Racconti fiumani tra fantasia e realtà. La rabbia di Luppis

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Racconti fiumani tra fantasia e realtà. La rabbia di Luppis
Il busto di Giovanni Luppis esposto nel Museo civico Foto:Goran Kovacic/PIXSELL

La rabbia! Quel sentimento primordiale incontrollabile che, quando raggiunge l’intensità più estrema, trasforma in una furia anche l’essere più innocuo; quella perdita totale di controllo che sembra darci il permesso di distruggere quello che ci capita sotto tiro. Un’incontenibile, inarrestabile rabbia.
Era questo che provò Giovanni Biagio Luppis von Rammer ovvero “l’affondatore”, quando l’ennesimo beone senza fissa dimora, con un calcio mal assestato buttò giù un altro pezzo della sua tomba di famiglia, il sepolcro dei de Luppis. Quella cappella era per lui un luogo sacro e inviolabile ed era vissuto nella convinzione di trovare lì l’eterno riposo. Ma non fu cosa semplice, poiché il giorno 11 gennaio 1875, quando sopraggiunse la sua morte, si trovava in una città in cui non lo conosceva nessuno, in una casa che oggi si trova tra i negozi di Chanel e Hermès, a due passi dalla famosa via Montenapoleone1. Non sapendo quanto quell’uomo era importante per la sua città natale, Fiume, venne tumulato in una cella muraria del cimitero monumentale di Milano. Certamente un bellissimo cimitero, ma non era il luogo dove avrebbe trovato pace la sua anima, in un sepolcro non degno del suo nome. Da capitano temerario qual era, aveva deciso quindi di spostare la sua entità a modo suo per congiungersi ai propri cari, sfidando le leggi della fisica e quanto aveva imparato leggendo la Bibbia. Fu così che si trovò intrappolato in un limbo all’interno di quella cappella nel cuore del cimitero di Cosala. Era quello il suo posto2. La rabbia per il gesto dell’ubriacone si univa a quella maturata osservando anni di incuria e fu la goccia che fece traboccare il vaso: semplicemente devastante.
La sua entità emanò una radiazione che da un pallido azzurrino divenne rosso fuoco. Vibrava di una frequenza insolita per questo mondo e la cessione di energia alla materia ebbe l’effetto di un’esplosione che fece saltare la porta della cappella3. La croce che lo teneva all’interno non poté più frenarlo e tutta quell’energia aveva reso la sua entità meno immateriale. Di tutta quell’ira doveva averne trattenuta un po’. Infatti, anche dopo quello sfogo era ancora molto arrabbiato. Uscendo inciampò su un blocco di pietra che stava proprio davanti all’ingresso.
“Perché?! Perché nessuno si occupa più di quella bellissima cappella?!”
Lo stemma con l’ancora sormontato dalle ali c’era ancora, ma era annerito dal tempo come pure la pietra, un tempo candida. La sua collera faceva volare le foglie e i sassolini del vialetto e sembrava avanzare come un vortice.
“Fiume mi ha tradito di nuovo! Già una volta l’ho lasciata, ma poi mi sono pentito4 e sono tornato. E ora, vedo che a nessuno importa nulla di me. Io, che ho dato tanto per Fiume! Io, che ho inventato il siluro per difenderla!”. Avanzava creando il caos tra quelle poche persone che erano venute a rendere omaggio con un fiore o un lumino ai loro cari, in quel cimitero dalle lapidi multilingui e gli alti cipressi. Ben presto si fermò. Aveva riconosciuto un nome a lui familiare: Giovanni de Ciotta, per molti lustri podestà di Fiume, come ricordava l’iscrizione in italiano sulla lapide.
“Oh, amico mio! Sei l’unico che ha cercato di farmi cambiare idea quando sono partito. Dovevo ascoltarti. Quel Whitehead mi ha usato5! E ora nessuno si ricorda più di me…”.
Il vortice di foglie e di sassi si era calmato. Rimaneva solo quella sagoma dal riflesso bluastro che rendeva l’aria meno trasparente. L’illustrissimo fiumano, o meglio il busto in rilievo sulla sua tomba, lo guardava serio, con i singolari baffoni e lo strano berretto col pennacchio. D’un tratto, quel volto di pietra si illuminò e un’altra luce bluastra prese la forma di una sagoma umana.
