Arena. Gli interventi del passato pesano come un macigno

Il sindaco di Pola Filip Zoričić ha ventilato l’ipotesi di una nuova candidatura per il più famoso monumento cittadino. Abbiamo illustrato i motivi per cui i primi due tentativi sono andati a vuoto

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Arena. Gli interventi del passato pesano come un macigno
Foto: GIULIANO LIBANORE

“Vedendote mia Rena, commosso sento il core, l’anima sento piena, de patrio santo ardore. Pensando a la to storia de un tempo ‘sai lontan, mi calcolo sia gloria ciamarse Polesan!”. Ecco le parole sacrosante del “polesan sicuro” nato e desideroso di morire all’ombra di queste arcate. Ma l’inno della Città (a firma Vascotto-Bucavelli), ispirato al suo monumento simbolo, va oltre al puro orgoglio e sembra a un certo punto diventare precursore dei guai che verranno: “Le ciacole i ga dito fritole no le fa, ogniun el so partito. Sarà quel che sarà”.

E davvero, quello che è stato… purtroppo è stato. Starci oggi nella Città dell’Arena è sempre motivo di maravea, per chi vi è legato da sentimenti di appartenenza autoctona, sincero rispetto e considerazione. Quello che manca, invece, è il senso del realismo e di lucidità. Ne hanno parlato tutti: il sindaco di Pola, Filip Zoričić, alla vigilia della crisi a livello di assessori e assessorati, ha ventilato (ma soltanto a livello di intenzioni), l’avvio del progetto di ricandidatura dell’Anfiteatro all’Unesco, riportando agli onori della cronaca i famosi due tentativi miseramente falliti (nel 1996 e nel 1999). Chi siamo noi per pretendere il prestigioso inserimento nella lista mondiale del patrimonio mondiale dell’umanità? A farci rimettere i piedi per terra vi è la lista dei dati di fatto altrettanto prestigiosa: Pompei, Aquilea, Verona, Siracusa, Arles, Mérida, Treviri, Cartagena, Pergamo e altrettanti anfiteatri con alla testa il padre dell’Olimpo, l’imperiale Colosseo di Roma. Sono sì iscritti quali beni di eccezionale valore e da tutelare, ma soltanto come parte di entità antiche. Dunque nemmeno il Colosseo vale quale monumento singolo e il più regale in assoluto senza i fori repubblicani e imperiali, senza il Pantheon, senza Castel Sant’Angelo, il Campidoglio, l’Ara Pacis, Piazza Navona, le basiliche…

