Fiume laboratorio politico e sociale del Novecento

Il convegno internazionale al Vittoriale degli Italiani restituisce la complessità della vicenda e rivela che una nuova vulgata schiaccia quella precedente dell’impresa dannunziana come anticipazione del fascismo. Fu invece una rivoluzione: andò contro un certo parlamentarismo

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Fiume laboratorio politico e sociale del Novecento

Quasi quattromila croati armati erano pronti per ribellarsi alla conquista dannunziana di Fiume, ma per le ambiguità della politica estera del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni rimasero fermi, finché ogni reazione di fatto divenne superata, con l’accordo tra Roma e Belgrado e la costituzione dello Stato libero. L’Impresa di Fiume rivelò da una parte l’impotenza del governo italiano e la crisi del parlamentarismo, dall’altra parte le contraddizioni e le ipocrisie delle grandi potenze vincitrici e l’inconciliabilità di alcuni dei famosi 14 punti di Wilson con lo scenario geopolitico internazionale che si stava sviluppando nel primo dopoguerra. Gabriele d’Annunzio con la sua azione fiumana indicò che era possibile sfidare l’ordine costituito con un colpo di mano, ma la marcia di Ronchi del 12 settembre 1919 non va confusa con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922. E, soprattutto, non fu l’anticipazione del fascismo, ma un’esperienza originale in cui confluirono le correnti politiche più disparate, da destra a sinistra, la sete di una società alternativa a quella borghese, la ricerca di un nuovo ideale, di un obiettivo più alto, di punti di riferimento per un’intera generazione di giovani che avevano combattuto al fronte e che faticava a reinserirsi in una “normalità” nella quale stentava a riconoscersi.
Militari disertori, futuristi e dadaisti, nazionalisti e repubblicani, performer, “scalmanati”, libertini scesero a Fiume per dare vita alla “città dell’utopia”. Fu terreno fertile per la proliferazione di idee, anche molto innovative e anticipatrici dei tempi. D’Annunzio non fu nazionalista, ma un patriota di tipo rinascimentale, su cui s’innestò l’irredentismo, sia quello democratico sia quello adriatico, con connotati più economici che militari e imperialisti. Ma alla fine, l’Impresa servì a qualcosa? Senza di essa l’avanzata diplomatica italiana e quel piccolo capolavoro di diplomazia che fu il Trattato di Rapallo non sarebbero stati possibili. La Carta del Carnaro, poi, fu un piccolo capolavoro, un modello per un autonomismo che si rifaceva all’Italia dei comuni o alla Confederazione svizzera.
Ma c’è anche un altro aspetto di cui la storiografia italiana raramente tiene conto, forse perché troppo “piccolo” o localistico: segnò una frattura nella popolazione fiumana, quella italiana, tra dannunziani e zanelliani, che è proseguita per decenni anche nell’esodo, con una ricucitura solamente in tempi più recenti. Certo, ferì profondamente la popolazione croata, in particolare gli intellettuali che parlavano anche l’italiano, compromise la convivenza e comportò l’ulteriore esacerbazione dei rapporti tra le etnie. D’altronde, il clima era mutato già da tempo, con l’affermazione dei rispettivi nazionalismi agli inizi del Novecento. D’Annunzio, inoltre, mise in atto a Fiume un’idea della politica di cui sono protagoniste le grandi masse, fenomeno che avrebbe investito ben presto anche altri Paesi.
Regia impeccabile – del presidente Giordano Bruno Guerri e del suo esercito di professionisti e volontari attenti a ogni particolare –, il convegno internazionale che il Vittoriale degli Italiani ha promosso dal 5 al 7 settembre, ha restituito, come da aspettative e obiettivo, la complessità della vicenda fiumana e rivelato che ormai una nuova vulgata ha già schiacciato – almeno nel campo storiografico italiano – la vulgata precedente, che vedeva l’impresa dannunziana come un’anticipazione del fascismo. Invece, copiandone le strategie comunicative – simboli e rituali, gesta e retorica –, Mussolini l’ipotecò per il futuro e la condannò alla damnatio memoriae.
