INSEGNANDO S’IMPARA Passaporto per le stelle

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INSEGNANDO S’IMPARA Passaporto per le stelle

Ho già menzionato che questo semestre ho due classi parallele di principianti, una al lunedì e una al giovedì. Queste sono le famose classi “internazionali”, quelle con una marcata presenza di studenti stranieri. Dopo gli anni in cui dominavano studenti dell’est-europeo, sono seguiti gli anni con numerosi asiatici (soprattutto cinesi ma anche malesi) e adesso sembra essere il momento dei sudamericani. Perciò nella classe del lunedì ci sono due argentini una brasiliana e un colombiano, mentre in quella del giovedì, due brasiliani e una colombiana.
Normalmente, verso la quarta settimana di lezione, impariamo come usare la nazionalità per rispondere alla domanda “Di dove sei?” – “Sono scozzese di Edimburgo, sono spagnola di Barcellona” ecc. – con tutte le implicazioni grammaticali che il tema comporta. Dopo aver passato al vaglio le nazionalità preparate nelle schede lascio che gli studenti esprimano le loro curiosità su come si chiamino in italiano gli abitanti dei vari Paesi. È anche l’opportunità di lasciare spazio d’espressione agli stranieri in classe. Questa volta i sudamericani si sono vivacemente fatti sentire, tanto che a conclusione della lezione mi sono lasciata andare a una scherzosa considerazione verso gli argentini, sostenendo che “gratta gratta e sotto la superficie degli argentini trovi sempre degli italiani”. Al che i compañeros mi hanno allegramente informata che, non solo tutti loro avevano avi italici, ma erano anche in possesso del passaporto italiano. Per riscontro e a sorpresa, la brasiliana lo ha addirittura tirato fuori dalla borsa esibendolo come un trofeo. Dopo tutto, un nome (modificato per rispetto della privacy) come Viviana Lupo Zanetti, lascia pochi dubbi riguardo alle proprie origini.
Dopo tre giorni mi trovo con l’altro gruppo e concludo la lezione raccontando quello che è successo nell’altra classe, al che il ragazzo brasiliano tira fuori il suo telefonino con l’immagine del suo passaporto italiano. Sorpresa al quadrato.
È evidente che per i giovani sudamericani questo documento offre, oltre che una soddisfazione personale di conferma delle proprie origini, anche degli altri benefici. D’altronde anche noi in Istria ne sappiamo qualcosa, perché l’introduzione degli articoli 17 bis e ter della legge 91 sulle norme della cittadinanza italiana del 1992, aveva scatenato uno tsunami di richieste provenienti da tutti gli angoli della nostra penisola. Più che una corsa all’ambito passaporto rosso, sembrava una maratona alla quale partecipavano “oves et boves”, cioè anche quelli che dichiaravano di essere italiani per il solo fatto di aver mangiato una volta una carbonara.
A pensarci bene, in ogni momento c’è un passaporto che apre più porte di altri. C’era un tempo in cui il passe-partout era quello americano, ma oggigiorno esibirlo in certe parti del mondo non è più tanto salutare.
Un altro passaporto che ha sempre fatto gola è quello britannico che olia bene le rotaie dei viaggi internazionali. Entrare negli USA, Australia, Nuova Zelanda ecc., è quasi automatico con il documento di Sua Maestà, che sembra creare meno controversie di quello dello Zio Sam. Ma va ricordato che gli inglesi hanno dovuto imparare una bella lezione dal loro passato coloniale. Siccome avevano esteso il diritto di cittadinanza agli abitanti delle colonie, si sono molto meravigliati quando tutta questa gente ha cominciato a seguirli a casa in virtù di un libretto che permetteva loro di farlo. Improvvisamente bisognava correre ai ripari con il risultato che oggi vengono differenziati ben sette tipi diversi di passaporto britannico, da quello “full” a quelli per i cittadini delle ex-colonie, a quelli per i “soggetti” o per i “nationals” ecc. con tutte le specificità dei casi.
Poi è arrivata la Brexit che ha ribaltato le carte in tavola. Improvvisamente non si ambiva più al passaporto UK, ma si è cominciato a guardare alla porta a fianco come naturale via d’uscita dal disastro del referendum del 2016. Di colpo l’erba del vicino è diventata più verde (è il caso di dirlo) e già ad ottobre di quell’anno le richieste di passaporto irlandese da parte di residenti in GB e Irlanda del Nord, avevano superato dell’83% quelle dell’anno precedente. Le statistiche dicono che nel quadriennio 2016-2020 ci sono state 422.000 domande pervenute da queste regioni al Ministero degli Esteri irlandese. Negli anni seguenti le cifre hanno registrato un costante incremento, con il picco di 100.000 domande nel 2022. La Gran Bretagna post-Brexit sembra l’Istria dei primi anni Novanta. Adesso tutti rispolveravano le proprie radici celtiche al punto che a volte basta solo aver sognato una pinta di Guinness per avere motivo di fare domanda.
Già da quanto detto finora si capisce che il passaporto è molto di più di un semplice documento di viaggio. È un’attestazione di identità, una scorciatoia per essere accettati, un ponte nella frattura tra noi e voi, un espediente che fa magicamente oltrepassare ostacoli. Chi di noi frontalieri (o ex-zona B) non ricorda il piacere di possedere il “Libretto”, che anche a Trieste veniva chiamato “propusniza” (sic) e che ci permetteva di accedere ai “blochi pici” in barba alle file chilometriche dei valichi principali di Rabuiese e Lazzaretto. È anche la soddisfazione di “avere le carte a posto”, di poter dormire sogni tranquilli, di viaggiare a proprio agio, scevri da noie e preoccupazioni.
Sulla questione, la pensava diversamente Jules Verne quando disse che “i passaporti non servono mai ad altro che ad impacciare le persone oneste e a favorire la fuga dei bricconi”. Opinione condivisa anche dallo scrittore francese Paul Morand, il quale ha sentenziato che “spie e truffatori hanno sempre il passaporto in regola”.
Qualsiasi sia la vostra idea a riguardo, c’è una raccomandazione finale: quando la vostra faccia comincia ad assomigliare alla foto sul passaporto, è ora di fare un esame di coscienza e riconsiderare le proprie scelte di vita.

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