L’appartenenza etnica e la battaglia per le scuole

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L’appartenenza etnica e la battaglia per le scuole

L’esodo del secondo dopoguerra è stato un evento fondamentale nella storia dell’Adriatico orientale, che ha modificato radicalmente l’aspetto demografico e urbano di tante località. Si è trattato di un punto di rottura con il passato. L’esodo e le sue molle scatenanti tendono a rappresentare la fase finale di un acceso confronto nazionale sviluppatosi sulla costa orientale adriatica a partire dalla prima metà dell’Ottocento, ovvero da quando ha avuto inizio il risveglio etnico globale in Europa. L’acquisizione della consapevolezza nazionale, con i “risorgimenti” dei diversi popoli, non ha portato soltanto a guerre di liberazione, ad esempio da imperi sovranazionali come quello ottomano e asburgico, ma all’omogeneizzazione dei vari corpi linguistici o religiosi sulla base della realtà sul campo in quel preciso momento storico. E così in Dalmazia si sono formate le nazioni croata, serba e italiana, in Istria le nazioni italiana, croata e slovena. Che poi la Monarchia austroungarica sia diventata stretta per i vari corpi nazionali ormai formati è un altro discorso. Le nazioni in bozzolo, certo, si sono rifatte a componenti etniche (o religiose) preesistenti, ma come nel caso di qualsivoglia identità nazionale esse sono state soprattutto un costrutto moderno, in cui si sono mescolate astrazioni, miti, leggende, discorsi politici ed anche ovviamente consuetudini linguistiche. In determinate zone etnia e nazione sono venute a coincidere, in molte altre, soprattutto nelle città maggiori no. E così spesso hanno avuto inizio gli sforzi tesi alla “semplificazione etnica”, a far coincidere etnia, nazione, lingua e territorio. L’esodo (ma potremmo parlare anche al plurale, tenendo conto di tante ondate “migratorie”) spesso, in Dalmazia e nell’Istria centro-orientale è stato anche un modo per sfuggire a questo mastice unificatore, per far valere in situazioni altamente sfavorevoli una libertà di scelta nazionale e linguistica altrimenti negata o comunque resa estremamente difficoltosa.

A rendere quasi scontata la scelta di intraprendere la dura via dell’esodo è stata in molti casi anche la chiusura delle scuole italiane, oppure il trasferimento forzato degli alunni dagli istituti scolastici in lingua italiana a quelli della maggioranza a causa della “matrice etnica” ritenuta sbagliata dalle autorità. Lo strumento scolastico è stato un veicolo fondamentale d’acculturazione nella guerra per l’identità che si è sviluppata a partire dalla metà dell’Ottocento sulla costa orientale dell’Adriatico. Ne è stata ben consapevole anche l’Austria-Ungheria fin dall’inizio, come confermato dal lento e inesorabile declino del sistema scolastico in lingua italiana in tutti i centri della Dalmazia, eccezion fatta per Zara, nel corso della seconda meta del XIX secolo. In assenza di una verticale scolastica efficiente e sviluppata, tutti gli altri tentativi di mantenere viva l’identità minoritaria si sono rivelati alla lunga inefficaci.

