D’Annunzio e Fiume: costruzione del mito

Nel suo libro l’autore ricostruisce le fonti e i retroscena della «strategia comunicativa» messa in atto dal Vate, analizzando in che modo si trasformò in una «macchina mitologica» che continua ad alimentare narrazioni e reinterpretazioni

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D’Annunzio e Fiume: costruzione del mito

In copertina c’è la fotografia di un Gabriele D’Annunzio riflessivo, inginocchiato al cimitero di Cosala, il 2 gennaio 1921, davanti alla bandiera del Randaccio che copre i feretri dei legionari morti durante i bombardamenti del Natale di sangue, e attorno al Comandante una folla stretta a lui quasi in un abbraccio fraterno, di pietas. Una cerimonia mesta e allo stesso tempo potente, a più livelli: è insieme il tentativo di elaborare oltre al dolore per le vite perse e le fratture che aperte in seno alla popolazione italiana, anche quello della rinuncia, della sconfitta della sua impresa. È l’addio del comandante a Fiume e alle sue velleità politiche. Saranno altri a condurre la futura lotta contro “la vecchia Italia”, marciando però in una direzione che lui, alla fine, non avrebbe condiviso. È una delle immagini rappresentative di quel corredo di riti, simboli, narrazioni che permisero al poeta soldato di trasformare una città dalle molte anime in un mito che ha influenzato a lungo il modo di intendere la politica e la storia dell’Alto Adriatico.

La culla della politica totalitaria

L’Impresa fiumana fu una delle molte crisi di confine che attraversarono l’Europa dopo la Grande guerra e rappresentò uno snodo significativo per la politica italiana. Durante quell’esperienza fu elaborato un linguaggio patriottico fondato su nuove liturgie collettive e sull’idea di una “rivoluzione nazionale” contro le istituzioni parlamentari. In pochi mesi nacque una mitologia che fu assorbita dal fascismo e le cui origini sollevano interrogativi a distanza di un secolo. Perché oggi Fiume dannunziana è ricordata come la culla della politica totalitaria, ma anche come una “città di vita” in cui tutto era permesso? Quale ruolo vi avevano i culti della guerra, del passato, della natura e della giovinezza? E come si affermarono alcuni riti?

Nel suo libro “D’Annunzio e il mito di Fiume”, uscito nel marzo scorso con Pacini Editore, Federico Carlo Simonelli ricostruisce, svela e spiega le origini, le fonti e i retroscena di quella che oggi potremmo definire una “strategia comunicativa” messa in atto dal Vate, analizzando in che modo si trasformò in una “macchina mitologica” che ancora oggi continua ad alimentare narrazioni e reinterpretazioni. Un’indagine innovativa, che offre al lettore uno sguardo per molti versi inedito e indubbiamente originale su quei sedici mesi in cui la città fu presa da D’Annunzio. Già coinvolto in diverse, precedenti iniziative di carattere culturale e scientifico – dalle ricerche sull’Impresa alla partecipazione, nel 2019, ai laboratori di Architecure and power, che l’anno seguente produrranno la mostra multimediale “Fiume fantastica” (tra i contenuti centrali di Fiume Capitale europea della Cultura 2020) alle varie consulenze per docufilm e altro –, lo storico italiano sarà domani alla Comunità degli Italiani per parlare del volume. L’evento è organizzato in collaborazione dalla CI e dalla Società di Studi fiumani a Roma (inizio alle ore 18).

Il volume (pp. 325) pubblicato da Pacini Editore nel marzo 2021

Nuove interpretazioni

Sarà un’occasione per intavolare un discorso di più ampio respiro, a più voci all’insegna del dialogo, su un argomento che continua a tenere alta l’attenzione – come testimoniano le iniziative che si moltiplicano, anche esaurito il centenario – dei ricercatori e del pubblico su questa pagina del ‘900 e le sue interpretazioni (ultimo episodio del Risorgimento? Primo esperimento totalitario? Rivolta generazionale che precorre il ‘68?…). Al tavolo con l’autore – già responsabile dell’Ufficio Fiume presso la Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, dove ha scoperto l’unica testa rimasta della scultura dell’aquila del 1906 –, il presidente della Società di Studi fiumani Giovanni Stelli, profondo cultore e attento studioso del passato di Fiume, la curatrice del Museo di Marineria e storia del Litorale croato, Tea Perinčić, autrice della mostra “L’Olocausta di D’Annunzio” e del libro “Fiume o morte” (2019), lo storico e teologo Marko Medved, lo storico esperto di movimenti politici otto-novecenteschi Ivan Jeličić e, come moderatore, Vanni D’Alessio, ricercatore che si dedica a questioni legate alle aree di frontiera.

