Il monito di Mattarella da Trieste: «Il nazionalismo portò alla Grande guerra»

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Il monito di Mattarella da Trieste: «Il nazionalismo portò alla Grande guerra»

Perché suscita commozione, in un mondo cinico, il racconto di antichi ideali, esasperati nella Prima guerra mondiale, con centinaia di migliaia di morti che non risolsero i conflitti, che si riversarono intatti nella Seconda guerra mondiale, alla ricerca di una pace che ora dura da settant’anni in Europa. Toccano corde sensibili, il desiderio di felicità, ordine e bellezza non ha età, non coordinate geografiche, ma quando emerge scatena sensazioni forti. Che cosa sono il coraggio, l’eroismo, l’amor di Patria? Astrattismi, ma non concetti astratti, di cui abbiamo bisogno. Un qualcosa in cui credere, una religione laica. Il messaggio giunge da questi cent’anni di storia che ci separano dalla fine della Prima guerra mondiale, che la nazione ha ricordato ieri da Trieste, da Piazza Unità d’Italia, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella e del Ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, insieme sul palco d’onore allestito davanti alla Prefettura, con il Governatore dell’FVG, Massimiliano Fedriga, il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato ed alti esponenti istituzionali e delle Forze armate. Le ricorrenze sono multiple, ma tutte legate alla fine della Grande guerra.

La rievocazione storica

Perché a Trieste? Lo ricorda il Capo dello Stato maggiore dell’Esercito, Claudio Graziano. Città austro-ungarica, porto franco, città di scambi e di incontri, entrava a far parte dell’Italia: il 3 novembre l’arrivo delle navi da Venezia nella corsa per spingersi il più lontano possibile prima della firma a Padova e riconquistare per l’Italia i territori che in lei si riconoscevano. Non era possibile raggiungere la città via terra su un percorso ancora sotto assedio, quindi la via del mare diventava la sola occasione. Ad illustrarne i vari momenti, la rievocazione storica con i bersaglieri in bicicletta che sbarcano dalla San Marco e i bersaglieri che entrano a cavallo dal fondo di Piazza Unità. E le rappresentanze delle varie formazioni di mare e di terra. L’aviazione iniziava timidamente con un nome glorioso come quello di Francesco Baracca.
“Trieste, capitale di più mondi”, dirà poco dopo il presidente della Repubblica, mentre sul grande schermo di Piazza Unità, appare la San Marco ormeggiata sul Molo Audace con il motto scritto in lettere cubitali “Ti cun nu nu con ti”, che gli Oltremarini di tutto l’Adriatico orientale riconoscono di primo acchito, figli come sono di una lunga storia che li lega alla Serenissima. È il motto con cui la dalmata Perasto ribadiva il suo legame a Venezia nel momento in cui l’antica potenza cessava di esistere.

«Capitale di più mondi»

“Sono particolarmente lieto di celebrare a Trieste, in questa magnifica piazza, così ricca di storia e di cultura, la giornata dell’Unità Nazionale”, ha affermato il capo dello Stato. “Trieste, profondamente italiana ed europea, città di confine e di cerniera, cara a tutta Italia, capitale di più mondi. Trieste è insieme un simbolo e una metafora delle contraddizioni del Novecento”.
Il presidente della Repubblica era arrivato poco prima nel capoluogo giuliano salutando la folla e stringendo le mani ai presenti di fronte a Piazza Unità d’Italia.
La storia e il presente si sommano e si sovrappongono. I due relatori eccellenti, lo ricordano con grande chiarezza. Il messaggio che giunge dalla storia è forte e chiaro.
“Nessun Paese può farcela da solo – afferma la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta –, non in questo mondo della globalizzazione”. È stata la seconda a parlare, dopo l’intervento del capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, che ha spiegato l’impegno delle Forze armate italiane oggi sul territorio nazionale e in ambito internazionale. Negli aiuti nei luoghi colpiti dal maltempo in questi giorni con tante vittime e nel mondo nelle tante missioni di pace. Ma con questa cerimonia – ha sottolineato – si chiude un periodo di “sistemazione della memoria” iniziato cinque anni fa con il coinvolgimento di tantissime realtà. Non ultimo il fatto che alla cerimonia di Trieste abbiano partecipato rappresentanze dei Paesi amici nella Prima guerra mondiale, ma anche delle forze contrapposte, tutti nelle divise d’epoca.