“Caro amico! – disse la nuova entità –. Mi sembra che sia passata un’eternità dall’ultima volta in cui ci siamo visti. Come vedi dallo stato della mia tomba e di tante altre, non sei l’unico a essere stato dimenticato. E tu non sai quante cose ho fatto per questa città, anche dopo che te ne sei andato… Sono stato podestà per oltre vent’anni! Qui, se non si fa qualcosa, si perderà la storia secolare che questo cimitero monumentale racconta. Andiamo a cercare il podestà di oggi. Sono sicuro che ci ascolterà!”.
L’entità Luppis osservò con attenzione la tomba, che era molto più in ordine della cappella da cui era uscito lui, ma i politici sanno essere convincenti ed era troppo contento di vederlo per discutere.Seguì l’amico fuori dal cimitero.
Scesero velocemente dal colle di Cosala e in un batter d’occhio si trovarono vicini a Piazza della Risoluzione fiumana.
“Devi vedere quanto è bello il palazzo del Municipio dopo che l’ho fatto ristrutturare6.Te lo ricordi? Quello davanti alla colonna dello stendardo in piazza San Girolamo che ho anche fatto rinominare Piazza del Municipio. C’era tanto spazio sprecato. È venuto bellissi… Ma… che…”.
La piazza era un tripudio di lucine colorate, che nell’insieme facevano l’effetto di un tendone da circo che aveva al centro la colonna dello stendardo. C’erano pure delle casette di legno, in cui veniva servito da mangiare e da bere a una moltitudine di ragazzi, alcuni visibilmente brilli, e un gruppo musicale intonava canti a loro sconosciuti facendo un gran baccano. Sembrava una gran festa. Si avvicinarono all’ingresso del palazzo che cercavano.
L’entità de Ciotta si fermò di colpo per osservare meglio quello che aveva davanti. L’entità de Luppis si girò e vide che il colore della sua lucentezza stava cambiando con la stessa rapidità con cui stava sparendo la sua usuale calma. E stava pericolosamente virando verso il rosso. Sull’elegante porticato era stata appesa la scritta “Kanal Ri” e proprio davanti all’ingresso c’era un gruppetto di giovani, scomposti e dagli abiti strappati, che stava fumando, scambiandosi battute e ridendo ad alta voce. Un ragazzo buttò la sigaretta a terra, incurante, ed entrò nel palazzo.
“Non è esattamente come lo avevo lasciato”, disse Ciotta con tono rassegnato, anche se il suo colore ancora rossastro ne denunciava il vero stato d’animo. L’entità Luppis guardò le scritte all’ingresso del palazzo e disse all’amico: “Non può essere l’ufficio del podestà questo. L’avranno spostato. È passato tanto tempo…”.
L’entità De Ciotta ritrovò la calma, da uomo distinto qual era stato in vita, e la luce emanata tornò a essere bluastra.
“Devo pensare. Devo riflettere. Devo capire cosa fare…”.
L’entità de Ciotta continuava a bisbigliare nel vento.
“Mentre rifletti, andiamo a vedere lo Stabilimento Tecnico dove ho creato il siluro. Chissà se c’è ancora. In fondo, anche quello è in parte merito tuo!”.
E i due si spostarono rapidamente fino alle rive, decorate con luci a forma di stella, e poi volarono sopra l’acqua, rimanendo bassi quasi a volerla sfiorare. Al Capitano era mancato particolarmente il mare del Quarnero, sempre bello, sempre diverso. Sembravano due fiammelle. Erano velocissimi e in un batter di ciglia erano già nel luogo in cui venivano lanciati i primi prototipi di quell’arma infernale inventata da de Luppis per difendere la costa da un attacco provenienti dal mare (e infatti l’aveva chiamata salvacoste, nda). Quel che si trovarono dinanzi, dove un tempo sorgeva lo Stabilimento Tecnico di Fiume, erano i resti di una struttura semi-abbandonata e alquanto cadente, con una grande rampa di lancio così devastata dal tempo da reggersi a malapena in piedi. Nessuno dei due era vissuto abbastanza per vederne la costruzione7. Quel che ricordavano era molto diverso, molto più piccolo e più semplice. Le due entità si guardavano intorno, attoniti, in silenzio. L’entità de Ciotta si girò, preoccupato, verso l’entità Luppis e non si stupì per quel che vide: l’azzurrino della fiammella che lievitava sopra l’acqua stava diventando sempre più viola, poi ciclamino e in un batter d’occhio era rosso vivo di quella tonalità di cui si immagina sia fatto l’inferno. La rabbia di Luppis stava riemergendo da quel luogo nel profondo del suo animo in cui l’aveva tenuta relegata per tanto tempo, tenendola repressa da oltre un secolo e mezzo. Era una rabbia che mai avrebbe osato esprimere in vita, preferendo allontanarsi e lasciare la città che amava, ma senza mai perdonarsi per quella scelta. Era una rabbia ancora viva.