L’intento di Guerri era innanzitutto giungere a modificare un’idea consolidata, ma errata su ciò che fu veramente l’Impresa di Fiume: ovvero un esperimento rivoluzionario e libertario, anticipatore di ben altre correnti ideali e politiche del nostro tempo e non un’“impresa fascista”, come cercò di far credere, pro domo sua, per tutti gli anni successivi, Mussolini, poi avallato in ciò purtroppo anche dall’Italia democratica e repubblicana. Trenta relatori per scandagliare quasi in ogni suo poro una pagina di storia che la scuola liquida solitamente in poche righe. Grande show finale con alcuni nomi della crème de la crème della ricerca e della divulgazione.
Gran show finale
Maurizio Serra, ambasciatore italiano presso la Nazioni Unite, oltre che autore di libri storici – quest’anno per Neri Pozza è uscito “L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio”, la cui edizione in francese ha ottenuto il Prix Chateaubriand nel 2018 e il Prix de l’Académie des Littératures l’anno successivo –, ha offerto un prezioso inquadramento del coacervo diplomatico, a partire dai “due forni” tenuti a lungo aperti da Roma (che entra nel conflitto tardi e ancora più in là dichiara guerra alla Germania), dall’inconcludente Patto di Londra del 1915 ai giochi sotterranei, alle promesse irrealizzabili e incompatibili fatte all’Italia e al nuovo Regno SCS, le frizioni croate e slovene di fronte alla prospettiva di finire sotto i Karađorđević…
Francesco Perfetti (già direttore del Vittoriale e professore ordinario di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche della LUISS Guido Carli di Roma), anche relatore al simposio, ha aiutato a ricostruire il complesso rapporto tra il poeta immaginifico Gabriele d’Annunzio e il politico realista Benito Mussolini, due personaggi molto diversi tra loro, che però trovano un terreno d’incontro nel comune interventismo in occasione del Primo conflitto mondiale, ma d’altro canto il forte ego di entrambi e le notevoli differenze di formazione tra i due portano anche a momenti di crisi e freddezza che si alternano a quelli di collaborazione. Il professor Perfetti ha però invitato a non essere prigionieri di una visione italocentrica, perché l’Impresa di Fiume si colloca nel contesto di una situazione di instabilità delle frontiere che riguarda tutta l’Europa, si vedano a esempio i Corpi franchi nella Germania di Weimar.
Ernesto Galli della Loggia, storico e pubblicista italiano (editorialista del “Corriere dalla Sera”), professore di storia dei partiti politici presso l’Università di Perugia, ha individuato assonanze “insospettabili” sulle rivendicazioni italiane di Istria, Fiume e Dalmazia, in Gaetano Salvemini, a conferma del mix di destra e sinistra che fu l’Impresa dannunziana, e la presenza dell’establishment nella rivoluzione è anche un riflesso della sempre ambigua posizione del potere che è sempre pronto a colludere con le piazze quando gli si rivoltano contro. Alessandro Barbero, storico, scrittore e docente italiano, specializzato in storia militare e storia del Medioevo, ha accennato alla produzione letteraria (romanzi e prosa) e cinematografica incentrate su d’Annunzio e l’Impresa, tra cui un progetto mai realizzato di Tinto Brass, “Eia eia alalà”, che avrebbe raccontato l’ultima notte del Vate prima della partenza per Ronchi, immaginando che s’intrattenne con diverse amanti e le soddisfò tutte (un falso, visto che il poeta, già anzianotto, stava male, era febbricitante). Uscirà prima di Natale il film “Il cattivo poeta”, con Sergio Castellitto nei panni del Vate, sugli ultimi anni di vita di d’Annunzio.
Stefano Bruno Galli, storico prestato alla politica e all’amministrazione (è assessore all’Autonomia e Cultura della Regione Lombardia), pure lui tra i relatori, ha annunciato lo stanziamento di mezzo milione di euro per il completamento del pavimento in marmo rosso di Verona dell’anfiteatro del Vittoriale, oltre a lodare la gestione virtuosa e innovativa del Vittoriale (300mila visitatori l’anno, oltre il doppio rispetto a un decennio fa), istituzione museale di punta del territorio, ha sollecitato ad allargare la lente delle vicende fiumane al clima politico europeo, ossia non fu un episodio marginale, ma si inserisce nel dibattito europeo sui limiti del parlamentarismo (un tornante che porta dalla scomparsa dello Stato liberale allo Stato fascista), come apoteosi di una delle tante rivoluzioni nazionali mancate nel Paese.