«L’amor di Patria non è nazionalismo»

“L’amor di Patria non è nazionalismo”, sottolinea la ministra Trenta, parlando anche di Trieste, città nella quale non a caso si è svolta questa cerimonia, “è un luogo simbolo dove si portò a termine un processo di unità nazionale e si rivela oggi laboratorio straordinario di convivenza e di unione tra le persone”.
La delegazione – che nella prima mattinata aveva reso omaggio all’Altare della Patria a Roma, con il premier, Giuseppe Conte, la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, i presidenti di Senato e Camera, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico – si è poi divisa. Parte ha proseguito verso il Sacrario di Redipuglia e per Trieste, parte a Bari, per rendere omaggio a un altro sacrario e a Palermo, dove nella notte altre persone sono state travolte dalla furia dell’acqua a causa di un’esondazione. Una preoccupazione sempre presente durante la cerimonia con espressioni di solidarietà.
Ne parla anche la ministra Trenta, definendo l’Esercito “spina dorsale del Paese. Impegnato proprio in questo momento a soccorrere migliaia di famiglie in difficoltà. Cent’anni fa un’altra Italia si rialzava in piedi dopo la sconfitta di Caporetto. Luoghi sacri dove la gloria si è fatta storia. Oggi li ricordiamo tutti, i luoghi e i protagonisti. A loro tutti dobbiamo molto, la nostra stessa identità di italiani”.
Nel Giorno dell’Unità nazionale, ricorda che allora questa “città contesa dalla storia diventava l’emblema di un Paese da riunire”. Ma non bisogna mai abbassare la guardia: “Oggi la pace non è un bene scontato, ma un valore che va affermato attivamente. I conflitti non sono scomparsi, la comunità internazionale si scontra ogni giorno con grosse difficoltà. L’UE è uno strumento fondamentale, nessuno potrebbe oggi affrontare le sfide della globalizzazione con le sue sole forze. La pace era il sogno di chi ha combattuto ed è la speranza della nostra generazione. Nasce e cresce dal rispetto delle minoranze e della diversità”.

La citazione di Magris

Nel prendere la parola il presidente Mattarella ha citato Claudio Magris, un omaggio alla città letteraria e al genio degli intellettuali globali di questa città che per tanto tempo ha personificato la frontiera e le sue tragedie. Ecco perché, sottolinea il capo dello Stato, “la Repubblica celebra qui la Vittoria e la conclusione di quella guerra, che sancì il pieno compimento del sogno risorgimentale dell’unità d’Italia, con l’arrivo, a Trieste, dell’Audace e della Grecale della nostra Marina e con l’ingresso dell’Esercito a Trento. Lo facciamo con orgoglio legittimo e con passione, senza trascurare la sofferenza e il dolore che hanno segnato quella pagina di storia. Lo facciamo in autentico spirito di amicizia e di collaborazione con i popoli e i governi di quei Paesi i cui eserciti combatterono, con eguale valore e sacrificio, accanto o contro il nostro. Saluto i loro rappresentanti che sono qui con noi, oggi, in Piazza Unità ed esprimo riconoscenza per la loro significativa presenza. Celebrare insieme la fine della guerra e onorare congiuntamente i caduti – tutti i caduti – significa ribadire con forza, tutti insieme, che alla strada della guerra si preferisce sviluppare amicizia e collaborazione. Che hanno trovato la più alta espressione nella storica scelta di condividere il futuro nell’Unione europea. La guerra, le guerre, sono sempre tragiche, anche se combattute – come fu per tanti italiani – con lo storico obiettivo di completare il percorso avviato durante il Risorgimento per l’Unità Nazionale. Lo scoppio della guerra nel 1914 sancì, in misura fallimentare, l’incapacità delle classi dirigenti europee dell’epoca di comporre le aspirazioni e gli interessi nazionali in modo pacifico e collaborativo, anziché cedere – come invece avvenne – alle lusinghe di un nazionalismo aggressivo che si traduceva nella volontà di potenza, nei cosiddetti sacri egoismi e nella retorica espansionistica”. E poi, citando Claudio Magris, “ogni Paese pensava di dare una piccola, bella lezione al nemico più vicino, ricavandone vantaggi territoriali o d’altro genere… Nessuno riusciva a immaginare che la guerra potesse essere così tremenda, specialmente per le truppe al fronte, e avere una tale durata”.

