, avventuriste, futuriste, letterate, precorritrici dei tempi… Tra queste Margherita Incisa di Camerana (nella pagina precedente, con gli arditi davanti al palazzo del Governo): fu la prima donna ufficiale in un esercito moderno. Lasciò gli agi della corte dei Savoia per recarsi al fronte della Prima guerra mondiale e partecipò all’Impresa di Fiume come tenente nella “Disperata”, la guardia del corpo di d’Annunzio… prendeva parte alle marce, alle esercitazioni, era madrina della Compagnia. “Il povero Nitti è furibondo per le indegne cose di Fiume – così Filippo Turati in una lettera alla sua compagna Anna Kuliscioff, parlò di Margherita –. Fiume è diventato un postribolo di malavita e prostitute più o meno high life. Mi parlò di una marchesa Incisa, che vi sta vestita da ardita con tanto di pugnale. Purtroppo non può dire alla Camera queste cose, per l’onore d’Italia”. Gli arditi, gli anarco-sindacalisti, i socialisti, i nazionalisti che avevano invaso Fiume, denunciava il “Cagoia” dannunziano, ne avevano fatto un teatro di orge e festini a base di sesso e di cocaina. E responsabili erano soprattutto le donne di facili costumi. Molte però erano affascinate da questa realtà in cui, per la prima volta, partecipavano attivamente in tutte le sfere, a fianco degli uomini. Finalmente libere? Per le fiumane non era una novità, abituate a lavorare (si pensi alle tabacchine) per mantenersi da sé e provvedere alle proprie famiglie, né si scandalizzavano più di tanto (ben lungi dall’essere bacchettone), ma più di una perplessità la lasciava tutto questo movimento di personaggi a dir poco strambi…

Europei e antifascisti

Se quella triestina (Disobbedisco. La rivoluzione di d’Annunzio a Fiume 1919-1920, fino al 3 novembre al Salone degli Incanti) esplora il personaggio, nel centenario dell’entrata a Fiume, una nuova esposizione fiumana racconta e reinterpreta l’avventura del Comandante e le conseguenze della sua azione per la città e i suoi abitanti. E lo fa proprio al palazzo del Governo: L’olocausta di d’Annunzio, ideata dalla storica Tea Perinčić (curatrice e già direttrice del Museo marittimo e storico del Litorale croato, che nel novantesimo del fatto propose un percorso sul Natale di sangue) e dalla storica dell’arte Ana-Maria Milčić (si è occupata, tra l’altro, delle tendenze futuriste a Fiume nel biennio 1919-1921), guarda al passato, ma interagisce con il presente. ll Museo marittimo e storico del Litorale croato, che l’ospita, insieme con l’amministrazione municipale, affrontano il Fiumanesimo come esperienza di stampo protofascista e l’Impresa di Fiume come anticipazione della Marcia su Roma. Non ci stanno a equiparare d’Annunzio a un “eroe rinascimentale”, a una specie di Garibaldi che portò all’Italia la città irredenta che il governo Nitti e la diplomazia italiana non seppero ottenere al tavolo delle trattative. Soddisfatto il sindaco Vojko Obersnel per una mostra allestita “nel momento giusto.”
“Negli ultimi giorni si susseguono diverse interpretazioni dell’episodio di d’Annunzio a Fiume, che spesso si vuole presentare come un gesto rivoluzionario e romantico, mentre in effetti si è trattato di occupazione e di sedici mesi di terrore per quella parte della popolazione che non accettava le idee che venivano divulgate”, ha commentato Obersnel, aggiungendo che “con la sua occupazione di Fiume di stampo protofascista, d’Annunzio ha dato un primo esempio, seguito qualche anno dopo da Mussolini con la marcia su Roma. Questa mostra rappresenta Fiume come un’’olocausta’, ma con un significato diverso rispetto a quello inteso da d’Annunzio”. Ne scaturisce un chiaro messaggio antifascista e afferma i valori sui quali poggia l’Europa odierna. Critico nei confronti dell’allestimento triestino e soprattutto della statua in onore di d’Annunzio, che vede “in linea con le esternazioni di alcuni politici italiani che non possono accettare i confini odierni dell’Italia”.

