Anche il Marchese del Grillo vestito da una bimba di Pola

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Anche il Marchese del Grillo vestito da una bimba di Pola

“I lavori di Gianna Gissi, da ieri, sono esposti a Lisbona con quelli del suo consorte, Lorenzo Baraldi, una grande mostra dedicata ai film di Monicelli di cui sono stati rispettivamente costumista e sceneggiatore”. La notizia arriva da due appassionati di cinema, due professionisti, Lorenzo Codelli, critico, giornalista e Mario de Luyk che tante rassegne del cinema ha organizzato in Istria e a Fiume. Gissi, il cognome suggerisce altri legami, il pensiero vola a Pola. Centro: è nata a Pola il 5 febbraio 1943, ha frequentato a Roma, dopo il Liceo artistico di Ripetta, i corsi di Storia del Costume all’Accademia di Costume e Moda, diplomandosi a pieni voti.
Dopo i primi anni come assistente in vari film, inizia la professione firmando tra l’altro importanti sceneggiati televisivi e tanti film. Anche quel “Parenti serpenti” di Mario Monicelli che proprio de Luyk aveva voluto presentare al Teatro Ciscutti con il regista in prima fila assediato dai fan, felice di esserci…un momento emozionante.
“Pronto? Gianna Gissi?”, risponde con voce profonda, roca, che trasuda simpatia. Una piccola ricomposizione.
“Scusa…ma con Bernardo Gissi, uno dei fondatori dell’ANVGD e per anni presidente del Comitato di Cuneo? C’è un legame?”
“E come no, è il fratello di mio padre. Nel mio piccolo, sono sempre stata presente in questo mondo disperso. Qui a Roma sin da piccola ho frequentato il Quartiere giuliano-dalmata sulla Laurentina. Ci sono ancora i miei amici con i quali spesso ci vediamo, nelle varie ricorrenze, vedi San Tommaso ma anche il Giorno del Ricordo e tante altre. Se non sono impegnata fuori Roma, partecipo sempre. Anche perché mio padre mi ha sempre tenuta legata a questa nostra realtà. Nel dopoguerra con Libero Sauro organizzò l’assistenza ai profughi. Lo zio Nando era il più piccolo dei fratelli, che erano tre più una sorella. Uno emigrò in America. Sparsi dappertutto. Negli anni Sessanta mio padre venne chiamato da Aldo Clemente a far parte dell’Opera profughi, quindi ci sono vissuta dentro. Lui non guidava pertanto ero io che lo portavo in macchina a visitare i campi profughi che ancora esistevano nel Lazio, ad Alatri e poi a Laterina in Toscana, ne ho visti parecchi. Ecco perché sono al corrente di tante cose”.
I contatti con la famiglia ci sono sempre?
“Sì, certo. Con le figlie di Nando che stanno in Piemonte e poi con Francesca che molti hanno conosciuto nel film Magna Istria. Ci rivedremo tutti a giugno al matrimonio di mio figlio. Una bella famiglia”.
Il tuo esodo?
“Avevo cinque anni e non capivo la tragedia che stavamo vivendo. Non capivo la tristezza e le lacrime di mia madre e di mia sorella mentre salivamo sulla nave Toscana, era l’ultimo viaggio di quella nave e poi si sarebbero chiusi definitivamente i confini. Ho un ricordo netto del Quadrato degli ufficiali dove avevano sistemato la bara di Nazario Sauro trafugata nella notte da un gruppo di studenti… e tanto silenzio. Poi la tappa al vecchio Arsenale di Venezia: un enorme stanzone ricoperto di fagotti, valigie, vecchie coperte militari dove dormivamo tutti insieme e dove faceva un freddo cane. Erano i primi di marzo del 1947 e il viaggio per Roma durò quasi due mesi tra treni, camionette, carretti e buone gambe. Di papà non sapevamo niente ma prima di sparire nel ‘45 disse a mamma che se fosse rimasto vivo sarebbe andato a Roma da un lontano cugino e questa era l’unica traccia”.
Che cosa rimane in una bambina di neanche cinque anni di questi momenti terribili?