Trascorsi storici

Basti vedere la situazione in Dalmazia nel primo dopoguerra, quando gli italiani riescono sì a ottenere delle misure di tutela, ma legate a doppio filo all’acquisizione della cittadinanza tricolore. Misure che la maggioranza considera ancor oggi alla stregua di un privilegio concesso a una sparuta minoranza, ma che in realtà non fanno altro che ghettizzare la componente minoritaria, impedendo di fatto alla sua lingua e cultura, al suo sistema scolastico di essere parte integrante dell’identità del territorio. Se torniamo all’inizio degli anni Venti, al periodo immediatamente successivo alla fine della Prima guerra mondiale, troviamo infatti un Trattato, quello di Rapallo, con una disposizione che affonda come un bisturi in un corpo culturale composito come quello dalmata dell’epoca. Lo scrittore spalatino Enzo Bettiza ricorda che una paradossale particolarità del Trattato di Rapallo era quella di offrire una specie di rimborso spese all’Italia, estromessa dal grosso della Dalmazia, concedendo ai dalmati che si sentivano italiani, o che si reputavano tali, la carta dell’opzione a favore della cittadinanza italiana: essi potevano diventare così di fatto e di diritto, cittadini italiani all’estero. Non doppia cittadinanza, come ai giorni nostri, ma un diritto di opzione senza però la necessità di trasferire la residenza nel Paese prescelto, che invece accaduto nell’istroquarnerino dopo la Seconda guerra mondiale. Eppure non mancavano e non mancano tra le file della maggioranza quelli che vedono in questa “gentile concessione” ai dalmati italiani una sorta di privilegio concesso agli stessi all’epoca, ovvero una mezza capitolazione diplomatica da parte della Jugoslavia di allora.
Bettiza ovviamente, e non soltanto lui, ma con il senno di poi. comprende l’insostenibilità di una simile situazione: L’optante, lo sapesse o non volesse saperlo, metteva a repentaglio con quel gesto di rottura la sicurezza dei propri averi, dei propri commerci, della professione e forse, al limite, della propria stessa vita. In altre parole l’optante si ritrovava nel senso più autentico della parola straniero in casa propria, e questo di punto in bianco. Scontata la conclusione di Bettiza: l’esodo dopo la seconda guerra mondiale, l’estinzione o quasi dei dalmati italiani, hanno le prime radici storiche lì, nell’atto insieme sentimentale e notarile dell’opzione.

Famiglie spaccate

Ma quello che è forse peggio è che quell’obbligo di scelta finì per spaccare le famiglie già di per sé nella maggior parte dei casi composite dall’ottica etnica, ovvero delle origini. Ed è su quello che la maggioranza faceva leva già allora, come in seguito per annacquare ad arte la componente italiana.
A volte proprio nelle zone periferiche, isolate, come le realtà italiane in Dalmazia, spiccano con più chiarezza delle caratteristiche, che esistono anche altrove, ma non vengono focalizzate a sufficienza poiché sembrano prevalere altre situazioni. Nell’Alto Adriatico situazioni composite simili a quelle della Dalmazia di una volta le possiamo ritrovare oggi, ma non solo oggi, a Fiume e nei centri maggiori dell’Istria centro-orientale. Le famiglie cittadine educate in genere nello spirito della lingua italiana a volte erano divise al loro interno: la questione della lingua, per tale motivo, non assumeva tanto i contorni di un conflitto interetnico, quanto di una spaccatura che attraversava trasversalmente le famiglie nelle quali spesso due fratelli potevano evidenziare un’appartenenza o meglio un’identificazione nazionale diversa.

L’identità è una scelta

In questi casi per risalire all’identità di un singolo non è assolutamente d’aiuto nemmeno il cognome. Renzo de’ Vidovich, rileva che in Dalmazia più che in altre terre non è possibile dedurre dal cognome l’appartenenza nazionale di una persona o di una famiglia perché già nelle radici della tradizione mediterranea la cultura nazionale è una scelta che prescinde dalla discendenza, dal sangue, dall’antica tribù d’appartenenza: Spesso accade che ad un cognome di sicura origine slava o tedesca, come ad esempio quello del sen. Del Regno d’Italia, von Krekich, corrisponda una famiglia irredentista italiana e viceversa, come il lettore può facilmente accertare scorrendo l’appartenenza partitica degli on. Deputati alla Dieta del Regno di Dalmazia. Non è raro che due fratelli, vissuti ed educati insieme, abbiano scelto di appartenere a due culture nazionali diverse: fece scalpore il caso di Francesco Rismondo di Spalato, caduto eroicamente indossando la divisa italiana nella guerra ‘15-’18 e chiamato da Gabriele d’Annunzio “l’Assunto di Dalmazia”, la cui sorella militava nel Sokol croato di Zara. L’introduzione dei segni diacritici slavi in Croazia e Slovenia, non ha facilitato l’individuazione dell’appartenenza nazionale di quanti hanno nel cognome la finale “ch” o “c”, anche se, in teoria, i primi sono spesso ritenuti di nazionalità italiana ed i secondi di nazionalità croata. E che dire del caso rappresentato dalle famiglie nobili che usano o hanno usato il doppio cognome, in lingua latino-italiana o in lingua croata. Di solito si tratta di traduzioni, come nel caso dei de’Dominis e dei Gospodnetich.
Anche Raoul Pupo sottolinea che la nazione era diversamente concepita dagli ambienti italiani — nazione su base volontaristica e quindi culturale — e slavi — nazione su base etnica, vale a dire fondata su legami di sangue risalenti al remoto passato. Siffatto equivoco, al quale, per esempio, si può ascrivere la tendenza a voler rintracciare nel cognome familiare l’origine nazionale — per cui da parte slava non si accettava che persone con cognome prettamente slavo fossero in realtà di cultura e di sentimenti italiani —, riemerse proprio durante e dopo la Seconda guerra mondiale e non è ancora del tutto chiaro per settori marginali della storiografia.