La rivolta croata morta sul nascere
Per gli interventi, occorrerà attendere la pubblicazione degli atti, ma i relatori hanno riassunto nello spazio loro concesso la materia trattata. Nella sezione “Le identità di Fiume”, riservata allo scambio di vista tra ricercatori italiani e croati sul solco dell’anima plurale della città, Raoul Pupo (“La questione di Fiume e le vicende del confine orientale”) ha accennato alla faccenda fiumana e agli atteggiamenti machiavellici di un’Italia che vacilla, inadatta a esercitare il suo ruolo e in quest’ottica l’occupazione dannunziana evita che il Paese perda il controllo della situazione nell’Adriatico, le consente di temporeggiare in attesa che il quadro si rovesci, arrivando al 1922 quando la parte jugoslava è isolata e non ha potere negoziale.
Ester Capuozzo (“Da Corpus separatum a provincia italiana. Amministrazione e legislazione a Fiume. 1919-1924) ha ricostruito le basi della peculiarità politico-amministrativa-giurisdizionale fiumana, il rapporto con l’Austria-Ungheria e lo Statuto civico come elemento dell’autonomia e dell’attività del Consiglio nazionale italiano formatosi nell’ottobre 1918. Giovanni Stelli (“Gli autonomisti fiumani e l’Impresa dannunziana”), ha ripercorso il complesso rapporto tra quanti inizialmente accolsero festosamente d’Annunzio, sperando nell’annessione all’Italia, ma ben presto gli voltarono le spalle di fronte alla sua reggenza, tifando per lo Stato autonomo tracciato da Ruggero Gotthardi, il quale evidenziò, fin dal sorgere, il vicolo cieco in cui d’Annunzio avrebbe fatalmente gettato la città. Tant’è che il leader per antonomasia degli autonomi, Riccardo Zanella, definì il Vate come un delinquente “più infame e miserabile di Nerone”.
Un vero e proprio scoop quello di Ervin Dubrović, già presente a un convegno al Vittoriale una quindicina d’anni fa, il quale ha presentato un fatto ignorato dagli stessi croati: la cospirazione di un gruppo segreto, che si faceva chiamare “Galeb”, ossia “Il Gabbiano”, per fermare d’Annunzio. Erano circa 3.700 croati, finanziati da certi banchieri e dall’emigrazione croata, che si erano procurati i fucili a Vienna, li avevano fatti venire a Fiume con un treno speciale, clandestino, ed attendevano l’ordine di iniziare la rivolta… ma la politica non diede mai l’ok, per non complicare le cose e confidando nelle trattative diplomatiche. Alla fine, nel 1921, li donarono all’esercito del Regno SCS.
La statunitense Dominuque Reill (“How to survive in an Holocaust city. Fiume e d’Annunzio”), che sta per pubblicare un libro con la Harvard University “The Fiume crisis. Living in the wake of the Habsburg Empire”), ha trovato una disputa legale sui.. crauti, tra tale Ivan Rošić e Slavko Ivančić. Il primo aveva venduto al secondo un contingente di cavoli cappuccio, salvo poi ritirarsi (e restituirgli i soldi), perché non aveva ottenuto i relativi certificati delle autorità. La lite finirà in tribunale e andrà avanti fino al 1920, ma si regolò in base alle leggi ungheresi, a dimostrazione di quanto la struttura della “Defunta” era ancora funzionante. Entrambi figurano con i cognomi originali, con i segni diacritici (l’amministrazione dannunziana si era già insediata) ed entrambi usano le strutture dello Stato.
Nelle altre sezioni, Stefano Bruno Galli, Roberto Chiarini, Emanuele Cerutti, Carl Leo, Simone Colonelli, Simonetta Bartolini, Paolo Cavassini e Silvia Zanlorenzi hanno cercato di spiegare chi erano, a quali “sfere” appartenevano” e cosa volevano i militari che seguirono d’Annunzio a Fiume, i protagonisti che trasformarono la città in una controsocietà sperimentale, proiettata verso il rinnovamento nazionale e internazionale (molti trentini, sullo spirito di Cesare Battisti, il maggiore Carlo Reina, comandante dei Granatieri di Sardegna, “scalmanati” e “ragionevoli”, il cappellano militare Reginaldo Giuliani, presente alla cerimonia della consacrazione del pugnale donato al Comandante, il samurai Harukichi Shimoi, tante donne, visto che il femminismo e l’assistenzialismo si intrecciarono, letterati che fecero epoca ed “eccentrici”, da Guido Keller a Giovanni Comisso, Mario Carli, artisti come Guido Marussig e Adolfo de Carolis…).
