Dal fisico al digitale. Ecco servito l’infoviduo

La paura più grande è quella di essere manipolati nella nostra identità dalla tecnologia in un mondo sempre più virtuale

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Dal fisico al digitale. Ecco servito l’infoviduo

L’identità digitale può presentarsi in diverse forme semplificate: può essere collettiva nei gruppi, temporanea per le necessità di un meeting, anonima nei social network o legata a un nome e cognome nel caso delle email; ma può anche assumere contorni più completi, ad esempio sui social come Facebook e Second Life. Queste identità nel linguaggio del digitale hanno come base la trasformazione di espressioni di noi in dati. La prima volta che compresi “sulla mia pelle” come elementi della mia identità – ad esempio i dati biometrici quali le onde elettriche del cervello e il battito cardiaco – potevano essere convertiti in dati digitali mi trovavo a preparare un’esame-installazione al Conservatorio di Trieste.

 

 

Per uno psicologo il salto logico è un po’ forzato, ma se l’identità oltre che la risultante del mettersi in relazione con gli altri è anche l’espressione di pensieri e memoria di quello che siamo a un livello fisiologico allora questa si traduce in stimoli elettrici nel cervello, nelle tensioni muscolari, nell’acidità delle pelle e nel cuore. La mia installazione inviava, attraverso due sensori, al mio portatile i segnali riguardanti le mie onde cerebrali e il battito cardiaco: questi venivano riconvertiti in dati da un apposito programma. Le sequenze di dati, nel loro discostarsi a seconda delle sollecitazioni esterne esercitate su di me, controllavano a loro volta il colore del mio viso in un filmato e il tono della mia voce in un audio. Avevo scelto di esprimere la mia “identità artistica” soltanto attraverso una scala graduale di due possibili stati: meditativo/rilassato o agitato/teso. L’installazione consisteva nello sfidare il pubblico a tentare di modificare il mio stato di meditazione/rilassamento che cercavo di mantenere. Se riuscivo a restare in meditazione nonostante le sollecitazioni – solletico, palloncini che scoppiavano, grida improvvise – il mio stato cardiaco si aggirava tra i 55 Bpm (battiti al minuto) e la prevalenza di onde Alpha/Teta avrebbe mantenuto il frammento video del mio viso in blu e la mia voce registrata su un tono di voce naturale. Diversamente ogni scostamento da quello stato si evidenziava con un viraggio in rosso per il video e con una modifica del tono della voce, più alto in caso di agitazione o più basso per uno stato di rilassatezza ancora più profonda.

 

Entravo dunque in relazione con “la macchina”, le persone esterne e me stesso; ri-esistevo attraverso un flusso di dati che fino a quel momento erano stati solo segnali elettrici del mio cuore-cervello chiusi nella mia scatola-corpo. Ora anziché disperdersi nell’entropia dell’universo potevano essere visibili e udibili. Per aiutarmi avevo costruito un setting, una disposizione della mia performance, in cui mi presentavo seduto come un monaco buddista davanti a un grande schermo con accanto un tavolo pieno di “strumenti di tortura”. Avevo scelto di mettermi una maschera che coprisse occhi e bocca per lasciare protagonisti solo il mio viso riprodotto in video e il frammento della mia voce registrata nell’audio.

 

Descrivo oggi a distanza di anni questa esperienza di intrattenimento e noto come la cessione dei dati, anche biometrici, nel passaggio al digitale, quando è da noi controllata, può aprire scenari molto coinvolgenti e di grande fascino. Nella speranza che arriveremo a gestirli direttamente o ad avere strumenti di garanzia sulla sicurezza dei nostri dati ceduti nel cyberspazio e gestiti da terzi, dobbiamo prendere atto della nostra doppia natura di “infovidui”; cioè produttori di dati, liberi da corpi che in parte o del tutto si smaterializzano per divenire “oggetti” connessi a sensori in grado di dialogare tra loro.

