INSEGNANDO S’IMPARA Va’ pensiero

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INSEGNANDO S’IMPARA Va’ pensiero
Il Nabucco di Giuseppe Verdi in scena al Teatro nazionale croato di Zagabria per la regia di Giancarlo del Monaco

Siccome ad ottobre di quest’anno ricorrono i 210 anni dalla nascita di Giuseppe Verdi (nato a Roncole di Busseto il 10 ottobre 1813) e inoltre tra pochi giorni c’è la ricorrenza della sua morte avvenuta a Milano il 27 gennaio 1901, mi sembra il momento ideale per menzionare l’importanza che “Va’ pensiero” del “Nabucco” ha avuto nella vita del grande compositore. Va considerato che questa è probabilmente la più famosa aria della produzione verdiana, tanto che molti la vorrebbero come inno nazionale italiano, in sostituzione della marcetta “Fratelli d’Italia”. Io non sono d’accordo in quanto, in contrasto con l’intento glorificatore degli inni, quest’aria è uno struggente e doloroso lamento per la patria che si è dovuta abbandonare, sentimento epitomato nel verso “O mia patria sì bella e perduta” che di fatto contraddice la natura dell’inno nazionale. Detto questo, è innegabile che c’è qualcosa di speciale in questa composizione, una perfetta sintesi di musica e versi, unita ad una profondità di sentimento che la rendono unica. Forse la sua straordinarietà si può comprendere meglio esaminando da vicino le circostanze in cui è nata.
Giuseppe Verdi è stato un compositore molto prolifico che ha messo mano a 28 opere liriche più varie composizioni di musica sacra e da camera, però c’è stato un momento della sua vita in cui ha rischiato di fermare la produzione delle sue opere alla numero due.
Nel 1838, per il giovane Verdi le cose sembravano promettere bene. Pur vivendo in condizioni modeste a Milano con la giovane moglie Margherita Barezzi e i due figlioletti Virginia e Icilio, le sue capacità cominciavano a esser notate nei circoli musicali milanesi, per cui qualche tempo dopo riuscì a far rappresentare la sua prima opera “Oberto, Conte di San Bonifacio” che ebbe un discreto successo, tanto che l’impresario della Scala Bartolomeo Merelli gli offrì un contratto per altre tre opere.
“Ma qui cominciarono gravi sventure – racconta Verdi stesso in un suo racconto autobiografico scritto per Giulio Ricordi – il mio bambino si ammala… e si spegne nelle braccia della madre disperatissima. Né basta: dopo pochi giorni la bambina cade a sua volta malata!… E la malattia è letale! …ma non basta ancora: ai primi di giugno… (Margherita)… è colpita da violenta encefalite ed …una terza bara esce da casa mia. Ero solo!… solo!… Nel volgere di circa due mesi tre persone a me care erano sparite per sempre: la mia famiglia era distrutta!” Il trauma delle tre morti deve aver segnato Verdi profondissimamente, in quanto in realtà esse sono avvenute nell’arco di due anni (Virginia nell’agosto 1838, Icilio nell’ottobre ‘39 e Margherita nel giugno 1840), ma il dolore, nel tempo, le ha contratte nella memoria nei due mesi ricordati. Come se non bastasse, al culmine del suo dramma personale, a Verdi venne richiesto di comporre un’opera buffa, che per motivi evidenti e non, fu un fiasco.
“Coll’animo straziato…decisi di non comporre mai più!” ricorda Verdi che chiede lo scioglimento del contratto a Merelli, il quale lo invita invano di ripensarci. Completamente sfiduciato, Giuseppe si isola nel suo dolore nella solitudine di una stanzetta ammobiliata. Qualche tempo dopo, in una suggestiva sera di neve, il compositore e l’impresario s’incontrano per caso e, nonostante le proteste di Verdi, Merelli lo conduce nel suo ufficio della Scala e gli infila in tasca un libretto di Solera intitolato “Nabucodonosor” che lui definisce “stupendo e magnifico”. Ma Verdi, sempre fermo nella sua decisione, gli ribatte di non saper che farsene, al che Merelli lo prega almeno di leggerlo.
“Rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo… Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissarono la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va, pensiero, sull’ali dorate… Leggo un brano, ne leggo due leggo il libretto, non una volta, ma due, ma tre, tanto che al mattino si può dire che io sapeva a memoria tutto quanto il libretto di Solera”. Quando Verdi ritorna alla Scala per restituirgli il fascicolo, Merelli capisce che l’irremovibilità del musicista si è incrinata e con il suo fare spiccio, questa volta non vuole sentire ragioni e lo obbliga a mettersi a lavorare.
“Ritornai a casa col Nabucco in tasca: un giorno un verso, un giorno l’altro, una volta una nota, un’altra una frase… a poco a poco l’opera fu composta”. Per l’allestimento dell’opera, però, le parti si invertono, con Merelli che adesso temporeggia e rimanda alla primavera, avendo già preparato il cartellone con nomi più famosi e Verdi che freme, richiedendo, anzi esigendo, che l’opera sia data a carnevale. Questa volta è Verdi a spuntarla.
Intanto l’incantesimo è già avvenuto, perché da lì a breve, mentre sono in corso caotiche prove, con i cantanti che ripassano le loro parti in contemporanea agli operai che allestiscono le scene e alle sarte che adattano i costumi, quando il coro intona le prime note di “Va’ pensiero”, i martelli si fermano, gli spilli e i pennelli vengono posati e le maestranze ascoltano rapite le sublimi note. Anche Verdi stesso ammetterà poi che il “Nabucco” era nato “sotto una stella favorevole”.
Il debutto alla Scala avvenne il 9 marzo 1842 e fu un trionfo, soprattutto di pubblico, tanto che sin da subito le bocche del popolo milanese, dai vetturini alle massaie, si riempirono dei versi dell’opera.
In 10 anni il “Nabucco” fece il giro dei teatri di tre continenti, da Londra e Copenaghen, a Budapest e San Pietroburgo, da Buenos Aires e l’Avana, a New York. Con somma soddisfazione, Verdi dichiarerà che da quel momento in poi non ebbe mai più bisogno di cercare una commissione. Se non è magia questa…

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