La diffusione della rivolta dannunziana e la sua influenza sul panorama politico-economico e sull’immaginario dei contemporanei e dei posteri, sono stati resti da Vjeran Pavlaković – croato rientrato da Seattle e docente all’Università di Fiume, ha analizzato gli echi sulla stampa jugoslava e statunitense (si fa spesso riferimento a una specie di commedia, al regno del terrore, dell’anarchia, della violenza, ai fuggiaschi croati a Buccari, non mancano critiche a Belgrado, alla frustrazione per l’atteggiamento della comunità internazionale, a un d’Annunzio come a un don Chisciotte che si presenta come Garibaldi, a un buffone a un ciarlatano, un po’ il Trump di allora). Aldo A. Mola ha parlato del ruolo della massoneria, o meglio delle diverse logge massoniche, che ebbero un rapporto multiforme con l’Impresa fiumana (e se al Grande Oriente d’Italia non si parla minimamente di Fiume, non significa che non ci furono movimenti o progetti politici) e Alberto Mingardi dell’economista Maffeo Pantaleoni, massone, membro del Grande Oriente d’Italia, uno dei più importanti esponenti del marginalismo italiano, che dal settembre al dicembre 1920 fu ministro delle Finanze della Reggenza Italiana del Carnaro, tentando di far funzionare la Banca del Carnaro. Doveva basarsi su un principio che Mark Zuckerberg ha ipotizzato come strategia finanziaria per la moneta digitale di Facebook.
Stimolanti le pagine di Marco Cuzzi sulla politica “esteriore” di d’Annunzio a Fiume verso i Balcani (essenziale la figura di Giovanni Giuriati) e soprattutto sulla Lega dei popoli oppressi, come pure quelle di Matteo Pasetti sul sistema corporativo fiumano, oppure le testimonianze fiumane al Vittoriale (ripercorse da Elena Ledda) e l’esame delle migliaia di fotografie con un confronto sugli stili, le pose, i soggetti, i possibili autori (Barbara Bracco). Federico Carlo Simonelli ha tracciato la parabola del mito dell’Impresa e al suo uso durante il fascismo, “ribelle” nel 1924-29, “di fondazione” nel ‘29-’34, dei “precursori” nel ‘35-’38, “in campo” (ormai scomparso d’Annunzio) nel ‘39-’43, alla morte del mito nel ‘43-’45. Ha offerto diversi stimoli il contributo di Alessio Quercioli sulla Federazione Nazionale dei Legionari, che si confronta sia con i fasci di combattimento (accusati di aver mancato l’impegno con il fiumanesimo e il “tradimento” nel Natale di sangue) che con i comunisti, e l’Unione spirituale dannunziana (ben 11 sezioni in Italia) per i legami con l’antifascismo. Tante però le zone d’ombra.
Una “punzecchiatura” volta a cambiare le proprie prospettive e allargare gli orizzonti quella di Natka Badurina, che ha accusato parte della storiografia italiana di tener troppo poco conto della natura imperialista e razzista dell’esperienza della Reggenza del Carnaro, e della sofferenza provocata nella popolazione croata, che era quella che “non si divertiva” alla festa libertaria ma registrava una cronaca dell’orrore, della sopraffazione (Ernesto Galli della Loggia ha però messo in guardia dal pericolo di una eticizzazione e soggettivizzazione della storia). Badurina ha sollecitato a non parlare di “confine orientale”, che già dà una lettura pregiudiziale, piuttosto di “area di confine”.
Emiliano Loria ha riportato alla luce la questione dell’Infanzia, l’assistenza ai bambini in un periodo di carestia, per cui circa 600 piccoli vennero inviati in Italia, ospitati perlopiù da famiglie di Milano, Genova, Trieste. Marino Micich ha voluto dedicare la sua relazione agli esuli fiumani, istriani e dalmati, al loro sacrificio, alla loro storia a lungo sottaciuta, negata, dei valori ideali e spirituali su cui si fonda l’associazionismo dell’esodo, quello fiumano in particolare che assorbe anche l’epopea dannunziana e ha ricordato la rinascita a Roma della Società di studi fiumani nel 1966-1969, mentre quasi in contemporanea l’allora presidente della Repubblica Italiana conferiva l’onorificenza a Tito, in sfregio ai 350mila esuli e 12-14mila istriani, fiumani e dalmati uccisi durante l’opera di epurazione dei “nemici del popolo”.