Indicò una via

La storiografia italiana respinge l’idea di un Vate organico al regime di Mussolini, come emerso al convegno promosso a Gardone Riviera dal 5 al 7 settembre dalla Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. La vicenda è ben più complessa e difficile da imbrigliare in formule semplicistiche e liquidatorie. È vero che la sfida lanciata da d’Annunzio al governo Nitti rappresentò una rottura eversiva della legalità istituzionale, che Mussolini (ma anche movimenti e gruppi attivi in altri Paesi d’Europa) ricalcò. Ma, soprattutto, fornì “l’armamentario di un nuovo linguaggio, consono alla politica delle masse”, spiega Roberto Chiarini – ordinario di Storia contemporanea e titolare dell’insegnamento di Storia dei partiti alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano –, cui il Duce fece ampiamente tesoro: “la politica elevata a religione civile; la pratica del contatto diretto, quasi fisico; i discorsi dal balcone; il ricorso a miti desunti dalla retorica patriottarda; l’utilizzo di riti capaci di infiammare gli animi; gli slogan sfacciati e beffardi”. Ma dissonanze e difformità non mancano, tra fiumanesimo e fascismo. È “difficile ricondurre la marcia da Ronchi e la marcia di Roma a due semplici varianti di uno stesso progetto eversivo antidemocratico, anche se bisogna riconoscere che vanno iscritti entrambi alla stessa ventata di nazionalismo – conclude il professore – che dal 1919 scuote sin dalle fondamenta l’ormai infragilita democrazia liberale”.
Dunque, rimane ancora tanto lavoro da fare per restituire una ricostruzione più aderente alla realtà. “Troppo spesso infatti, come è avvenuto anche nel caso dell’Impresa di Fiume, la preoccupazione di rintracciare responsabilità e anticipazioni del ‘male assoluto’ del fascismo ha indotto a seguire un percorso scontato, attribuendo ai processi di allora in atto così come ai propositi nutriti e alle scelte compiute dai protagonisti una carica necessitante, quasi fossero anelli di una catena causale, che ha finito per impoverire ogni evento e ogni dialettica”, sottolinea l’accademico.
In un’intervista al quotidiano “Il Manifesto”, Tea Perinčić si dichiara preoccupata per le riletture che vedono l’esperimento fiumano come un ’68 ante litteram, la realizzazione di un’utopia libertaria. “Ma qui in Croazia nessuno sembra farci caso. I nostri politici guardano ad est piuttosto, preoccupati dalla situazione in Bosnia, quando in realtà ci sarebbero le condizioni per aprire una vera e propria crisi diplomatica. Questo ritorno di fiamma del nazionalismo in Italia, questa retorica agiografica sul passato per trovare appigli ideologici è inquietante. Tanto più che si travisa anche la Storia. Fiume non è mai stata una città italiana – dice al giornalista Tommaso Basevi –, semmai un porto aperto abitato da una molteplicità di etnie. Per secoli ha goduto di uno status particolare all’interno dei confini dell’Impero austroungarico. D’Annunzio ha negato il municipalismo, che era sempre stato un tratto fondante della città. Ha spinto molte persone all’esilio. Insomma, la sua avventura, finita poi nel sangue, ha aperto la strada al fascismo. Ne è stata la prova generale”. Perinčić fa notare le sfumature importanti che continuano a essere ignorate. L’autoritarismo di d’Annunzio, ad esempio. Organizzò un referendum sulla proposta del compromesso (il “modus vivendi”) che Nitti gli fece avere tramite il generale Pietro Badoglio, che in pratica prevedeva per Fiume lo status di “città libera” qualora, per le implicazioni internazionali, sarebbe sfumata l’annessione all’Italia. Con il referendum del 18 dicembre 1919 la popolazione fiumana legittimò la piattaforma governativa, nonostante i legionari avessero intimidito elettori e avessero sequestrato manifesti favorevoli alla soluzione pacifica offerta da Roma. Quando l’esito del voto andava via via mostrando una maggioranza contraria, d’Annunzio interruppe il suffragio e ordinò ai suoi uomini di dare fuoco alle urne.
“La storia di Fiume è, secondo me, la cartina di tornasole di cosa può succedere quando la mistica della patria prende il sopravvento – incalza la storica –. Tutto quello che è venuto dopo in questa regione di frontiera ha la sua origine proprio nel 1919. Mi riferisco agli anni del fascismo e a quello che è successo dopo il 1945. Comprese le foibe. Che non giustifico, assolutamente, ma che sono il frutto avvelenato di queste pulsioni. Per questo presenteremo altre due mostre incentrate sul significato di confine, di frontiera. Le celebrazioni del 2020 (quando Fiume sarà capitale europea della cultura, ndr) serviranno a riscoprire Fiume come ‘Porto delle diversità’. È l’intitolazione che abbiamo scelto, perché Il porto per definizione è aperto. Contrariamente ai muri che invece chiudono l’orizzonte”.

