Come si evolvevano i musei dedicati alla II guerra mondiale

Presentato al Museo di Marineria e di Storia del Litorale croato di Fiume il volume «Il metamuseo post-jugoslavo» dell’autrice Nataša Jagdhuhn

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Come si evolvevano i musei dedicati alla II guerra mondiale
Vjeran Pavlaković, Nataša Jagdhuhn e Tea Perinčić. Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

Quale luogo migliore se non un museo per presentare un libro che parla di… musei? Mercoledì scorso presso il Palazzo del governo (Museo di Marineria e di Storia del Litorale croato) è stato presentato il libro di Nataša Jagdhuhn intitolato “Il metamuseo post-jugoslavo. La rivoluzione dell’eredità della Seconda guerra mondiale nelle società postbelliche della Croazia, della Bosnia ed Erzegovina e della Serbia”. Il volume è nato dagli studi svolti dall’autrice durante il suo dottorato di ricerca presso l’Università di Jena in Germania.

A presentare, introdurre la serata e a mediare l’incontro ci hanno pensato la curatrice Tea Perinčić e Vjeran Pavlaković, docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Fiume.

Il concetto di museo commemorativo
Il libro verte attorno al concetto di museo commemorativo e al significato che questo termine può assumere in base alla situazione politica, alle comunità e alle circostanze. L’autrice ha analizzato l’evoluzione dei musei dedicati alla Seconda guerra mondiale in un quadro cronologico che va dal 1945 al 2022, esaminando come la narrazione legata al secondo conflitto bellico sia cambiata nel tempo, soprattutto prima e dopo la Guerra patriottica degli anni ‘90.
Nataša Jagdhuhn, attraverso il suo lungo lavoro di ricerca, ha studiato il legame che intercorre tra museo, società e politica descrivendo il nesso che è stato creato tra la descrizione della Seconda guerra mondiale e l’identità. Nel 1945, immediatamente dopo la fine del conflitto, è iniziata la costruzione di una rete museale molto fitta legata alle vicende e al ricordo della devastante guerra che ha cambiato per sempre le sorti del mondo e a questa si è legato un relativo processo di “jugoslavizzazione” dei musei.

Nessuno spazio per le zone grigie
In questa fase i soggetti presentati al pubblico erano sostanzialmente due: il primo positivo legato al mondo partigiano e alla lotta antifascista e il secondo negativo, identificato con il nemico, legato alla minaccia nazi-fascista. L’esercito jugoslavo veniva dipinto come il salvatore nonché il protettore della patria e le vittime jugoslave, assieme ai soldati comunisti venivano identificati come gli eroi e come tali venivano glorificati, mentre i soldati dell’esercito oppositore erano associati agli altri, agli usurpatori che sono stati vinti e cacciati. In un tale contesto non c’era spazio per le sfumature o per le zone grigie, dominava incontrastata una separazione netta tra bene e male; dove il bene era rappresentato dal comunismo, dai valori e dai principi che esso sosteneva e promuoveva, mentre il male era associato agli oppositori.

Messaggi legati all’antifascismo
Nonostante si trattasse di una narrativa politicizzata ai fini della propaganda comunista, essa veicolava comunque messaggi importanti legati all’antifascismo e alla libertà, per quanto fosse possibile parlare di libertà all’interno di un regime. Nel bene o nel male fino agli anni ‘90 le istituzioni volte a preservare la memoria della Seconda guerra mondiale identificavano questa vicenda con un evento fondamentale della propria storia. L’autrice ha posto l’accento sul fatto che durante tutto il periodo della Jugoslavia non si è mai affrontata, né nominata la questione dell’etnia, mentre il discorso verteva attorno al “noi” e “loro”, molte volte decontestualizzando gli eventi storici. In tal modo la politica jugoslava leggittimizzava agli occhi del popolo il proprio ruolo storico e il proprio modo di agire.

Le differenze etniche
Con la Guerra patriottica degli anni ‘90 cambia il contesto politico e sociale, di conseguenza anche quello identitario e i nuovi Stati pongono le loro basi proprio sulle differenze etniche. Questa nuova realtà fa nascere una narrativa in cui l’accento viene posto sull’importanza della guerra recente combattuta nei territori dell’ex-Jugoslavia, mentre i musei dedicati al conflitto mondiale passano in secondo piano. Questo processo viene definito dagli storici “broken museality”.
Oggi in Croazia non si investe nella salvaguardia, nell’ampliamento e nella ristrutturazione dei musei dedicati alla lotta di liberazione antifascista, eccezion fatta per il Museo memoriale di Jasenovac, che si erge a difensore della memoria delle tragedie umane che si sono consumate in quel territorio. L’autrice spiega che un discorso simile si delinea anche in Serbia e in Bosnia ed Erzegovina, dove si preferisce dare la precedenza a una dialettica vicina alla Guerra patriottica, relegando in secondo piano il discorso dell’Olocausto. Tale scelta è dovuta anche al fatto che gli Stati formati dalla disgregazione dell’ex-Jugoslavia volevano e vogliono tutt’ora distanziarsi da una narrativa storica comunista e desiderano delineare una propria identità autonoma e indipendente anche attraverso i musei.

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