 

Quando l’identità è fluida
Se da adolescente le occasioni per sviluppare alcuni aspetti della mia identità erano circoscritte al mondo reale, avendo a modello gli adulti a me vicini, oggi un giovanissimo della generazione Z può permettersi di sperimentare, emanciparsi da una sola identità di genere, rompere la “gabbia di un corpo e di una sola realtà fisica. Se l’identità di genere è un modello culturale e sociale, fuori da questo schema binario si parla di “gender fluid” o “agender”. Concretamente si trovano community di “Avatar” o profili social che aiutano a dare supporto alla fase di transizione, di passaggio al cambiamento di sesso oppure solo a individui che si vestono o assumono nel loro Avatar (il proprio doppio digitale) tratti opposti al loro genere biologico.

Siamo all’inizio di una nuova natura per l’uomo? In realtà trasformare la propria identità o addirittura la propria natura è un tema antico nella letteratura, pensiamo ad esempio al mito di Tiresia tramutato da uomo in donna o alle metamorfosi di Ovidio o come evidenzia il sociologo Massimo di Felice, nel libro “La cittadinanza digitale”, a cosa accade nello sciamanesimo e nella Chiesa cattolica. Nel primo il transito da umano a vegetale o oggetto è paragonabile in occidente alla transustanziazione cattolica dell’ostia e del vino in corpo e sangue di Cristo; in questi casi la forma resta invariata, ma la natura cambia.

 

Un mondo binario…
Se la letteratura o la religione possono parlarci per metafore, al momento nel mondo digitale i cambiamenti di identità restano esperienze come possedere un diamante sintetico o provare il gusto di un cibo sintetico da laboratorio e il mercato tecnologico, con le sue continue novità, ci inocula sempre più occasioni di alternative identità virtuali. Viene alla mente la macchina dell’esperienza di Nozick da cui film come Matrix e Vanilla Sky, prenderanno ispirazione. Da un mondo di atomi a un mondo binario tradotto in codici di realtà. Il doppio digitale non umano.

 

La potenza degli oggetti
Più interessante l’uso del doppio digitale, “digital twin” e di identità non umane nell’ambito della ricerca e sviluppo, della medicina e nell’arte digitale di alcuni “tecno-artivisti”, per usare un termine inventato dall’artista Giacomo Verde. Sappiamo che gli oggetti, con “Internet delle cose”, possono andare oltre la loro prestazione funzionale e mettersi in relazione tra loro e in relazione con le persone per diventare protagonisti della scena quotidiana. Questo è possibile attraverso l’uso di sensori di pressione, caldo e freddo, luce, movimento e tanti altri gestiti da intelligenze artificiali che consentono di prendere decisioni in relazione alle nostre esigenze umane. Ma ogni oggetto reale può contare anche sulla sua copia digitale…

 

Oltre il doppio digitale
Oltre al nostro doppio digitale magari esteticamente migliorato o addirittura “gender fluid” sappiamo che in Giappone ci sono delle rockstar virtuali che hanno un loro seguito tra i giovani, robot umanoidi sempre più empatici ed è ormai prossima l’uscita per Samsung di “Neon”, un avatar realistico intelligente e, sembra, dotato di “emozioni”. Gli esperimenti più interessanti e inquietanti con la coscienza, a mio avviso, si stiano compiendo nell’interazione cervello-software, nel “mind uploading”, cioè nel trasferire la nostra identità dal nostro cervello su un computer tramite adattamenti incrementali. A un certo punto si abbandonerebbe il supporto biologico, il cervello, per trasferirsi completamente su supporto artificiale. In questa direzione si sta muovendo Elon Musk con la sua startup, Neuralink, ma al momento siamo ancora al limite della fantascienza.

 