Figure emblematiche

Tornando alla mostra al palazzo del Governo, si parla delle donne. La figura femminile viene usata anche in un’altra accezione. L’irredentismo usa il suo corpo per sferzare una critica alla politica (ci sono le vignette del giornale satirico “Koprive” e della “Vedetta d’Italia”), per promuovere un ideale. Nell’iconologia di artisti futuristi come Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà (si veda “La musa metafisica”, dove accanto a un enorme manichino raffigurante una giocatrice di tennis, vi è appoggiato a terra un plastico dell’Istria con il Quarnero e il punto di un bersaglio), Paolo Buzzi (da “Conflagrazione. Epopea parolibera”, tavole composte dall’autore negli anni della Grande Guerra, veri e propri quadri-collage), la città stessa è donna. Ma si parla soprattutto delle donne che sono state in contatto con d’Annunzio e che, come Fiume, ne sono uscite afflitte. Un numero “rosa” sorprendente, circa 300. Alcune fanno una fugace apparizione nelle fotografie, e se non manca un riferimento all’amore leggendario con la divina Eleonora Duse, l’attenzione si focalizza sulla pianista Luisa Baccara, sull’insegnante fiumana di nazionalità italiana Nicolina Fabris – la “mamma” degli arditi, una signora di 60 anni, di famiglia irredentista, che aveva messo in salvo decine di soldati italiani fatti prigionieri degli austriaci per poi accogliere entusiasta i legionari all’entrata a Fiume e istruirli (molti avevano abbandonato la scuola per raggiungere Fiume e d’Annunzio) –, e sulla fiumana di nazionalità croata Zora Blažić.
La vera “perla” tra documenti, fotografie, dipinti, giornali e cimeli vari, è proprio il diario di quest’ultima. La famiglia abitava in Fiumara e affitta alloggi anche agli uomini di d’Annunzio (che la ragazza definisce bene educati), aveva un negozio di scarpe sul Corso, ma un certo punto perse la licenza e fu costretta a cedere l’attività a un italiano. Zora si lamenta perché vorrebbe fare il pane, ha la farina ma non il lievito; accenna agli scaffali vuoti nei negozi (a causa dell’embargo), del costo troppo elevato del biglietto del cinema (manco a dirlo, si dava “Cabiria”, diretto da Giovanni Pastrone, con didascalie di d’Annunzio) accenna alle manifestazioni di protesta organizzate dai serbo-croati…
La ventenne croata diventa figura emblematica degli “esclusi”, di quelli che non si divertirono alla “festa della rivoluzione” (per riprendere il titolo del saggio di Claudia Salaris, tradotto in croato nel 2013). Ben 1.500 nel primo mese, nel complesso attorno ai 5.000 croati andarono in esilio. L’epilogo sarà la “città olocausta” della mostra, sfinita, distrutta, divisa. D’Annunzio lascerà Fiume dopo che il Trattato di Rapallo, siglato il 12 novembre 1920, dichiarerà lo Stato libero di Fiume. D’Annunzio si riufiuterà di accettare il diktat e il 24-29 dicembre 1920 scoppierà il Natale di sangue (il 26 dicembre la nave “Andrea Doria” bombarderà il palazzo del Governo) e il 31 dicembre il Comandante firmerà la resa, abbandonando la città il 18 gennaio 1921 per ritirarsi volontariamente nella villa di Gardone Riviera. Il 24 aprile 1921 si terranno le prime e uniche elezioni parlamentari dello Stato libero di Fiume, con la schiacciante vittoria degli Autonomisti di Riccardo Zanella. Il 3 marzo 1922, un colpo di stato fascista lo costringerà alle dimissioni. L’anno seguente, il Trattato di Roma sancirà il passaggio della città all’Italia, porto Baross escluso. Vent’anni dopo, dopo un regime che si macchierà di nefandezze varie, Fiume sarà annessa alla Jugoslavia di Tito, vincitrice nella Seconda guerra mondiale. Le repressioni del nuovo “potere popolare” (circa 650 persone troveranno la morte) porteranno all’esilio di quasi la totalità della popolazione italiana.
Sintomatiche le polemiche che hanno accompagnato il centenario dell’Impresa di Fiume, compromettendo le timide aperture. Le ferite sono ancora aperte. La memorialistica testimonia i traumi vissuti in queste aree di confine. Ma non va confusa con la storiografia. In questo ambito, comunque, le prospettive restano diverse, spesso con venature ideologiche o nazionali, strumentali, nella convinzione che la ragione sta tutta e solamente da una parte. Ancora non ci si ascolta fino in fondo, ma perlomeno ci si parla. E forse un giorno si riuscirà a liberare questa storia dalle maglie della politica e dal prisma dell’attualità.

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