La rampa di lancio. Foto: Željko Jerneić

Il turbine generato da quella forza smuoveva l’aria scatenando anche le acque: si crearono onde sempre più alte che sbattevano contro la costa con sempre maggiore impeto. Gli zampilli arrivarono a superare l’altezza della rampa che nella parte più alta era composta da una casupola di legno marcio, lasciato in abbandono da troppo tempo. Si formò una tromba d’aria e in un attimo spazzò via tutto quello che non era in cemento armato. Nel vento riecheggiarono tanti rumori indistinti. Ciotta riconobbe il nome di Whitehead e alcune parole poco gentili probabilmente a lui dedicate.
La rabbia di Luppis era tornata a sferzare tutto ciò che lo circondava, anche se la vecchia fabbrica non aveva bisogno di lui per cadere a pezzi. Per la vecchia rampa di lancio, che da quasi un secolo vegliava sul golfo di Fiume, era il colpo di grazia. La parte in legno si frantumò e i pezzettini rimasero a galleggiare finché non si dispersero nel Quarnero.
De Ciotta capì subito cosa aveva causato quel nuovo scatto d’ira del suo amico normalmente pacifico, tanto pacifico da aver inventato uno strumento per difendere la pace…che Whitehead aveva usato per fare la guerra e con esso si era arricchito ingrandendo lo stabilimento. L’entità de Ciotta ricordava bene quello che era avvenuto anni prima, nel 1873, quando lo Stabilimento Tecnico fiumano finì in bancarotta sotto la direzione di Whitehead. Ma il suo amico Luppis non sapeva che quando lui morì, due anni dopo, Whitehead ne ricomprò le quote e cancellò il suo nome da quell’invenzione,venendo meno al loro accordo scritto. In effetti quella rabbia era giustificata e comprensibile.
Ma nemmeno l’imperturbabile podestà Ciotta era tranquillo. Vedere il suo palazzo comunale lo aveva infastidito e nemmeno l’aria di festa era riuscita a rallegrarlo. Ricordava le notti insonni perse a riflettere per trovare il modo di realizzare il suo progetto e poi finalmente era riuscito a creare gli spazi adatti alla sua amministrazione in quella porzione di convento. Chissà cosa era successo dopo. E gli venne in mente un altro progetto, a lui tanto caro e che non lo aveva fatto dormire per altrettante notti: il teatro. Doveva assolutamente vederlo!
Luppis, intanto, dimostrando che si meritava appieno il titolo nobiliare di von Rammer, cercava ancora di affondare la fabbrica in cui era nato il suo siluro.
“Non se lo meritano! Non vogliono la pace… Non hanno capito niente…”, erano alcune delle frasi che Ciotta riuscì a decifrare. Luppis, tanto tranquillo in vita era diventato un fantasma piuttosto irascibile. Forse era la prima volta in cui era libero di dire quello che pensava. La prima volta in cui le conseguenze delle sue parole e dei suoi atti riguardavano soltanto lui. Si sentiva finalmente libero di sfogare la sua ira. Ciotta provava invidia per quella libertà. Quel poco che aveva visto della sua amata Fiume lo aveva preoccupato e aveva anche lui tante cose da dire, o meglio, da sfogare.
“Luppis!”.
“Sììì?”.
“Basta! Qui non c’è niente che valga la pena distruggere”.
“Non ho finito!”.
“Non è rimasto nulla! Torniamo in città. Voglio vedere il mio teatro. Vieni con me o ti lascio qui?”.
“Il teatro Adamich?”.
“No, quello l’ho fatto demolire e ho fatto costruire un teatro maestoso a piazza Urmenyi. Aveva anche la corrente elettrica!8”.
L’entità Ciotta fece alcune giravolte su quel mare limpido e profondo, dove il suo riflesso bluastro si perdeva, e puntò verso Riva Boduli (rinominata così nel 1992, nda), ma che loro conoscevano come via del Molo.