Uno scontro decisivo

Questa complessa situazione etnica rende ancora più importante, se non decisiva, la battaglia per la scuola.
L’istruzione nell’Europa sudorientale troppo spesso è stata interpretata come una sorta di “custode della tradizione”. I programmi scolastici, i libri di testo, il sistema scolastico tutto hanno dato vita a meccanismi tesi a rafforzare l’identità etnica e nazionale e lo spirito patriottico. A favorire tutto questo è stata la legittimazione della narrazione nazionale, che si è imposta nell’ambito delle letterature e delle storiografie della regione. Gli studi umanistici sono stati utilizzati spesso e volentieri per “edificare” l’identità collettiva. In genere nel processo di creazione e consolidamento dell’identità etnica il ruolo più importante lo hanno giocato la storia della letteratura e la storiografia, che hanno operato per il tramite di discorsi di sapore mitologico: l’obiettivo chiave è stato quello di rappresentare il passato e organizzare il futuro. L’ironia della sorte vuole che le scienze umanistiche e i sistemi scolastici si siano presentati nei trascorsi decenni come dei meccanismi per l’instaurazione di una società multietnica e multiculturale imperniata sul dialogo e la pace. Ma la rappresentazione a senso unico delle identità nazionali non ha fatto altro, troppe volte, se non erigere degli steccati tra le culture, esasperando la dimensione della differenza assoluta tra le stesse.

