«Abbiamo bisogno di un cambiamento culturale in tutti i pori della società»

Mondo del lavoro, precariato, rappresentanza sindacale, giovani, reddito di cittadinanza... L’analisi di Aldo Marchetti: triestino, sociologo, docente universitario e giornalista,

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Aldo Marchetti è sociologo, docente universitario ma anche giornalista, direttore di diverse riviste di cultura, autore di numerosi libri. È nato a Trieste, città alla quale torna ogni tanto, per i legami con la famiglia, con gli amici, con le atmosfere così intense di ricordi ed esperienze. “Iniziai a studiare filosofia alla Cattolica di Milano ma era il 1968 e venni espulso – racconta –, la sociologia nacque da un interesse del momento, prima ancora che vincessi una borsa di studio a una scuola di sociologia diretta da Alessandro Pizzorno e poi da Giovanni Arrighi, quest’ultimo teorico dei fenomeni più recenti. Iniziai le mie prime ricerche negli anni Settanta quando le nuove tecnologie fecero la loro comparsa negli uffici”. “Ho lavorato per quasi un decennio alla formazione sindacale nella Cisl-Lombardia – aggiunge – e ho cominciato a insegnare sociologia a Scienze Politiche di Milano e in seguito a Scienze della Formazione de La Bicocca e a Giurisprudenza a Brescia. Ho sempre svolto ricerche per la Fondazione Pietro Seveso, diretta da Tiziano Treu e da Gian Primo Cella, e all’IRER, l’Istituto di Ricerca della Regione Lombardia. Per una ong milanese ho svolto ricerche sui bambini di strada ad Addis Abeba e sulla condizione femminile in Cambogia. Con maggiore costanza mi sono occupato di relazioni industriali, parità uomo-donna, immigrazione”. Negli anni più recenti, si è dedicato al tema delle fabbriche recuperate dai lavoratori in Argentina e al movimento dei contadini “Sem Terra” in Brasile.

Era possibile in quegli anni ’70 intuire quale cambiamento avrebbe determinato l’uso degli strumenti elettronici?

“Erano solo percezioni, si cominciavano ad intuire i grandi cambiamenti. Ebbi modo di viverlo all’interno dei sindacati dei poligrafici, nel passaggio epocale dalla tipografia a caldo, con le righe impresse nel piombo fuso, a quella a freddo che eliminava una grossa fetta di lavoratori specializzati e ne avrebbe creati altri, diversi seppure impegnati nell’ottenimento dei medesimi risultati. È così che ho conosciuto la vita sindacale dall’interno”.

Un settore che ha continuato ad analizzare e studiare anche con la collega Bianca Beccalli, che con Enrico Pugliese firma l’introduzione al suo libro “La rappresentanza del lavoro marginale”. Si parla di sindacati ma soprattutto di precariato, che è una parola purtroppo ricorrente nel mondo d’oggi…

“Ho sempre studiato la fabbrica, le dinamiche del mercato del lavoro e, naturalmente, la delocalizzazione che non sposta solo le mansioni ma anche le responsabilità, il potere decisionale…”

E le ingiustizie, le frontiere di un nuovo sfruttamento, sotto agli occhi di tutti, ma per certi versi defilato…

“Si sta manifestando comunque una richiesta dal basso di nuove dinamiche di tutela. Stanno sorgendo timidamente ma molto motivate. Ho analizzato, nel libro citato, due diverse realtà: Milano e Buenos Aires. Uno studio comparativo sul piano internazionale sul rinnovamento dei sindacati e sulle molteplici forme di rappresentanza dei soggetti deboli del mondo del lavoro”.

Che cosa ne è emerso?

“Difficile riassumere le tante conclusioni esplicitate nel volume, ma va detto che la rappresentanza dei gruppi svantaggiati è diventata un aspetto centrale della crisi che stanno attraversando i sindacati tradizionali. La scarsa forza rappresentativa dei lavoratori immigrati, dei precari, delle donne ne è allo stesso tempo l’effetto e una delle cause. Di fronte a queste sfide, i sindacati tradizionali restano protagonisti nel loro ruolo storico, ma al loro fianco compaiono altri attori che partecipano in forme diverse alla rappresentanza del lavoro. Non si tratta di un processo nuovo, ma possiamo ritenere che abbia registrato un’accelerazione nei tempi più recenti”.

Ci si può attendere un mutamento di rotta?

“Non credo si possa sperare in risultati nell’immediato futuro. Ho esteso la mia ricerca ad altri due fenomeni che vanno di pari passo con la crisi della rappresentanza, la parità di genere e l’emigrazione. I campi di studio sono immensi. Negli ultimi anni ci sono stati cambiamenti epocali. Le donne in particolare sono state protagoniste di un fenomeno globale, visibile maggiormente in America latina, in India che non in Europa. Le donne in Cambogia dopo Pol Pot, ad esempio, avevano creato delle comunità di genere per sopravvivere. C’è poi il risveglio del mondo contadino, in Brasile con il movimento della Via Campesina, in India ed anche in Europa, in Francia come in Italia, legato alla questione dell’agricoltura sostenibile, alla salute, al rapporto con le multinazionali. L’ONU due mesi fa ha approvato la Dichiarazione dei diritti dei contadini e dei lavoratori rurali, con la quale si intende garantire il miglioramento delle condizioni di vita di donne e uomini che vivono nei contesti rurali nonché rafforzare la sovranità alimentare e tutelare la biodiversità”.

