Gli istriani sono come alberi con tante storie irrisolte

Guarire dal trauma dell’esodo è un percorso lungo, a volte impossibile. Bisognerebbe intervenire: i pareri dello psicologo e psicoterapeuta Paolo Zucconi

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Gli istriani sono come alberi con tante storie irrisolte
Paolo Zucconi nella sua Rovigno

Agosto. Il mondo in movimento. Ma non sempre è solo semplice vacanza. Non per il dott. Paolo Zucconi (nato Zuccon, che in Italia diventa “Zucconi”), psicologo clinico e psicoterapeuta comportamentale di fama, per tanti anni un riferimento, in particolare a Milano e Udine, come scopriamo a un tavolo di caffè in una mattinata rovignese.

Rovigno come meta, perché è stata la città dei suoi genitori dei nonni, bisnonni e avi, il riferimento della sua lingua madre, l’istrioto e tanto altro, da percorrere insieme in questa lunga conversazione che lo riguarda e ci riguarda.

Un po’ di storia personale.

Nato a Trieste, “in esilio” (come sottolinea), da genitori rovignesi. La madre cresciuta nelle atmosfere della trattoria Al Vaporetto, nei locali che oggi sono occupati dal Museo della Battana. Il nonno materno, Giuseppe Rocco (Nanon) detto El Niro (anche “Vapurito”), come nella migliore delle tradizioni dei soprannomi che contraddistinguono le famiglie locali i cui cognomi si moltiplicano ma spesso non s’intrecciano.

L’esodo dei suoi genitori lo porterà anche al campo profughi di Santa Croce, a Trieste, poi a Udine. Nelle due città frequenterà le scuole, conseguendo una laurea in pedagogia a Trieste. Mentre a Roma, presso l’allora Università europea, si laurea in Scienze e tecniche psicologiche e anche in Psicologia clinica e della Comunità. Una carriera di successo.

Con tanti ritorni a Rovigno.

“Da ragazzo la meta era il centro giovanile di Scaraba: una calamita, si ballava allora in 15 posti. Avevo a Rovigno i parenti di mio padre, “la vecia Calisona”, e altri amici e conoscenti. Il primo approccio con la città è stato attraverso i ricordi dei miei genitori e la battaglia a scuola dove venivo offeso per la mia diversità. “Istrian, va a pascolar le pegore”, mi dicevano. Ovviamente i bambini si comportavano così perché i genitori ne parlavano a casa con disprezzo, con quei preconcetti che è sempre difficile estirpare”.

Che rapporto aveva a Udine con l’associazionismo?

“Personale, nel senso che conoscevo bene il presidente del Comitato locale dell’ANVGD, Silvio Cattalini, ma anche i rovignesi, in particolare l’ing. Francesco Zuliani, mentre a Trieste frequentavo il presidente Rino Devescovi e tanti altri esponenti della Famia ruvignisa”.

Una ricerca dei concittadini?

“Soprattutto il bisogno di ritrovarci tra noi, un bisogno profondo di ricompattarci e condividere una parte di noi stessi con gli altri. Per esempio, tra le tante cose, esiste oggi sui social un profilo Fb chiamato “Istriani e basta! (No politics No discrimination)” in cui si parla solo di istrianità che unisce e non di quella politica che ci ha sempre divisi”.
Quali sono, secondo lei, i valori di quest’appartenenza?
“Direi che ci si riconosce nelle tradizioni, nei modi di fare e di dire, secolari; qualcosa di atavico che emerge, un legame col passato che ci appartiene, ed è molto forte quello con la nostra terra che spiega, secondo me, lo strazio dell’esule nel doverla lasciare, per il legame molto particolare che aveva con la propria terra. C’è una differenza con altre zone d’Italia dove non c’è questa forte coesione sociale e ambientale con la terra, concetto che comprende in questo caso specifico anche il mare. È la sindrome dell’albero: gli istriani sono ben radicati, in sintonia con il clima e le stagioni. Mio padre ha voluto che sulla sua tomba scrivessi “sradicato”. Si chiamava Matteo (Uccio) ed era marittimo. Cuoco a bordo. Devo anche a lui la passione per la cucina congiuntamente all’esperienza della famiglia di ristoratori dalla parte di mia madre”.

Il cavallo di battaglia?

