I ricordi di Egone Ratzenberger di Fiume e di Piazza Žabica

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I ricordi di Egone Ratzenberger di Fiume e di Piazza Žabica
Egone Ratzenberger . Foto: Afmi

La notizia della sua scomparsa l’abbiamo già data sulle pagine del nostro quotidiano. Ministro plenipotenziario, dal 1983 Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, nato nel 1935 aveva lasciato Fiume a quattordici anni, nel 1949. Da diplomatico ricoprì incarichi di alto rilievo. Fu Ambasciatore a Bogotà, a Montevideo e a Bratislava. Da sempre legatissimo alla sua città natale, scrisse anche un libro intitolato “Via Volta 2. Un’infanzia a Fiume”, edito nel 2005 da Edizioni biografiche, che pubblica biografie, autobiografie, storie di famiglia, di azienda, di istituzioni e di comunità. Egone Ratzenberger era cresciuto nel rione di Braida, nei pressi del Mercato coperto oggi caduto quasi in disuso, in quella che è attualmente via Blaž Polić. Nel suo libro racconta di una Fiume che ormai non c’è più, ma che rivive nelle sue memorie. Abilissimo nello scrivere, aveva collaborato in diverse occasioni anche con questa nostra rubrica e oggi vogliamo ricordarlo riproponendo stralci di un lungo, ma pittoresco e suggestivo testo che parla di Fiume e che egli scrisse e ci inviò nel 2012. Occhio alla parte finale.
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“Žabica è un termine di cui intuisco l’origine. Verrà probabilmente da ‘žaba’, croato per rana e dimostra che anticamente vi erano degli stagni. Ai nostri tempi si chiamava, se non sbaglio, piazza dei Cappuccini. Penso che verso il 1850 o 1870 fosse una radura fuori città prima che al tempo ungherese Fiume si espandesse in direzione dell’Istria, creando un po’ più avanti l’imponente viale che negli anni ’30 diventò viale delle Camicie nere, con i bellissimi platani che già ai tempi miei (anni ’40) erano molto cresciuti con i rami che nella nostra casa di Braida entravano dalla finestra. E subito voglio divagare ricordando che già da bambino mi domandavo: ma ‘be damned the misery’ (porca miseria) dove sono i boschi di platano come ci sono appunto quelli di querce e di faggio? Pare che non ci siano e che sia un albero che preferisce vivere in nobile solitudine, molto spesso lungo i fiumi. Ve ne sono delle specie in America del Nord, nel Vicino Oriente e nell’Estremo Oriente. […] No, la Žabica nostra non era roba da signori. Lo era forse in quanto regno dei cavalli, che erano però cavalli da tiro grossi, forti (il cavallo ha quattro volte la forza di un uomo), con grandi umidi occhi sempre un po’ perplessi nel vedere degli scimmioni umani agitarsi intorno a loro fornendo cibo, fieno, biada, bestemmie e qualche frustata. Cavalli non però grossi e biondi come quelli delle birrerie tedesche, ma in genere di colore marrone, o anche marrone chiaro, pezzati, bai, morelli, grigi con musi lunghi e tranquilli con code in sempiterna danza con i tafani. Non consumavano benzina e neppure carbonella (in uso al tempo della guerra); il fieno andava bene, ma una
parte di carburante la strappavano dai bordi delle strade, da vasi di fiori incautamente lasciati alla loro portata, da dove capitava. ‘Hije’ diceva il vetturino e loro andavano con passo lento a sbrigare le faccende del padrone, talora un po’ trottando, ma senza convinzione. ‘Hije’ ripetevo io guardandoli e poi introducendoli nei miei giochi. Auspicavo vivamente di poter un giorno esercitare l’arte di vetturino, ma non ce l’ho fatta. In compenso ho gestito a bordo della mia biciclettina una linea di autobus che andava dalla mia casa, in via Volta, fino alla facciata della chiesa dei Cappuccini. Scivolavo fra eleganti signore, spensierate ragazzette, operai indaffarati, dignitosi gentiluomini; mi fermavo al passaggio a livello che tagliava il viale, ammirando gli arcigni convogli diretti verso il Regno di Jugoslavia (o di Croazia). Terminavo la mia corsa molto soddisfatto, anche se una volta un signore mi domandò perché parlassi con me stesso. Poi una volta mi vennero a prendere per portarmi a casa d’amici; era infatti morto mio padre. Avevo cinque anni e mezzo. Era (ed è) la Žabica una piazza di forma quadrangolare con alle spalle la ‘ciesa’ e con di fronte il porto protetto da una barriera doganale perché vi era un ‘punto franco’, termine che ho messo decenni a capire nelle sue implicazioni e nella sua realtà economica, ma non mi sono mai considerato particolarmente sveglio. A destra cominciava il già descritto viale delle Camicie nere che andava alla stazione, all’ospedale, al ‘Giardin pubblico’, dove costruirono la chiesa – poi distrutta dai ‘drusi’ – che ricordava il nostro primo esodo, quello cioè del 1941; andava al quartiere delle industrie e alla via della Santa Entrata (anche qui mi ci sono voluti decenni per capire che si trattava dell’entrata di D’Annunzio) e ai bagni di Cantrida. A sinistra della Žabica c’era anzitutto la strada che portava a piazza Regina Elena e al Corso, cioè al meglio del meglio del nostro conglomerato urbano. Di essa mi ricordo il negozio del panettiere