Come si colloca nell’analisi economico-sociale oggi il fenomeno del precariato?

“È ciò che una volta veniva considerato sottoproletariato, accompagnato da un tentativo di organizzazione microscopica di forme di rappresentanza dei lavori una volta considerati poveri, adesso diventati la maggioranza. A Bombay esiste il più grande Slum al mondo, una specie di inferno, tipo le favela: nel passato, se andavi a visitarlo eri il guardone della miseria umana, oggi è meta dei tour turistici, non per una sorta di voyerismo ma per una condizione creata dagli stessi abitanti di Dharavi. Stessa cosa per quanto concerne le favelas brasiliane. Dharavi sopravvive grazie alle sue attività commerciali. Il 70 per cento degli abitanti non esce dallo Slum per cercare lavoro. Il lavoro è qui. Nella baraccopoli di Dharavi a Mumbai, in India, vivono e lavorano oltre un milione di persone. Con le loro piccole attività, i conciatori, i tessitori e i produttori di sapone, alimentano un giro d’affari annuale di circa un miliardo di dollari. Più di 900 milioni di persone, na su sette della popolazione mondiale, vivono in condizioni di estrema povertà negli Slum. Le Nazioni Unite stanno lavorando a un piano d’azione per garantire lo sviluppo sostenibile delle grandi città e degli insediamenti informali, la cui popolazione negli ultimi decenni è molto aumentata a causa della crescita demografica e dell’urbanesimo”.

Tutto fa economia, ma è il caos…

“Il lavoro oggi è stato spaccato in due, da una parte i lavoratori con un lavoro responsabile, creativo e, dall’altra un lavoro disperso, immiserito, svalorizzato che è quello del precariato, di sussistenza, di sopravvivenza, lavoro informale. Il miracolo che avevano prodotto i sindacati era stato quello di tenere insieme il lavoratore qualificato ed il lavoratore manovale. Il fenomeno della precarizzazione è la frattura tra questi due, tra lavoro nobilitato e lavoro svalorizzato, quest’ultimo presente oggi in tutto il mondo in forma massiccia. Invece del Lavoro con la elle maiuscola, tanti lavori con la elle minuscola”.

Perché i sindacati non sono in grado di un’azione che li rappresenti e ne muti le sorti?

“Invece di questa risposta che potrebbe sembrare logica ne scopriamo un’altra: nascono associazioni di precariato organizzate in realtà microscopiche. Il sindacato industriale che era il cuore del lavoro del secolo scorso non esiste più. Il sindacato nell’industria non ha più rappresentatività. Ma anche queste realtà sindacali minime non riescono ad essere incisive: dovrebbero unirsi in un’unica organizzazione mondiale, e forse qualcosa sta succedendo. Le pettorine gialle, lo sciopero delle donne di Buenos Aires… Paradossalmente, è Internet che ne diventa il collante, lo spazio di unione, rivelandosi uno strumento utile, un naturale passa parola, ma non è ancora l’organizzazione. I sindacati dovrebbero diventare dei grandi forum sociali in cui il lavoro trova motivazioni per una lotta unica”.

Le ideologie di sinistra del ’900 che spesso vengono dileggiate, condannate, paradossalmente, sono state una risorsa immensa, l’idea che muove la massa…

“Non è sufficiente battersi per una questione sociale se non ti muovi per cambiare un contesto più ampio. Le ideologie erano la risorsa, il sogno, l’utopia. Ci sono aree del mondo in cui questa spinta ideale, vedi l’Amerca Latina, vedi l’India, ancora persiste. Il Movimento brasiliano dei ‘Sem Terra’, dove sono stato nell’ultimo mese e mezzo, si definisce umanista. E socialista. Non è altro che la solidarietà tra i poveri, che noi abbiamo perso perché non siamo più poveri. Ma il socialismo è questo, l’unione che fa la forza”.

In che cosa credono oggi i giovani?

“Nella concezione del mondo attuale, cercano la giustizia sociale, il controllo del clima, il rispetto dei diritti. È il mondo delle ong, le organizzazioni non governative, all’interno delle quali ho lavorato in una ricerca sulle condizioni dei bambini di strada, di chi muore di Aids. Ho avuto modo di constatare la carica umanitaria dei giovani che operano all’interno, ce ne sono migliaia, ma non se ne parla, non nel giusto modo. La gioventù non è silenziosa, è dispersa. C’è una grande parte del pianeta che risente della superiorità del mondo occidentale, infilata nelle relazioni sociali, nell’imposizione dei tempi di reazione, nelle situazioni affettive, che non tiene conto della diversità del mondo a cui ci si rivolge, si tratta di realtà molto diverse da noi, che non si possono piegare alla nostra volontà. E allora si assiste a uno spreco enorme di risorse, all’apparenza senza grandi risultati. Lontani da quel principio fondamentale: non dargli il pesce ma aiutalo a pescare. Rimane però un fatto positivo, l’approccio delle ong diventa una dinamica che finiranno per assorbire al loro interno, facendola propria. Cominciando a gestire senza intermediari. Ma di tutto ciò poco o nulla emerge a livello informativo. Se ci fosse un forum in cui il mondo del lavoro con miliardi di rappresentanze di base, riuscisse ad avere voce, si troverebbero le vie e le possibili soluzioni alla crisi che ci accompagna”.