“Il brodeto. Gli amici di Udine mi dicevano di non aver mai visto né assaggiato una cosa del genere. In pescheria andavo a scegliere personalmente il pesce “giusto”. Scarpena, asià, seppie, grongo, coda di rospo, polipo, capone, salpe, volpine, bobe, molluschi e crostacei (“scarun”). La terminologia continua ad essere quella di casa mia, dove si parlava soltanto il rovignese. Mia nonna non conosceva altra lingua e questo chiaramente mi rendeva ‘diverso’, anche a scuola”.

Rovigno oggi è anche questo?

“Sì uno splendido ritorno. Mi sono integrato in un gruppo di concittadini con cui si parla ancora il rovignese. Purtroppo uno degli eventuali errori è di non aver insistito a insegnarlo alle giovani generazioni e anche a praticarlo, a vari livelli. Ne ho ragionato nello specifico anche con il prof. Giovanni Radossi del locale Centro di ricerche storiche. Venendo io dal Friuli ho seguito l’evolversi del discorso di recupero, della salvaguardia e dello sviluppo del friulano portato nelle scuole e reso palese attraverso un bilinguismo visivo, a livello istituzionale (radio, televisione, stampa, scuole, ospedali, uffici pubblici e pubblici avvisi, segnaletica stradale). Per lo storico glottologo Graziadio Isaia Ascoli, friulano e rovignese facevano parte della famiglia delle lingue neo latine e non dei numerosi dialetti. Bisognerebbe estendere anche all’Istria l’esempio del Friuli, un impegno da affidare agli specialisti”.

Il fatto di essere “trasversale”, figlio di esuli, con le radici in Istria ma la professione in Italia, in che modo l’ha aiutata nel suo lavoro?

“Direi molto. Inizialmente mi occupavo di turismo, soprattutto nei villaggi turistici con alcune Organizzazioni governative di Belgrado. Portavo i gruppi dall’Italia in Dalmazia, in particolare nel territorio di Makarska. Facevo anche animazione in 4 lingue. Avevano scelto me perché comprendevo meglio la “situazione”, viste appunto le mie radici. Con la guerra del ’90 sono rimasto spiazzato per ovvie ragioni. Ho quindi iniziato l’attività di psicologo e psicoterapeuta a livello locale e nazionale. Sono stato il primo in Italia a occuparmi del fenomeno del gioco d’azzardo. Presso l’azienda sanitaria di Udine ho creato un primo centro di recupero per giocatori e loro familiari. Molta gente dell’FVG andava a Nova Gorica e Villach a spendere la pensione e tutti i loro risparmi al gioco, pure indebitandosi. Mi chiamavano in televisione (RAI 1, RAI 2, RAI 3 Reti Mediaset e private) portandomi visibilità con tutto ciò che ne consegue. Per questa mia attività il Presidente Carlo Azzeglio Ciampi mi ha conferito il Cavalierato”.

Le mie sfere di competenza tecnico-professionale erano tuttavia molto più ampie della dipendenza dal gioco… Certo, anche perché la gente arrivava con i problemi più disparati e anche molto complessi e difficili. Il mio approccio comunque è sempre stato del tipo cognitivo comportamentale. Vale a dire decisamente pratico e pragmatico”.

Tra i clienti, anche esuli?

“Tanti figli di profughi. La maggior parte portatori di un trauma grande che accomuna genitori e figli nati dopo. Al momento dell’esodo si sarebbe dovuta avviare un’assistenza mirata, ma si tratta di discipline e metodi di intervento che sono venuti dopo”.

Con quali conseguenze da lei riscontrate durante l’assistenza?

“Si tratta di peculiari condotte comportamentali che il profano non vede, ma che emergono in certi ragionamenti e che grazie alla mia formazione professionale notavo. Sono segnali di un disagio che ha segnato le persone direttamente coinvolte nell’esodo e i loro figli. Ne ho visto tanti. Lo sradicamento è pesante. Tuttavia anche “i rimasti” hanno avuto i loro problemi e i loro traumi”.

Lei come si sente quando è nella sua Rovigno?

“Bene. La terra, il mare, il clima stesso creano un ambiente di rilassamento e di tranquillità che altrove oggi come oggi non penso sia possibile. Si vivono dappertutto momenti di stress, anche elevato senza un antidoto disponibile. Allora è il momento di cambiare completamente lo stile di vita, non limitandosi a seguire una qualche, se pur efficacie, terapia”.

Il ritorno e le sue dimensioni. Ci sarebbe bisogno di un coordinamento, le proposte sono più numerose di quanto si possa immaginare.

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