Non ci sono per nessuno. Non ho litigato con il mondo e sbattuto la porta, per quanto… beh, lasciamo perdere. Non ci sono per nessuno perché voglio evitare distrazioni. A qualcuno piace l’estate e il mare; a qualcuno l’inverno e la neve; a me piace la stagione elettorale. Questo è insomma il mio tempo.
Mi diceva un’amica, tempo fa, di guardare con interesse il Grande fratello. Ma non con occhio voyeuristico (per carità, ci mancherebbe!), ma così, più da un aspetto sociologico. Per capire le dinamiche dei “prigionieri volontari” e del pubblico, delle squadre, dei fan. In definitiva, con questa lente guardo questo rumoroso Grande fratello politico. Diciamo che uso lenti multifocali: sociologiche, antropologiche, politiche… Inizialmente, lo devo ammettere, anche solo per il gusto di sentire come se le suonano – verbalmente -, con un linguaggio colorito, facendo ricorso a tutte le figure retoriche che la lingua offre. Magra consolazione. Anche perché in questo modo viene a galla, spesso e volentieri, tutta la pochezza di alcuni personaggi e della politica stessa. “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”, diceva Enrico Berlinguer, che di certo se ne intendeva.
Mi incuriosisce vedere come chi promette sa quasi con matematica certezza che non potrà mantenere e promette lo stesso, conscio che chi ascolta sa del difetto di realizzazione. Un mutuo do ut des. Uno scambio tra una riciclabile promessa e il passaporto per il Parlamento. Poi c’è il target dei programmi: ogni quattro anni è un gran ben volere a pensionati e giovani. I primi si lisciano con promesse di pensioni meno da fame, i secondi con specchietti casa-e-lavoro. Poi arriva un generico “migliore standard per tutti”, perché tra giovani e pensionati c’è una schiera di elettori tra il deluso e lo speranzoso.
Credo che ormai, per esperienza accumulata, di promesse elettorali le potremmo fare un po’ tutti, sia che la politica ci interessi sia che ci provochi bruciore di stomaco. Sembra che la politica piaccia. Almeno a giudicare dalle liste in corsa alle parlamentari: 166. Tante, dite? Che ne pensate allora del fatto che i partiti registrati sono 407? Su 3.8 milioni di abitanti, ben che vada. Numero che scende considerando unicamente gli elettori, che poi è il parametro che conta.
Così, tanto per dire, in Italia i partiti politici sono 41, su poco meno di 60 milioni di abitanti. In terra teutonica i partiti registrati sono 23 e gli abitanti 84 milioni. E gli Usa? La bandiera a stelle e strisce copre 28 partiti e 333 milioni di abitanti. Solo che negli Usa, dove i partiti hanno un ruolo storicamente diverso, sono Repubblicani e Democratici, rappresentati rispettivamente da un elefante e da un asino (potenza del vignettista Thomas Nast).
Avevo creduto, dopo il proliferare dei primi partiti negli anni Novanta, che con il tempo la situazione si sarebbe cristallizzata anche da noi, con due partiti a contendersi, beh, non dico il malloppo, che potrebbe suonare male, ma ci siamo capiti. Invece no. Sembra che questo ambiente sia oltremodo favorevole al proliferare di partiti. E questo sembra avvalorare la tesi dell’interesse più privato che pubblico. Immaginate un albero. Diciamo di pere. Ogniqualvolta a qualcuno qualcosa dell’albero non andava si staccava… No, scusate, non facciamoli cadere dal pero. Immaginate un albero di mele. Ogniqualvolta qualche mela credeva di avere poco sole, si staccava dal ramo e rotolava un po’ più in là per trasformare i semi in albero. Da partito nasce partito, insomma. Ma con notevole beneficio d’inventario.
Il fatto è che ultimamente, il voto più che appoggiare vuole castigare. Poi magari ci si fascia la testa, perché (in)volontariamente sono stati mandati avanti oscuri personaggi, rumorosi e nulla più. Avete presente, no? Quelli che dicono che il brodo non è buono, ma non sanno nemmeno riscaldare quello in lattina. Segno che gli elettori dovrebbero diventare finalmente consci e coscienti del loro ruolo e ragionare bene.
La politica è quello che è. Lo si vuole una donna più o meno bella impegnata nel mestiere più antico del mondo. Detta così, crudamente. L’arte del possibile, la scienza del relativo, dirà qualcuno più scafato citando Bismarck. Spesso è l’arte dell’impossibile. Di quello che mai e poi mai si sarebbe creduto di poter fare. Disciplina difficile da capire, ancor più difficile da praticare bene. Eppure in questo mare si vogliono tuffare in tanti. Non me ne voglia nessuno: non sento nell’aria tutto ‘sto amore e interesse per il prossimo. Sarà che mi si sono appannati gli occhiali.
Comunque, per il tempo della campagna elettorale, io non ci sono. Andrà come andrà. probabilmente si potrebbe azzardare giù un pronostico, senza tema di sbagliare poi tanto. Ma nel frattempo lasciatemi ascoltare promesse su promesse, tirate d’orecchio e frecciate, il “colpa vostra che”, il “votate noi perché”. Se per ipotesi qualcosa potesse trasformare le promesse in realtà da toccare con mano, diventeremmo il Paese di Bengodi 2.0. Tranquilli, non sarà così. Lo tsunami delle prossime due settimane si taciterà nell’immediato post voto e tornerà a fare rumore alle prossime, presidenziali o amministrative che siano. Sembra che le europee, più di tanto, non tocchino l’animo già provato e sofferente dell’elettorato. Vedremo.
Al di là di quello che può essere lo spettacolo, anzi, tolto proprio l’elemento spettacolo, resta il fatto che poi i destini di noi poveri elettori per quattro anni sarà nelle mani di chi avrà staccato il biglietto per piazza San Marco (Zagabria, non Venezia). Forse anche dimenticandosi di noi. Ho la sensazione che i politici siano in un certo senso lontani dall’asfalto e da chi li ha promossi, vivendo quasi in un’altra dimensione, certamente migliore e privilegiata. Déjà-vu. Ma come detto, i politici sono spesso fatti così. Quando diventano veri uomini di Stato? Quando iniziano a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni. No, non è pensiero mio. Io lo condivido a pieno. Ma la paternità è di Winston Churchill. Sir Winston Churchill.
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