“Solo dei flash, la sistemazione in grandi stanzoni dove erano le coperte stese a creare un minimo di intimità. Poi il vagone di un treno. Mamma raggiunse Roma con grande coraggio, senza notizie di nostro padre, sapeva di dover aspettare e così ha fatto. Verso i primi di giugno, una sera, arrivò papà. Ricordo le grida di gioia di mia madre, di mia sorella. Io mi tenevo in disparte. Era un uomo molto alto, come tutti i maschi della famiglia, ma giunse a Roma magrissimo. Non lo riconobbi. Mi disse di aver sofferto molto per la mia reazione in quei primi giorni di ricongiungimento. Mi convinsi solo vedendo i polesani che gli venivano incontro chiamandolo Giovanni…Giovanni…”.
A scuola cosa raccontavi di te?
“Dissi di essere di Pola e l’insegnante mi chiese se era nel polesine… venne sostituita da una maestra di Sassari che si dimostrò molto sensibile alla nostra questione, le devo molto. Ricordo che ero molto confusa perché non sapevo se ero italiana, slava, apolide. Non è vero che è bello essere senza radici, come crede qualcuno. Le radici sono necessarie e sono tutto. Una canzone del mio concittadino Sergio Endrigo dice…Vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà”.
Avete avuto la fortuna di non passare dai campi profughi…
“Fu mio padre a cercare un’alternativa. Una camera in affitto in un grande appartamento con l’uso della cucina solo in determinati orari così come imposto dall’anziana proprietaria. Era come essere prigionieri. Le mie compagne mi invitavano a casa loro ed io rifiutavo perché mai avrei potuto ricambiare. Ci venne la maestra sarda, esprimendoci tutta la sua solidarietà. Ci siamo scritte per anni, poi un giorno la sorella mi comunicò la sua dipartita”.
La scelta di abbracciare una professione così particolare come quella della costumista, come è maturata?
“Ho sempre avuto una buona mano e questa è stata la premessa fondamentale. Così ho frequentato il Liceo artistico di Roma nel quale insegnavano i più grandi pittori dell’epoca, una vera fortuna, Sante Monachesi, Ennio Tamburi ed altri. Al mattino ci si occupava di pittura e scultura, il pomeriggio la parte teorica e naturalmente tutte le materie classiche. Giornate pesantissime e molto impegnative con un lungo tragitto per tornare a casa dove trovavo affetto e solidarietà anche da parte dei vicini”.
In che senso?
“Quando arrivammo, i vicini di casa, vennero subito a bussare per darci il benvenuto. Era una famiglia di napoletani che si misero a disposizione. Se avete bisogno di qualcosa, ci dissero, contate su di noi. Avevano una bambina della mia età che è diventata una sorella, non ci siamo mai lasciate, sono venuti al mio matrimonio. D’estate, per anni, mi portarono in vacanza al mare in una località dove si riunivano i loro parenti che sono diventati i miei. Mi reputo molto fortunata. Con Adriana, andavamo al cinema della parrocchia vicino a casa e lì ho fatto scorpacciate di film. Ero incuriosita da ciò che non si vedeva, il dietro le quinte, costumi compresi e giunta a casa ridisegnavo i vestiti che avevo visto. Come spesso succede, a dieci anni avevo già deciso il tipo di lavoro che avrei fatto. E quindi dopo il Liceo ho fatto l’Accademia. Il cinema allora era Roma e quindi era facile arrivarci. Dario Cecchi, della famiglia Cecchi D’Amico, mio professore all’Accademia, ha saputo indirizzarmi, aveva capito le mie potenzialità. Con la sua famiglia ho respirato cultura per molti anni. Poi quando mi sono diplomata, mi ha voluta come assistente. Il primo film, molto divertente, fu con Gianni Morandi come protagonista, ispirato alla favola di Aladino. Mina faceva la strega e Rossano Brazzi il Re. Un cast eccezionale”.
Per una donna si pone sempre il problema di doversi dividere tra lavoro e famiglia, per te come è stato?
