INSEGNANDO S’IMPARA Lingua e globalizzazione

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INSEGNANDO S’IMPARA Lingua e globalizzazione

I concetti di globalizzazione, villaggio globale, mondo globalizzato sono talmente normalizzati che li diamo già per scontati. Dopotutto, le ultime due-tre generazioni di giovani (a seconda da dove si trovino) non sanno neanche che cosa significhi vivere in una società non globalizzata. Quello che ci interessa oggi, invece, è divertirci un po’ osservando le ripercussioni linguistiche di questo fenomeno. Va premesso subito che verranno menzionati prodotti e marchi al solo scopo illustrativo; chi scrive non è pagata né sponsorizzata da nessuna delle aziende citate.

Cominciamo dalla lingua. Va da sé che la lingua della globalità è l’inglese. Parlano inglese le multinazionali, il mondo della pubblicità, del marketing, delle pubbliche relazioni, per cui il lancio di un qualsiasi nuovo prodotto, anche in Paesi non anglofoni, ha per madrina la lingua anglo-americana. Il problema è che la massa di prodotti battezzata in inglese o da parlanti inglese, viene piazzata sui mercati internazionali e lì se la deve vedere con gli altri idiomi. La questione era già evidente in tempi pre-internet, quando il dominio dell’inglese era più contenuto, ma rimaneva il problema della pronuncia. Voi come lo pronunciate il nome del dentifricio: colgate o colgheit? Quelli che lo pronunciano alla prima maniera rivelano subito la propria età. Non posso neanche spiegarvi quanto ci divertiamo ai corsi di italiano con il marchio Dove. “Ma dove hai messo il sapone?” “È lì, Dove” “Ma dove?” “Ce l’hai sotto il naso, Dove!” “Ma sei scemo?” ecc. Però, finché un prodotto risulta avere il nome di un avverbio di luogo, passi. La situazione cambia quando un nome in un’altra lingua si carica di significati più delicati o controversi.

Bisognerebbe dire alla Ford che, per il mercato croato, sarebbe meglio cambiare logo alla Kuga. Visto il nome, è molto più indicato un bell’angelo della morte incappucciato con tanto di falce. È interessante notare che, nel sito Wikipedia croato della macchina non si faccia menzione del macabro significato della parola, mentre in quello in inglese, dicono testualmente “Kuga significa peste in serbo-croato e sloveno. Le vendite in tali regioni risultano inferiori a causa dell’infelice scelta del nome”.

Chissà se un destino simile lo ha subito la VW Jetta in Italia negli Anni ‘80. Magari quando ne passava un esemplare la gente faceva le corna o altri gesti scaramantici.

La Mitsubishi ha fatto una serie di autogol con il suo SUV Pajero. Si fa già confusione su come vada pronunciato il nome (paiero?pagero?pahero?), senza contare che in spagnolo la parola si usa come termine derogatorio per uno che si…autoappaga. Perciò in Spagna e in quasi tutta l’America Latina la macchina è stata ribattezzata Montero. Anche se, secondo me, non si è andati troppo lontano neanche con il secondo nome (metteteci un accento finale…).

Neanche la Fiat è passata indenne sul terreno minato dei nomi per le auto. In Brasile la Ritmo ha dovuto esser ribattezzata Strada in quanto in quel Paese il nome originale è usato per indicare il ciclo mestruale, il che ne fa la macchina ideale per “quei giorni”.

La Estée Lauder ha fatto un passo falso in Germania con il suo profumo Country Mist, che tradotto significa “nebbiolina di campagna”, per dare l’idea della freschezza dei campi. Purtroppo “mist” in tedesco significa letame. Quanto può vendere un profumo che si chiama letame? Anche se il letame è di campagna, quindi biologico e DOC.

Molto, molto peggio, per quanto riguarda l’italiano, il nome dell’applicazione della Microsoft lanciata nel 2013. Un team svedese aveva sviluppato un sistema di calcolo basato sul riconoscimento della scrittura manuale che permetteva di fare operazioni matematiche semplicemente scrivendo sullo schermo con l’apposito pennino. L’applicazione sarebbe stata anche utile, se coloro che l’hanno sviluppata non avessero deciso di chiamarla con una combinazione delle parole “inchiostro” e “calcolo”, in inglese “ink”e “calculator”. Per cui le prime tre lettere + le ultime sei = fate voi la somma! Sembra che in seguito l’applicazione sia stata ribattezzata Kanakku.

Visto che si parla di svedesi, è quasi obbligatorio menzionare la scelta controcorrente dell’Ikea che nomina tutti i suoi prodotti nella propria lingua e poi li manda nel mondo. Con alcuni prodotti a farci le spese è stato l’inglese in quanto un tavolino da lavoro per bambini è stato chiamato “Fartfull”, cioè “pieno di puzzette” mentre il copripiumino a pois “Stenklöver” sembra significare “amante puzzolente”.

Ikea a parte, tale è la preponderanza dell’inglese nell’economia globalizzata, che anche le altre nazioni battezzano i loro prodotti con nomi dal suono anglicizzante. Sempre con risultati interessanti. Un produttore di caffè spagnolo (assorbito dalla Nestlé) ha chiamato il suo prodotto Bonka, senza considerare che in inglese “to bonk” significa “dare un colpetto” e non nel senso di toc toc! (Certo che dopo, un caffè ci sta bene…). Tenete presente che la Spagna è piena di inglesi che l’hanno eletta il Paese ideale in cui andare in pensione. Chissà se questo provocante caffè è riuscito a scalzare il loro atavico amore per il tè.

Sempre in Spagna c’è un detersivo che si chiama Colon e una gomma da masticare molto popolare anche a livello internazionale è chiamata Camel’s Balls, mentre in Ghana c’è una bibita chiamata Pee Cola (Cola Pipì) che, se non altro, riassume già nel nome l’effetto che farà a livello fisiologico. Per continuare a bere, da provare l’acqua peruviana Sogay (soo gay!) e la birra macedone Vergina.

Mi sembra strano che, quando nel gennaio 2010 la Apple lanciò l’IPad, nessuno avesse commentato la strana scelta del nome, in quanto pad – accorciativo di sanitary pad – vuol dire assorbente (sia per il flusso che per le “piccole perdite” di altro tipo). Chissà, forse il fascino carismatico di Steve Jobs era tale da obliterare anche la più piccola osservazione ai suoi prodotti.

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