Obbligo e impegno
Pignoleria da parte della commissione ICOMOS addetta alle nomination? Potrebbe anche essere e varrebbe la pena di prenderne atto. Se così stanno le cose, la maravea polesana non può pretendere di equipararsi all’anfiteatro della Città eterna, con “annessi e connessi”, e ancora meno alla magnificenza e alle mastodontiche fattezze di El Jem (Tunisia), l’unico sotto tutela in veste di “single”. Ergo, il centro storico di Pola – leggi Arena, Tempio d’Augusto, Arco dei Sergi, Porta Gemina e Porta Ercole – forse potrebbero vincere l’ostacolo che osteggia la promozione. Quello che colpisce è, intanto, l’incredulità di coloro che non comprendono la mancata “annessione” dell’Arena di Pola all’impero della romanità protetta dal marchio Unesco, che non significa assegnazione di contributi in denaro, ma esclusivamente obbligo e impegno a mantenere ben conservata e incolume la “struttura” classificata quale patrimonio mondiale.
Le prove dello scempio
A proposito d’incolumità. A Pola, ma anche a livello di Croazia, sembrano soffrire di amnesia. Chi noi? Siamo innocenti. E pochi sembrano ricordare la vera entità dello scempio compiuto nei famigerati anni 80, fino a relegare nel dimenticatoio gli errori più madornali – leggi il più grande danno praticato all’anfiteatro di Pola nei suoi duemila anni di storia – nel grande contenitore dell’oblio e dell’acqua passata. Urge eccome rinfrescare la memoria e ricordare che Pola ha lasciato fare o peggio, che Pola ha fatto. E che le prove dello scempio restano e resteranno visibili agli occhi dell’esperto anche nei secoli a venire. Figurarsi se quelli della commissione Unesco si sarebbero lasciati sfuggire le tracce delle trapanature, che hanno permesso di installare e cementare dentro alle strutture interne dell’Arena bar-pizzeria e discoteca, i cavi della moderna ingegneria edile. Vediamo di rispiegare i “delitti” dell’era quando la scienza archeologica ha sfasciato invece di recuperare nel nome della rivalorizzazione “pratica” della storia con evidente scopo di lucro per chi in Arena ci aveva abitato assieme al proprio business.
Installazioni elettriche e tubature
Nel 1984, al monumento venne commesso quello che non fecero né Attila ai tempi del crollo dell’Impero romano, né le bombe alleate alla fine del secondo conflitto mondiale: l’asportazione dell’asportabile. Metri e metri cubi di strutture murarie romane che scoppiavano di salute e conferivano staticità perfetta alle mura dell’architettura elitica finirono asportate da un intero convoglio di camion e smaltite in immondezzaio, quale materiale da risulta. È una faccenda che ha i suoi nomi e cognomi, ai tempi quando Vesna Jurkić Girardi era stata direttrice del Museo archeologico istriano e Attilio Krizmanić, responsabile dell’assessorato cittadino alla Pianificazione ambientale, che includeva l’Ufficio per la tutela del patrimonio storico-architettonico. Cui prodest, ovvero a chi giova far assurgere nuovamente ai disonori della cronaca, fatti dell’altro secolo? Intanto per ripicca nei confronti di coloro che continuano fare gli gnorri e a dare la colpa all’Icomos (alias Unesco), parlando di schizzinosità, privilegi concessi secondo criteri da corsie preferenziali, troppa dipendenza da un milieu europeo di eletti più ispirato ad altri lidi e altre scuse…).
E poi, altrettanto inacettabile è il condono per “anzianità”, la caduta in prescrizione del “reato” commesso e pilotato da chi aveva in mano la gestione della Città e del monumento – sesto per grandezza nel mondo – che anni dopo aver perpetrato la trivellazione, ha invitato l’Unesco con la faccia tosta in Arena, convinto che sotto il cemento armato e le piastrelle non si possono notare le installazioni elettriche e le tubature che perforano e lacerano l’architettura ed anche le pietre della vicina via Flaccio romana.
Spettacolo penoso
Niente supera in eloquenza le prove fotografiche degli interventi demolitori che abbiamo recuperato e che vent’anni or sono erano diventate di dominio pubblico. Tanto per ricordare… documenti che il senso di giustizia aveva fatto scaturire e ripescare dagli archivi nascosti decenni or sono, fanno ritornare in auge la prepotenza di “chi ha fatto” con trapano in mano da padrone auto-proclamato dell’Arena e l’apatia di “chi ha lasciato fare” (trapanare) con comodo opportunismo, per poi soffrire di profonda amnesia caratteristica dei ben pensanti, esprimere lodi alla memoria e assegnare premi e onorificenze post mortem a cotanto di distinti cittadini, nel nome della riconoscenza per il “grande” contributo culturale dato a questa Città. Un grande omaggio, davvero, indelebile. Inutile è oggi tappezzare le ferite dei bastioni demoliti con pannelli espositivi. Purtroppo si vede. Eccome si vede, come le decine di porte e di passaggi artificiali prodotti dai martelli del XX secolo su blocchi strutturali da sostegno. E c’era anche chi aveva visto e sgranato gli occhi a “crimine” in pieno corso. Ma a nulla erano valse le voci della ragione, davvero autorevoli, che negli anni 80 si dissero inorridite: “La demolizione che si sta compiendo in siffatte proporzioni all’anfiteatro è una devastazione. La stessa va vista sul posto, al cantiere, nell’anfiteatro, dove il martello pneumatico del compressore sta buttando giù – a gran fatica! – tessuto sano di strutture romane in quantità sbalorditive: non sono tonnellate di materiale ma decine di tonnellate di materiale. Lo spettacolo è penoso, pesante, incomprensibile”: sono parole testuali, documentate nero su bianco dal dott. Eugen Franković, cui la Società croata degli storici aveva affidato il compito di visionare i lavori. Un diario di viaggio nel ventre dell’Arena, dentro al luogo della strage architettonica. Che cosa disse, tra l’altro Vesna Kusin, vent’anni or sono, allora direttrice della galleria d’arte zagabrese “Klovićevi dvori”, in materia di “ristrutturazione” dell’Arena? “Questo contrasto di materiali – pietra, cemento, travi e quant’altro – le ricostruzioni illogiche di tanti dettagli nonché l’esecuzione estremamente superficiale, negligente e trasandata sono davvero sconfortanti. Quanto capitato all’Arena è peggio di quello che il tempo le avrebbe inferto in centinaia e centinaia d’anni a venire”.
La protezione come garanzia futura
Che cosa dovrebbe fare Pola a questo punto? Snocciolare il rosario per il trattamento da matrigna riservato alla sua figliola di pietra, ma non recitare il de profundis, perché a tutto vi è rimedio fuorché alla morte. La candidatura va eccome rinnovata, assieme a tutte le altre testimonianze della romanità polesana. L’Arena, adesso che le famigerate trivelle sono state abbandonate in rimessa, non è più patrimonio mondiale la cui identità è minacciata o distrutta come nel caso dell’orripilante destino capitato a Palmira, ma a scanso di rischi la protezione serve, come garanzia futura, come “contratto d’assicurazione”, affinché Attila non abbia mai a tornare, affinché il Museo archeologico continui a operare da diligente curatore come ora, affinché al medesimo non venga imposto l’obbligo di ospitare i decibel della musica tecnologica che, come testimoniato, hanno fatto tremare le mura dell’Arena e di tutte le palazzine circostanti. Non si può più lasciar fare. Per lasciar Pola a dormire in pace ci vuole l’Unesco. “Se i ga el zervel de legno capir i doverà”: recita el “Polesan sicuro, nato drio la Rena…”.

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