“La famiglia veniva per prima, ho avuto due figli, ho rifiutato tanti lavori per costruire buone basi. Ho affrontato nove anni di fermo finché sono cresciuti. Ma quando ho deciso che era il momento di ritornare, l’ho fatto. La mia fortuna è stata di avere un marito che lavorava nel cinema, ci siamo supportati. Nel 1979 sono rientrata con Monicelli, facendo più film in un anno o a volte poche cose. Il nostro è un lavoro aleatorio, può esplodere o recedere ma io ho mantenuto un giusto passo, ho vinto due David di Donatello, ho insegnato, diciamo che ho avuto le mie gratificazioni ovvero, come disse Gassman in un libro molto bello Un grande avvenire dietro le spalle, così è stato”.
Ma cosa significa fare la costumista?
“È un lavoro pesantissimo che mi ha portata a dover affrontare due interventi cardiaci. Non è solo il disegnare i costumi e farli eseguire che è già difficoltoso ma sono i tempi di preparazione: se il regista decide di girare al mattino, bisogna preparare tutto per tempo sia per gli attori protagonisti che per le comparse, significa essere operativi prima dell’alba, massacrante anche perché noi dobbiamo sovrintendere anche al trucco, agli accessori e a tante altre cose. Le levatacce per tempi prolungati diventano un problema. Quando si girava Il Marchese del Grillo, mi sono alzata alle quattro per tre mesi di seguito. C’erano anche mille comparse al giorno che dovevano essere a posto per il ciack del regista”.
Come in un film anche il tuo primo ritorno a Pola?
“Sì, c’era l’altra parte della famiglia, i nonni e gli zii, divisi dalla storia. È stato nella seconda metà degli anni Cinquanta, il nonno al quale ero molto legata perché veniva tutti gli inverni a stare con noi a Roma, morì proprio in quei giorni. Ricordo il funerale e il fatto che qualcuno venne a strappare il crocifisso dalla bara. Era febbraio e faceva molto freddo, il grigiore era dappertutto insieme alla tristezza per l’accaduto e forse non solo per quello. In bianco e nero”.
Come consideri oggi quel ricordo?
“Ormai eravamo abituati a vivere a Roma, attaccati al Quartiere giuliano-dalmato dove si frequentavano questi personaggi forti, Bepi Nider per esempio di cui eravamo molto amici. Proprio con lui facemmo delle estati a Pola, affittando le case a Stoia e fu un diverso ritorno, di altre luci e colori tanto che l’Istria divenne la nostra meta. Nel 1957 noi avevamo trovato una sistemazione fuori da quella camera, le cose s’erano assestate, tutto s’era rasserenato. Quindi il ritorno diventava felice ma anche un percorso di consapevolezza su ciò che era successo”.
Che cos’è per te oggi l’idea di questa destinazione, l’Istria e Pola?
“Come terra rappresenta un Dna preciso, di carattere istriano in genere, di personalità estremamente coerenti, trasparenti, disposte a qualsiasi sacrificio nel bene e nel male. Di gente mutilata ma capace di risorgere, come ho avuto modo di cogliere nella mia famiglia ed in tante altre storie che ho esplorato. A Pola mio padre era un impiegato di banca, il suo vicino di scrivania era il padre di Laura Antonelli. Quando gli proposero di riprendere servizio a Roma, disse di voler continuare la sua opera per i profughi, era una missione alla quale non avrebbe rinunciato. Mio marito, che è scenografo, ebbe modo di lavorare con Laura Antonelli che mi mandava a salutare con la simpatia di una concittadina”.
Il 10 febbraio si parla delle nostre terre, cosa provi?
“Penso a mio padre, per lui sarebbe stato molto importante. Ma anche per i miei figli, Veronica e Leonardo, che hanno vissuto con i nonni, sanno e conoscono tutto, anche il dialetto”.
Un sogno, un desiderio nel cassetto?
“Ero molto invidiosa delle mie amiche che trascorrevano il Natale con la famiglia riunita. Ecco, vorrei un Natale con tutti i parenti, esuli e rimasti, riuniti. Ormai molti sono andati avanti ma almeno per quelli che ancora ci sono… Sarebbe un sogno!”.

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