“Fermo. Aspettami”.
L’entità Luppis non voleva rimanere sola (dopo più di un secolo di solitudine) e preferì seguire il suo amico consapevole che la verità era più triste di quella bugia nella quale si erano cullati in tutto quel tempo.
“Ciotta. Vieni. Passiamo per di qua! Prendiamo via Volosca!”.
A entrambi sembrò una buona idea lasciare il mare, ancora in subbuglio dopo l’uragano Luppis. Dal vecchio stabilimento sbucarono in via Milutin Barač, fino al 2001 via dell’Industria, ma per loro ancora via Volosca.
“Guarda Ciotta, che villa maestosa!”.
Luppis indicò la villa di Roberto Whitehead, ignaro che fosse la sua, e Ciotta lo ignorò deliberatamente continuando ad avanzare verso il faro. Non gli piaceva quello che vedeva. Gran parte degli edifici gli sembrarono abbandonati e a tutti mancava una regolare manutenzione. Proseguirono sbucando in via Krešimir, per loro via Alessandrina, e vennero storditi dal traffico. Mai avrebbero immaginato che esistessero tante automobili. Sembrava che ogni cittadino ne possedesse una. Sempre più veloci, in un attimo furono in Piazza Žabica, a loro nota come Piazza Zichy, sotto alla bellissima chiesa dei cappuccini, che nessuno dei due aveva visto ancora (essendo essa stata costruita nel 1908, nda). Luppis rallentò. Dapprima guardò meravigliato la chiesa, ma la sua attenzione era stata attirata da un bellissimo palazzo ad angolo sormontato da una maestosa cupola.
“Cosa c’è scritto? Palazzo Ploech… C’entrerà mica con il nostro Annibale, in mio meccanico? Ma sono l’unico a non…”.
“Forza andiamo”. L’entità de Ciotta capiva che era meglio non entrare in certe discussioni. Pochi secondi dopo erano già in Piazza Adria, per loro Piazza Elisabetta e sede del Palazzo del governatore (che rimase lì fino al 1897, nda), dove si fermarono tra le due fontane. Volsero lo sguardo meravigliato verso il grattacielo fiumano.
“Guarda Ciotta, ma cos’è questo? E guarda lì quel cubo di vetro: Erstebank. Mah. Oh, guarda, Ciottina ulica. Sei tu?”.
Ciotta era sbalordito da quel che vedeva, ma anche fiero di avere una via che portava il suo nome.
“Non mi hanno dimenticato!”, farfugliava tra sé e sé.
“Andiamo”, disse. Non voleva far riflettere troppo il suo amico sul fatto che lui aveva una via perché il rischio era di dover andare a cercare via Luppis9 e non sapeva da dove iniziare. Proseguirono il loro cammino. Luppis era eccitato da tutte quelle novità.
“Guarda quanto è bello il Corso. Non me lo ricordavo mica così! Guarda quante luci! Mai viste tante! E qui in questo vicolo!!! Whitehead! Guarda! C’è il suo faccione!”.
Ciotta si avvicinò e guardò quegli strani affreschi.
“Oh, è vero!”.
“E guarda! Qui c’è anche la mia faccia! Non mi hanno dimenticato!!!!”.
L’azzurro della sua luce era diventato più chiaro e brillante, era come una stella che si accende a Natale.
“Ma cosa c’è scritto… Ivan… Vukić… ma cosa… che casp…”.
Azzurro, blu scuro, viola, rosso chiaro, rosso scuro… e i tavoli del ristorante Bracera che occupava il vicolo già volavano, trascinati fuori dalla stradina dalla rinnovata furia di quell’entità in pena. L’entità de Ciotta non aveva fatto in tempo a capire cosa stesse succedendo che si trovò aggrappata a un palo per non finire chissà dove.
Urlava “Luppis!… Calmati!… Volo via!… Ne parliamo!…”.
Ma il turbine d’ira non cessava. De Ciotta riprese i suoi tentativi
“È croatooo!… Vedi che si ricordano di teee!… Hanno persino tradotto il tuo cognome per ricordarti meglio!…”.
Non riusciva a credere all’insulsità di quel tentativo, così banale da confondere Luppis che si fermò e lo guardò.
“Eh? Che dici? E che fai lì, abbracciato al lampione?”.
Si mise a ridere per l’immagine comica del podestà, sempre tanto elegante e signorile e mai visto così scomposto.