Simonelli ci restituisce il contesto e la complessità della realtà messa in scena a Fiume tra l’autunno 1919 e l’inverno 1920 esaminando il rapporto tra gli eventi e la loro rappresentazione composta da D’Annunzio: “Attraverso proclami, discorsi e resoconti, egli realizzò ciò che qui viene definito un ‘poema in diretta’”, spiega nell’introduzione. Lo sguardo ravvicinato e critico all’opera di D’Annunzio ha portato a una nuova interpretazione del suo ruolo a Fiume. “Emerge la figura di un artista poliedrico che si cala nel ruolo di ‘comandante’ per mascherare con la sua narrazione i piani di diversi registi politici – scrive Simonelli –. Dalla sua posizione di rilievo, D’Annunzio perseguì con razionalità e spregiudicatezza anche tre obiettivi personali e consequenziali: provocare una campagna per la conquista italiana dell’Adriatico, comporne il poema patriottico e garantirne il futuro riconoscimento istituzionale. Le sue esigenze di autore e interprete ebbero in ogni caso un peso determinante sulle vicende politiche, e possono spiegare molte sue scelte dopo la fine dell’Impresa”. Liturgie, simboli e suggestioni erano anche “l’apparato esterno di un ingranaggio” che prevedeva la repressione del dissenso e il controllo capillare della vita pubblica”, servivano “per neutralizzare le diverse forme di opposizione e soprattutto per affermare una precisa prospettiva nazionale su una popolazione caratterizzata da secoli di convivenza multiculturale”.

L’unico simbolo autoctono: l’aquila

Il percorso, contenuto in oltre 300 pagine, è suddiviso in tre tappe, ciascuna a sua volta comprendente diversi capitoli. La prima parte – “La città e i suoi simboli” e “La città come simbolo (dicembre 1918-settembre 1919)” – focalizza le tensioni etniche e ideologiche che dalla fine del XIX secolo, passando per la Grande guerra e il tormentato primo dopoguerra, trasformano la città di Fiume in un luogo mitico chiamato “olocausta”. La seconda parte – “Un’impresa di regolari (settembre 1919-gennaio 1920)”, “La città inquieta e diversa (gennaio-settembre 1920)”, “La Reggenza” (settembre-novembre 1920)” e “Dal dramma alla memoria (novembre 1918-gennaio 1921)” – mostra quando, come e perché furono creati simboli e riti e come questi influenzarono la percezione dell’Impresa, tramandando, attraverso il prisma della memorialistica, l’interpretazione della Fiume dannunziana come luogo di “festa” permanente, in cui i valori sono sospesi da un connubio tra politica, arte, utopia. Contrariamente a questa visione, le feste dannunziane erano invece pianificate – rileva l’autore – per divulgare un’immagine idealizzata di Fiume, ovvero quella di una città indiscutibilmente italiana e devota al poeta che l’aveva liberata dal dominio straniero. La terza parte del libro, “L’Impresa e la memoria dei simboli”, si concentra sul ruolo che ebbero cerimonie, gesti, corpi e oggetti.

Simonelli chiude il suo articolato discorso in modo altrettanto simbolico: come aveva iniziato, con l’aquila bicipite sulla Torre civica. Ma questa volta si riferisce a quella ricollocata nel 2017: “celebra un’identità multiculturale e inclusiva, riconosciuta dalle istituzioni croate, dalle minoranze e dagli esuli. È un’anima che la città si è attribuita sotto tutti i regimi, nonostante lacerazioni, rimozioni, riscritture. Forse è uno dei tanti miti di Fiume – conclude –, ma è il solo a essere nato entro le sue mura e a essere condiviso dai suoi abitanti di ieri e di oggi”.

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