INSEGNANDO S’IMPARA Incidenti di percorso

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INSEGNANDO S’IMPARA Incidenti di percorso

Non fatevi sviare dal titolo di questo bozzetto, non si parlerà di Cappuccetto Rosso che attraversando il bosco incontra il lupo cattivo. Piuttosto parleremo di parolacce e di linguaggio scurrile in genere nonché di come navigare nella moderna cloaca multilinguistica in cui siamo purtroppo immersi. Per evitare spiacevoli effetti, ai deboli di cuore consiglio di interrompere qui la lettura.

Innanzitutto c’è da precisare che un insegnante di lingua straniera non ha bisogno di insegnare le parolacce agli studenti. Le sanno già! È la prima cosa che vanno a cercarsi nel dizionario. Questo non vuol dire che non apprezzino ogni chicca che viene loro incontro durante gli anni di studio. Quando nel gennaio 2012 c’è stata la disgrazia della Costa Concordia al largo dell’Isola del Giglio, al ritorno in classe dopo le vacanze natalizie mi aspettava un’atmosfera surreale. Tra sorrisi di complicità gli studenti dei livelli inferiori mi informavano di aver imparato una nuova parola dai telegiornali, mentre quelli avanzati mi ricordavano, nel caso mi fosse sfuggito, che il comandante della Capitaneria di Porto aveva detto “Torni a bordo, cazzo!” Oh la soddisfazione di vedere i frutti del proprio lavoro!

Il problema è che il linguaggio del materiale che mi trovo ad usare, soprattutto con gli avanzati, che hanno superato da tempo la necessità del manuale e abbisognano di testi autentici, è pieno di parolacce, che vengono sciorinate con frequente noncuranza. Proprio in questi giorni, con i veterani stiamo finendo un articolo molto divertente che, oltre al decorativo “figura di merda” contiene anche la parola “zoccola”, che di per sé non è troppo volgare, ma mi obbliga a spiegare perché non sia un termine da usare in società. Inoltre il simpatico autore usa un modo creativo per dire eccetera, per cui conclude una lunga sfilza di concetti con “e mille altre cose ad minchiam” che è carino e originale, ma, di nuovo…

Il discorso vale anche per molti documentari, film, canzoni e spezzoni di trasmissioni radiofoniche, che presentano spunti interessanti per il mio lavoro, ma che sono anche infiorettati di parole che in passato avrebbero meritato la censura (e forse anche qualche sberla) ma che oggi sono come il prezzemolo. Qualche anno fa ho fatto vedere in classe alcune scene di un film ambientato in un liceo italiano. Uno dice, ma te le vai a cercare. Obiezione accolta, ma non mi aspettavo di vedere Michele Placido che, nel ruolo di professore di italiano, mentre sta insegnando dicesse “non sono lì solo per rompere i coglioni”. Un professore. In classe.

Come giustificare questo deplorevole stato di cose agli occhi degli studenti stranieri? Io li motivo spiegando che in italiano, oltre ai termini di origine sessuale e scatologica (vedi sopra), tradizione condivisa con tutte le altre lingue, credo, tra cui l’inglese, ci sono altre espressioni, molto più volgari e scandalose, le bestemmie, al confronto delle quali le parole del primo gruppo sono acqua fresca. Sarà proprio questa la ragione del proliferare delle scurrilità a tutti i livelli della società? Proprio perché dobbiamo reprimere il bagaglio delle cose indicibili, ci prendiamo la libertà di usare con spensierato abbandono le altre, che in fondo non sembrano tanto male. Sarà, dicevo. Ma dopo un po’ la ripetizione ossessiva di questa solfa denota, secondo me, anche una certa mancanza di fantasia. Bisognerebbe prendere spunto da una signora molto per bene che ho avuto il piacere di conoscere molti anni fa, che quando aveva bisogno di sfogare un momento di frustrazione imprecava con molto chic “Oh Christian Dior!”. È evidente che la classe non è acqua. Magari la prossima volta che qualcuno vi fa arrabbiare, invece di mandarlo dove viene spontaneo, si potrebbe invitarlo a coniugare all’imperativo i verbi andare e fare e di aggiungerci un bel sostantivo.

Comunque la parolaccia ha almeno la prerogativa di essere sincera. È quello che è, e lo esplicita senza sotterfugi o giri di parole. Cosa che non si può dire di una moltitudine di altre voci che dietro al significato primario, ne occultano un altro, ambiguo, sconveniente, a volte osceno, portatore di doppi sensi. Queste parole si aggirano come mine vaganti nei discorsi dei nostri studenti quassù, per cui il nostro vero lavoro in questo campo è quello di tenerli delicatamente lontani dalle zone pericolose, dai trabocchetti, di sviarli dai discorsi sui volatili (cosa non facile visto che è gente appassionata di birdwatching) e di indirizzarli verso i modi moderni di tenere lindo un pavimento (usare esclusivamente l’aspirapolvere piuttosto che gli utensili tradizionali). Ma anche con la più buona volontà non possiamo evitare tutte le trappole.

In passato per far usare il futuro, proponevo agli studenti di preparare il programma di due-tre giorni di visita all’Irlanda del Nord, per un ipotetico amico italiano (andremo, faremo, vedremo, ecc). L’esercizio piaceva da morire, accendeva in loro l’amore per la propria terra natia, per cui si sbizzarrivano a mettere in mostra i luoghi più suggestivi della loro regione, tra cui quelle che vengono chiamate le the Mountains of Mournes localizzate a sud di Belfast. Più che montagne, per i nostri parametri, sono colline (non arrivano ai 900m), ma sono tuttavia spettacolari soprattutto nella località di Newcastle, dove si innalzano direttamente dal mare. Un signore più entusiasta che provetto, si diede perfino la pena di tradurre il verso di una famosa canzone locale che dice “Where the Mountains o’ Mourne sweep down to the sea.” (dove le montagne discendono nel mare). Ignorando la presenza di una frase idiomatica per dire discendere, operò una traduzione letterale parola per parola del verso, per cui mi presentò il compito contenente l’indimenticabile frase “andremo a vedere le Mournes, dove le montagne scopano giù nel mare”. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Passo e chiudo.

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