“Non mi hai convinto al cento per cento, ma ci devo riflettere. Ci spiegherà tutto il nuovo Podestà. E se non lo fa…”.
Luppis si era calmato, anche perché doveva ricaricare le energie dopo quello sfogo che lo aveva sfinito.
Proseguirono verso il teatro, fermandosi solo per ammirare l’enorme albero di Natale addobbato di tutto punto, vicino alla Torre civica. Finalmente si trovarono davanti a un edificio maestoso, con davanti una bellissima piazza ornata da una fontana e da un profumato roseto. Le lucine colorate degli addobbi natalizi le donavano un aspetto magico. De Ciotta girava intorno alla sfera al centro della fontana.
“Che cosa strana. Mi sa che non è finita. Chissà cosa ci metteranno sopra”.
Luppis lo ignorò e si avvicinò a dei ragazzi che chiacchieravano animatamente sotto una cosa che gli sembrò una lampada a forma di fungo, ma che emanava un piacevole calore. Ce ne erano tante di quelle nella piazza e c’erano pure delle baracchette dalle quali proveniva un profumo di salsiccia e vin brûlé, tra luci e stelline. Stavano bevendo birra, la sua bevanda preferita. Quanto gli mancava un sorso di quella fresca bevanda. La sua attenzione venne catturata da un disegno su una delle bottiglie. Gli sembra familiare. E lo era!
“Ciotta! Vieni qui! Sono i miei progetti per il salvacoste! Guarda!!!”.
Era come un bambino a cui Babbo Natale in persona aveva consegnato un regalo. L’emozione fece brillare la sua luce con un’intensità tale che anche i ragazzi ne rimasero abbagliati. Uno difese gli occhi alzando la bottiglia di birra e ne usò il vetro brunito come filtro per cercare di capire cosa stesse succedendo. Così espose l’etichetta allo sguardo delle due entità. Ciotta lesse ad alta voce quel che ci stava scritto:
“Salvacoste, birra prodotta dal birrificio artigianale Indeficienter, a Fiume10”.
La gioia di Luppis nel vedere che non era stato dimenticato e che tutti i giovani fiumani conoscevano la sua invenzione fu tale che superò la rabbia e quell’energia accumulata da decenni si trasformò. Ne derivò una felicità tale che lo portò lentamente a salire sempre più in alto. Fece giusto in tempo ad agganciare il suo amico.
“È ora di andare. Il nostro tempo qui è finito. Abbiamo fatto quello che potevamo e ora sta a loro – indicando il gruppo di baldi giovani – continuare a far crescere la nostra bella Fiume”.
Ciotta annuì e i due si librarono sempre più in alto fino a scomparire in un luccichio nel cielo, che quel giorno era particolarmente pieno di colori, in uno spettacolo che solamente il sole che scompare dietro al Monte Maggiore riesce a creare al tramonto.

(1) In via Sant’Andrea 19 a Milano, fonte:
http://protorpedo-rijeka.hr/wp/wp-
content/uploads/2018/04/12.pdf
(2) Ciotta fu podestà a Fiume dal 1872
al 1896
(3) Che da allora rimase aperta, come
potete notare se fate una passeggiata
nel Cimitero monumentale di Cosala
(4) Si dice che i fiumani non possano
lasciare Fiume senza soffrirne e
vogliono sempre tornare alla loro
amata città (chiedete agli esuli della
Società di studi fiumani di Roma, se
non mi credete)
(5) Quest’affermazione dell’entità Luppis
è frutto dell’immaginazione dell’Autore
e non riflette la realtà storica
(6) Il Palazzo del Municipio, già convento
degli agostiniani, venne ristrutturato
nel 1873 dall’allora giovane architetto
Filiberto Bazarigche, nello spirito del
neoclassicismo, aggiunse il porticato
(dalla mia Guida di Fiume, nda)
(7) La rampa di lancio è stata costruita
negli anni Trenta del secolo scorso
(8) Inaugurato il 3 ottobre 1885, fu uno
dei primi edifici in città a disporre di
un impianto elettrico
(9) A Fiume esiste via Luppis (Ulica Ivana
Luppisa) e si trova nel rione di Zamet
(10) Questa birra purtoppo non viene più
prodotta, ma il nostro Luppis sarebbe
felice di sapere che ora esiste la birra
che porta il suo nome e viene servita al
caffè bar Luppis nel centro di Fiume

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