Il sacrificio

“La Grande guerra, che comportò il sacrificio di più di dieci milioni di soldati, e un numero altissimo – rimasto imprecisato – di caduti civili, non diede all’Europa quel nuovo ordine fondato sulla pace, sulla concordia e sulla libertà che molti, con sincere intenzioni, avevano auspicato o vagheggiato”, ha ricordato il presidente. “La guerra non produsse, neppure per i vincitori, ricchezza e benessere ma dolore, miseria e sofferenze, nonché la perdita della primaria rilevanza dell’Europa in ambito internazionale. La guerra non risolse le antiche controversie tra gli Stati, ma ne creò di nuove e ancor più gravi, facendo sprofondare antiche e civili nazioni europee nella barbarie dei totalitarismi e ponendo le basi per un altro, ancor più distruttivo, disumano ed esacerbato conflitto globale”.
E mentre la piazza si preparava alla sfilata di quasi mille uomini in divisa, il presidente ricordava: “Nel buio delle trincee, nel fango, al gelo, micidiali e sempre più perfezionati armamenti, uniti alla fame e a terribili epidemie, mietevano ogni giorno migliaia e migliaia di vittime, specialmente tra i più giovani. I soldati italiani trovarono, ciascuno a suo modo, dentro di sé, la forza di resistere e di sostenere, con coraggio e dedizione, prove durissime, spesso ben oltre il limite dell’umana sopportazione. Desidero citare anche i molti italiani, abitanti delle terre allora irredente, che furono inviati nella lontana Galizia, dove combatterono e tanti perirono con la divisa austroungarica”. In poche frasi anche la nostra storia di sudditi austroungarici, italiani dentro. Ricordiamo il sacrificio di Nazario Sauro e di tanti come lui che scelsero di non ubbidire e si affidarono alla sorte. Non è forse quanto racconta Franco Vegliani nel suo romanzo “La frontiera”?
Pensieri che si mescolano all’emozione di una cerimonia sobria, misurata eppure ricca. Piccoli esempi, con la consegna della bandiera italiana ai Bersaglieri, i canti degli Alpini, il passaggio delle Frecce tricolori, l’inno intonato dalla banda e dal trio il Volo.
E quella sensazione di incredulità e sbigottimento, al ricordo del presidente Sergio Mattarella del soldato semplice, Vittorio Calderoni. “Era nato in Argentina, nel 1901, da genitori italiani emigrati. A soli 17 anni s’imbarcò per l’Italia, per arruolarsi e combattere nell’Esercito italiano. Morì per le ferite ricevute, a guerra ormai finita, nel novembre di cento anni fa. Ritengo doveroso ricordarlo qui, in questa stessa piazza, dove ottant’anni addietro fu pronunciato da Mussolini un discorso che inaugurò la cupa e tragica fase della persecuzione razziale in Italia, perché Vittorio Calderoni era ebreo, il più giovane tra i circa 400 italiani di origine ebraica caduti nella Grande guerra”.
E poi ricorda il ruolo delle donne, tante, accanto ai soldati, di supporto e conforto, le portatrici carniche, le madri come la Bergamas che scelse la salma da portare a Roma per rappresentare il Milite Ignoto.

I numeri

A scuola si consegnano ai giovani queste cifre: 6.000.000 furono gli italiani chiamati alle armi; 300.000 i rimpatriati dall’estero per arruolarsi; 680.000 i soldati caduti in guerra; 2.500.000 il numero complessivo dei soldati italiani feriti; 463.000 i soldati feriti gravemente, resi invalidi e/o mutilati; 45 miliardi di Lire il costo complessivo della guerra in Italia equivalente a 150 miliardi di euro di oggi. Nel mondo la guerra causò circa 9.000.000 di vittime (5.500.000 delle potenze alleate e 3.500.000 delle potenze centrali), alle quali si aggiungono gli oltre 20.000.000 di vittime causate dalla terribile epidemia “spagnola” che si diffuse in tutto il mondo dopo la conclusione del conflitto tra il 1918 e il 1920.
Commemorare la Grande guerra è un impegno civile. L’Europa unita è l’alternativa alle guerre che hanno insanguinato per secoli il nostro continente, senza dimenticare che sul fronte italo-austriaco hanno combattuto quasi tutti i Paesi che oggi fanno parte dell’Unione europea.

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