Interventi di altissimo livello attorno a un personaggio che ha sfidato così tanto, ha fatto così tanto e ha dato così tanto. L’asticella si sposta ora allo scalino didattica, magari con percorsi specifici e organici per gli insegnati. Tra maggio e giugno dell’anno prossimo, in occasione di un altro centenario, gli esperti saranno chiamati ad analizzare le due versioni della Carta del Carnaro, ossia la costituzione della Reggenza italiana, che recepì l’impostazione del sindacalista Alceste de Ambris e alla quale d’Annunzio apportò modifiche non solamente stilistiche, ma anche sostanziali.

La statua del poeta

La statua di d’Annunzio a Trieste
A margine del convegno, Giordano Bruno Guerri ha anticipato che la statua dedicata a Gabriele d’Annunzio che il Comune di Trieste ha scelto di collocare in piazza della Borsa, sarà inaugurata il 12 settembre alle ore 12.
La scultura bronzea di Alessandro Verdi, terza in Italia, intitolata “Il solitario studioso” e che ci riporta chiaramente alla produzione letteraria del Vate – lo raffigura seduto su una panchina intento a leggere e con una mano poggiante su una pila di libri –, è stata contestata e oggetto di polemiche. Nel giugno scorso era partita una petizione popolare contro il monumento, mentre altri – tra cui anche lo scrittore Claudio Magris – hanno appoggiato l’iniziativa. E forse la tempistica scelta per lo scoprimento del monumento (che si ricollega a quelli gà eretti a Italo Svevo in Piazza Hortis, a Umberto Saba in via San Nicolò e a James Joyce sul ponte del Canal Grande), non delle migliori per stemperare il clima e staccare l’omaggio triestino al poeta e romanziere da quella che fu la sua azione politica e il fatto che da Comandante della città di Fiume applicò un codice militare contro chiunque professasse sentimenti ostili all’Italia.

L’urna per le spoglie di Riccardo Gigante

Riccardo Gigante al Vittoriale Avviati i primi passi formali
Si chiude il cerchio di una storia complessa e travagliata. Il Ministero della Difesa italiano ha fatto sapere di non avere nulla in contrario alla traslazione di resti di Riccardo Gigante al Vittoriale, dove nell’ambito del mausoleo c’è un’urna con il suo nome, disposta da Gabriele d’Annunzio. Il presidente della Fondazione, Giordano Bruno Guerri aveva già dato la sua disponibilità in tale senso circa due mesi fa, quando erano stati resi noti i risultati degli accertamenti al dna, con la conferma che tra quelli riesumati a Castua l’anno precedente – grazie a un’operazione condotta congiuntamente da Onorcaduti, Ministero dei Difensori croati e l’intermediazione del Consolato generale d’Italia a Fiume – c’erano anche le spoglie mortali dell’ultimo podestà italiano di Fiume, insieme ad altri sei italiani trucidati a guerra finita nel maggio del 1945 nel corso dell’”epurazione preventiva” attuata dal potere jugoslavo, e deposti in una fossa comune. Nell’ottobre scorso erano stati tumulati, con una cerimonia solenne, nel Tempio Ossario di Udine. La Società di studi fiumani a Roma, che con le sue ricerche ha portato all’individuazione del luogo in cui furono sotterrati Gigante e gli sventurati compagni (tra cui il brigadiere dei carabinieri Alberto Diana e il giornalista Nicola Marzucco), si farà portatrice dell’operazione, mentre Guerri ha promesso il suo impegno a portarla a termine dal punto di vista procedurale presso le autorità del posto (Gardone Riviera), come aveva già fatto in altri casi. Si stima che nel giro di un anno si potrebbe arrivare a compimento di questo gesto simbolico di ricongiungimento di due compagni dell’avventura fiumana (l’irredentista fiumano fu tra i più stretti collaboratori del Vate durante la Reggenza italiana del Carnaro) e che asseconda sia le volontà di d’Annunzio che pare pure di Gigante. C’è anche il consenso del nipote Dino Gigante, grazie al quale è stato possibile arrivare all’identificazione.

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