Nei media, a proposito di ong, passano messaggi negativi, cosa ne pensa?

“Le critiche che anch’io muovo sono fatte nell’insieme di una valutazione del tutto positiva del loro operato. Credo che vadano difese e incoraggiate in quanto operano all’interno di un mondo di valori del tutto condivisibile”.

Azzardi delle risposte, che cosa si dovrebbe fare?

“Eliminare il lavoro interinale o comunque ridurlo al minimo ed eliminare le agenzie che lo controllano e lo sfruttano. Soprattutto il settore pubblico non si dovrebbe permettere di assumere la gente con questi contratti. Il lavoro interinale andrebbe ridotto al minimo anche nelle aziende private. Finché persiste questa situazione, i sindacati non saranno mai in grado di rappresentare gli interinali”.

La sociologia l’aveva segnalato?

“Il governo ha sbagliato a parificare il lavoro interinale con quello rappresentato non riuscendo a contrastare la realtà neoliberista. Anche noi sociologi abbiamo fatto cilecca, abbiamo studiato il precariato perdendo di vista il significato del mutamento del lavoro indotto in questo modo. L’intera sinistra classica ha accettato l’ondata neoliberista. La Uil da sindacato dei lavoratori è diventata sindacato dei cittadini, perdendo di vista il proprio ruolo. L’inversione di tendenza è molto debole”.

Che cosa ne pensa del Reddito di cittadinanza?

“Sono un vecchio moralista, non sono d’accordo, non riesco a schiodarmi dall’idea che sia meglio la distribuzione equa del lavoro. Trovo ancor oggi attuale la linea della riduzione secca dell’orario di lavoro per tutti, come si diceva una volta, lavorare meno per lavorare tutti”.

Ha comparato le forme di reddito legate alla formazione professionale a Milano, Buenos Aires, doveva esserci anche NY…

“Esattamente. Ma non è stato possibile anche se proprio qui la delocalizzazione è molto forte, direttamente proporzionale alla presenza storica dei sindacati. Sarebbe stato utile per capire certe dinamiche anche perché NY è ancora oggi la città più sindacalizzata. Il confronto, ci doveva far capire se il nuovo sindacato possa interagire con le nuove dinamiche che nascono dal basso”.

Quali le conclusioni finali di questa analisi?

“Il sindacato deve cambiare radicalmente dal punto di vista culturale per catturare i soggetti nuovi. Deve effettuare una scelta strategica, non ridursi a sportello per il lavoro precario. Aprirsi a tutte queste realtà. Con la consapevolezza che su tutto, ciò che conta veramente, è il lavoro”.

Ma che cos’è oggi il lavoro?

“Ciò che crea valore. Gira molta ideologia sull’imprenditoria, le start up, ma il lavoro è una dimensione collettiva e sociale, con formazione professionale, centri per l’impiego, la creazione di legami e di forme di associazione. Sono tornato in questi giorni da San Paolo, c’è gente che muore di fame per strada, disgregazione sociale incredibile, la più grande forbice tra ricchi e poveri. Eppure il Brasile è tra i Paesi più industrializzati. È una politica ancora da fare perché le grandi disuguaglianze non reggono”.

Percepisce soluzioni dietro l’angolo?

“Non ci sono soluzioni immediate. Continueranno gli squilibri, s’innescherà una nuova corsa agli armamenti e poi chissà, le previsioni non sono possibili. Ciò che possiamo vedere è che stiamo consumando il grasso accumulato negli ultimi decenni per cui declineremo, diventeremo sempre più poveri continuando a lamentarci, cambiare governi, i giovani continueranno ad andar via. Cambiamenti ai quali ci adegueremo come abbiamo sempre fatto”.

Perché a Milano ha scelto di analizzare le dinamiche del mercato ortofrutticolo?

“Perché è l’esempio lampante delle cooperative da riformare, spesso appaiono mascherate per attivare gli incentivi sociali. Quelle false cacciano quelle buone. È lo specchio di una realtà più ampia, che va cambiata”.

Di che tipo di mutamento abbiamo bisogno?

“Culturale, nei sindacati come in tutti i pori della società, locale e globale”.

Trieste, la via della Seta, le nuove mete di sviluppo del porto, la cultura del e nel lavoro. Come vede queste novità?

“È un augurio a questa mia città, che potrebbe diventare un esempio se e quando tutto questo dovesse trasformarsi in realtà”.

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