Il mito di una cultura pura

Tutto, nell’ambito di questo discorso, è pensato per portare a termine una sorta di missione impossibile, quella della creazione di culture pure, in cui non vi sia spazio per gli intrecci e le intersecazioni. Una società divisa rappresenta metaforicamente una manifattura per la produzione dell’identità etnica e per l’imposizione dell’idea sulla separazione delle culture. Il sistema scolastico diviene così un luogo di produzione dell’ideologia, ovvero di persone in cui viene iniettato il codice etnoculturale voluto.
Di primo acchito potrebbe sembrare che appena dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, le culture dell’Europa sudorientale siano salite sul carro dell’assolutismo nazionale, ed abbiano perso strada facendo ogni possibile distinzione tra nazione e cultura. In realtà il culto dell’appartenenza, il desiderio di inculcare a ogni costo l’idea nazionale dominante trae le sue radici dall’Ottocento e non è venuto meno neanche dopo la Seconda guerra mondiale.
In particolare in Dalmazia nella seconda metà dell’Ottocento si è combattuta una battaglia senza quartiere per la supremazia linguistica. Lo storiografo croato-dalmata, Grga Novak, evidenzia: Nell’anno scolastico 1849/50 c’erano in Dalmazia appena 157 scuole elementari pubbliche. In 18 scuole la lingua d’insegnamento era esclusivamente quella italiana, in 127 scuole le lezioni si tenevano in italiano e croato e solamente in 12 in lingua croata. Se aggiungiamo che di queste 12 c’erano 10 solo per gli ortodossi il quadro è chiaro. Pertanto, rileva Novak, ogni dalmata soltanto un po’ più istruito conosceva Dante come un italiano nativo. Ma la situazione era destinata a cambiare nella seconda metà dell’Ottocento, con il mutare del quadro politico. In particolare la battaglia di Lissa aveva spinto l’Austria, che all’epoca controllava direttamente la Dalmazia, ad allertarsi: e il fervore nazionale croato ne aveva tratto nuova linfa. Sul campo questo aveva portato alla battaglia per la supremazia linguistica. Con toni epici Grga Novak scrive: E la lotta ebbe inizio. Questa battaglia si combatteva non soltanto in ogni città, bensì praticamente anche in ogni villaggio e persino nelle singole famiglie. E così nel 1910 il quadro era completamente modificato rispetto a cinquant’anni prima, come testimoniano i dati offerti da Grga Novak: Nel 1868 in Dalmazia c’erano 218 scuole elementari, di cui 126 con lingua d’insegnamento croata, 26 italiane e 76 in ambedue le lingue. Nel 1910, delle 435 scuole elementari pubbliche, tutte, eccetto una a Zara, erano con lingua d’insegnamento croata. Lo scrittore croato Milan Begović ci svela la situazione di allora nel liceo spalatino: Il ginnasio spalatino era a quei tempi una fucina di croaticità. Lì i professori inculcavano nei cuori giovanili i sentimenti patriottici. I ragazzi italianizzati, spesso, grazie alla loro influenza, rinunciavano alle convinzioni errate di cui erano imbevuti, mentre, quelli che non volevano farlo, dovevano avere molto talento o essere incredibilmente diligenti per mantenersi in sella. Come dire, chi voleva rimanere italiano, e voleva continuare comunque ad esprimere questa identità, si ritrovava a dover affrontare mille traversie.
La scuola, dunque, in un ambiente misto si rivela decisiva per forgiare l’identità voluta. Del resto non può essere diversamente: l’identità precisa in un mondo di frontiera culturale non è stata e tutto sommato non è ancora nemmeno oggi un dato di fatto acquisito, è invece il risultato di uno sforzo di autoconvincimento pressoché quotidiano. Ecco perché dopo la Seconda guerra mondiale questa battaglia si è spostata in Istria. Non tanto nelle zone costiere occidentali, dove l’elemento italiano era troppo forte per poter essere misconosciuto, quanto nel resto del territorio. Sarebbe stato troppo eclatante colpire duro, ad esempio a Rovigno o Umago o in parte nell’agro polese. Ma Pisino, Albona, tanto per citare soltanto i centri maggiori dell’interno, per non parlare delle isole quarnerine, presentavano situazioni etnico-linguistiche complesse nelle quali si poteva incidere con lo strumento scolastico.

Orientamenti ideologici

Si puntava, anzi, sostiene Pupo, a trasformare l’insegnamento in uno strumento privilegiato degli orientamenti ideologici e nazionali del regime. Così, negli anni scolastici dal 1950 al 1953 numerose scuole italiane vennero chiuse, anche perché le autorità – in piena applicazione dei principi del “nazionalismo etnico” – cercarono di dirottare sulle scuole slovene e croate tutti gli studenti i cui cognomi avessero rilevato un’origine slava. L’elemento decisivo della battaglia per la lingua, in questo caso, per l’appunto, fu il decreto Peruško del 1954, che impose il trasferimento in massa nelle classi croato degli alunni con cognomi non “appenninici”: come dire quelli che nel gergo degli anni di piombo venivano definiti “talijanaši”. La tattica del divide et impera doveva risultare “vincente”. Quasi una ripetizione dell’esperienza dalmata di cent’anni prima…
E qualcosa di simile, in una situazione etnica e nazionale ancor più complessa, intricata e sfuggente sarebbe dovuto avvenire nel 1995 con l’applicazione della circolare Vokić sull’iscrizione nelle scuole italiane soltanto degli alunni di cui almeno un genitore si dichiarasse tassativamente italiano. Quel pericolo è stato fugato, ma la tendenza al marchio etnico, rintracciabile persino nell’obbligo ai seggi elettorali per gli appartenenti alle minoranze di scegliere tra voto etnico o politico, è rimasta.

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