Chiopris, con i capelli bianchissimi e gli occhiali molto spessi, almeno credo. Anni dopo dovevo vederlo a Brindisi, dov’era giunto non so come e aveva aperto un panificio sullo stradone che portava al collegio Tommaseo. […] Sempre sul lato sinistro della Žabica, con le spalle beninteso volte alla chiesa, v’era una fila di case basse, forse un tempo site alla periferia della città. All’angolo verso il porto e la Riva e già in vista del mitico molo Scovazza, c’era un’osteria, una bottiglieria dove al termine di una mia breve visita nel ’58 e prima di partire per Lubiana, presi la mattina presto una ‘kava’ con lo ‘slivoviz’, veramente eccellenti e mi sentii molto adulto. Infatti era una cosa seria: il caffè (d’accordo, non era il caffè italiano) ti scaldava la gola e lo stomaco e vi si aggiungeva la profumata ‘sliva’ che scendeva anche più giù nelle budella. Capisco che bodoli e cavallari andassero poi al lavoro più tranquilli, un po’ euforici, tipo ‘la vita è bella’. E credo che anche i cavalli gradissero questo rito perché il padrone era più disteso mentre loro con le grandi code crinose si dedicavano all’abituale ballo Excelsior con mosche e tafani; felici anche questi per il tanfo di urina e cacca di cavallo, garante di comodi nidi per la progenie (ma il tardo pomeriggio la piazza veniva pulita). Bisogna dire che le deiezioni erano tante e anche la pipì (il tutto fatto dai cavalli con sereno abbandono), ma l’odore non disturbava poi troppo, come succede anche per i bovini, vuoi perché questi ruminanti mangiano erba e non puzzolenti proteine animali, vuoi perché
per l’umana gente hanno sempre significato carne, latte e mezzi di comodo trasporto, cioè riferimenti positivi.[…]
La Žabica era poi costeggiata sul largo marciapiede che sfiorava la chiesa da una fiumana di gente che veniva o andava verso il centro e che comprendeva le persone che si recavano
negli uffici o in altre parti della città o al mercato o alla stazione ferroviaria o verso la periferia ovest. Su tutte s’imponeva il nostro bellissimo verde tram, che era a linea unica dal confine con il Regno di Jugoslavia in Scoglietto fino a Cantrida e quando entrava nelle curve faceva uno stridio particolare e quasi rassicurante che sentivo soprattutto la sera tardi a letto.
E che ho riudito a Cracovia: eravamo stati tutti parte dell’impero asburgico. A parte quegli stupidi cavalli, la Žabica ne ha viste parecchie durante la guerra e subito dopo. Lì presso è caduta il 19 luglio 1943 – data del bombardamento di Roma – anche la prima bomba esplosa a Fiume non lontano dal nostro negozio. Subito dopo la guerra la piazza ritornò per un po’ a essere come prima, ma a questo punto i miei ricordi si fanno molto sbiaditi. Credo che ben presto essa sia stata di molto ‘migliorata’ divenendo capolinea di autobus e i fumi della benzina hanno sostituito l’odor di pipì dei cavalli. Insomma un vero progresso! Non so se sia un progresso o meno. Ma forse pensiamo sempre con nostalgia ai tempi passati che erano molto meglio, si capisce, di quelli odierni; ci ricordiamo di quando eravamo giovanissimi e il mondo a noi si apriva ed erano presenti – e volevamo che fossero sempre presenti – coloro che poi sono andati di là. Molti dei personaggi della Žabica erano poveri, perché in quei tempi era davvero consigliabile nascere signori. D’estate molti ragazzi andavano scalzi. Si diceva: ‘i xe de la Gomila, cioè della cità vecia’. […]
La Žabica era ed è tuttora protetta dalla chiesa dei Cappuccini. Edificio un po’ pretenzioso, un neogotico di quello stile che era molto di moda alla fine dell’Ottocento, ma che comunque in questo caso non era riuscito male né al di fuori né all’interno. Era molto apprezzata anche a motivo dell’Ordine che la gestiva. Era stata dei Cappuccini croati, poi dopo il 1922, fra dissidi vari, sostituiti da quelli italiani di Padova a cui, a ogni buon fine, era stato insegnato un po’ di croato da padre Leopoldo Mandić di Cattaro, oggi Santo, e che anche lui venne a Fiume per salvare un po’ di anime fiumane. Impresa abbastanza difficile. I fiumani avevano ormai girato il mondo, molti leggevano, molti sapevano le lingue, ma si sa che la fede è qualcosa di non angusto e avendo a che fare con l’Inconoscibile sceglie molte strade. Quindi anche sulla Žabica e dintorni si andava da una fede popolare leggermente pagana, sincera, ma devozionale dei bodoli, fino alla fede borghese e ben allineata di molti e fino allo scetticismo irrituale ma variegato di commercianti, impiegati e gente varia che traeva però spirituale sostegno dalla presenza dei figli di Francesco. […] Da quella Žabica sono emigrati naturalmente tutti; in praterie verdissime i cavalli, in tradizionali osterie con tante botti e tante bottiglie di un litro e di mezzolitro i bodoli e i cavallari che, ‘malignasi’ continuano a prendersela con Dio e le madri dei sodali, ma nessuno vi bada: tanto, è puro folclore. Fanno loro compagnia bottegai, ferrovieri, passanti, chi volete voi. Forse stanno da qualche parte e sono felici. Ma non lo sappiamo.

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