Un falso problema
La paura più grande è quella di essere manipolati nella nostra identità dalla tecnologia. Le deformazioni del narcisismo presenti sui social possono essere mitigate, regolate e perseguite come accade per il cyberbullismo. Ma guardando al futuro l’identità sarà sempre più fluida e il digitale una componente integrante del nostro io, della nostra essenza. Sarà “autentica”? E se lo stesso concetto di autenticità della nostra identità fosse un mito? In fondo se superato il Matrix e presa la pillola rossa, quella che ci farebbe scoprire il Matrix, ci ritrovassimo in un Matrix ancora più grande? Come in un gioco di scatole cinesi è sempre la “scatola del cervello” a produrre sia la realtà virtuale che quella digitale. Sono pur sempre il prodotto della nostra attività umana. Liberarci dai condizionamenti significa sostituirli con altri, che in questo momento funzionano meglio per noi, perché al centro dell’identità c’è sempre un’illusione generata dalle nostre reti neurali. Questo non ci esonera dalle nostre responsabilità, dai nostri doveri perché il dolore, l’amore, la paura che sia frutto di manipolazione nel virtuale o nella realtà esistono e si provano nel nostro corpo e nella nostra mente. Nasciamo già in un’innumerevole nodo di relazioni, condizionamenti e storie che esistono prima di noi e che ci formano e ci condizionano e bisogna provare a farsene una ragione. Il virtuale è la nostra mente estesa e come tale se per assurdo si eliminasse non avremmo nessuna identità più autentica, perché la mente era già il risultato di una manipolazione prima dell’invenzione del digitale e del virtuale. E troverebbe comunque altre strade per esprimersi, altri condizionamenti sempre criticabili. Meglio “affrontarsi” nella nostra complessità multiforme senza fuggire, ma con l’idea di esplorare sé stessi per allargare l’orizzonte dei nostri possibili sé.

 

L’unicità del pensiero umano
Ad oggi un’identità virtuale è pur sempre un calcolo matematico come la ricostruzione di un rilievo cartografico partendo da alcuni punti segnati su un foglio. Saremo sempre una nube di dati in cui gli algoritmi non sono in grado di tener conto dei valori umani e di quelle variabili che possono avere nello “0” il loro successo sulla scelta vincente. A questo proposito una storia a tratti leggendaria è quella del matematico Abraham Wald. Occorreva nella Seconda guerra mondiale migliorare gli aerei della Royal Air Force inglese abbattuti dalla contraerea tedesca. Non c’era tempo per addestrare piloti migliori o per costruire aerei più veloci e si pensò che bisognava rinforzare, blindare quelli esistenti, ma con il rischio di appesantirli. Ma dove era indispensabile intervenire? Per gli ingegneri occorreva farlo nei punti più frequentemente colpiti degli aerei che rientravano alla base. Wald invece formulò un pensiero “al negativo”: se erano rientrati significava che i colpi inferti non erano stati fatali e dunque occorreva proteggere le altre parti, quelle che si erano mostrate determinanti nell’abbattere gli aerei non rientrati alla base come ad esempio il motore.

Un ragionamento di questo tipo, basato sull’intuizione, che trova strade così inusuali, laterali oggi un algoritmo di un’intelligenza artificiale non sarebbe in grado di farlo. In questi tempi di distanziamento sociale, di isolamento siamo riusciti a stare più insieme con i social, ma non ci siamo accontentati perché gli atomi del cuore e della mente sono ancora insostituibili.

 

La dimensione… artistica
Il duo d’ artisti digitali Salvatore Iaconese e Oriana Persico s’inventa un castello che definisce come “artista e poeta”. Un castello medievale, dotato di una sua “sensibilità”, attraverso sensori e telecamere che entra in relazione con i suoi ospiti. Attraverso l’intelligenza artificiale lo spazio si fa coscienza, colleziona dati e compie delle scelte secondo i bisogni umani. Nell’istallazione di “Antitesi” si compie qualcosa che è anche “gesto politico”. Una pianta acquisisce dati attraverso dei sensori in grado di rilevare le condizioni climatiche, il suo stato di salute, la crescita e l’aspetto. Le serie di dati si alleano con l’intelligenza artificiale connessa alla Rete in un continuo confronto con le serie storiche passate nelle banche dati. Da questo confronto sui valori, quando la pianta avverte un cambiamento climatico che minaccia lei stessa e l’ambiente circostante, attiva in automatico dei segnali d’allarme con una serie di azioni nel piano reale. Ad esempio inizia una campagna di donazioni che investono in aziende che si sono dimostrate virtuose nel combattere il cambiamento climatico. Acquisisce un’identità capace di agire ed entrare in relazione con imprese, organizzazioni e mercati finanziari. Essendo un progetto “open source” è possibile “scaricare” il software in relazione al proprio campo coltivato, per intere foreste o solo per una pianta messa su un balcone e unirsi nel progetto generando un processo virtuoso su scala globale.

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