INSEGNANDO S’IMPARA Domande assurde e risposte intelligenti

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INSEGNANDO S’IMPARA Domande assurde e risposte intelligenti
Foto Roni Brmalj

Vorrei dedicare questo bozzetto al modo di pensare non scontato, alle domande che possono sembrare strampalate ma portano a soluzioni inaspettate e al ragionare fuori dai normali schemi mentali.

Quest’ultima caratteristica riguarda soprattutto i bambini che a volte spiazzano con domande che seguono una logica che gli adulti non comprendono. Un giorno all’epoca dell’università avevo chiesto a mia madre di portarmi fino a Capodistria, intenzionata a proseguire per Trieste in autostop. Erano i tempi in cui quel segmento di strada era ancora una semplice striscia d’asfalto a due corsie e si poteva tranquillamente alzare il pollice per assicurarsi un passaggio. In macchina con noi fino a Capodistria c’era il figlio dei vicini di cinque anni che ascoltava i nostri discorsi e, incuriosito dalla nuova parola, chiese “Dov’è l’autostop?”. Come si fa a spiegare a un bambino che, innanzitutto la domanda è “Cos’è l’autostop?” e poi che l’autostop non sta in un posto particolare, ma che può svolgersi in qualsiasi punto della strada. Ma lui non capiva e continuava a chiedere dove “stava” perché lui lo voleva “vedere”. Beata innocenza. D’altronde vedere per credere è importante per i piccoli che spesso chiedono “Perché non posso vedere i miei occhi?”. Vagli a spiegare anche questo!

Domande e risposte apparentemente strampalate possono nascere a tutti i livelli di intelligenza e preparazione scolastica. Già in precedenza ho menzionato la professoressa Daniela Lucangeli, psicologa e docente all’Università di Padova, quindi una persona che si muove a proprio agio nelle sfere accademiche internazionali, che ne conosce il linguaggio e le modalità di funzionamento. Eppure deve aver conservato un poco della meraviglia delle domande dell’infanzia, in quanto, ci racconta che per anni è andata in giro a chiedere “Perché la pelle conserva le cicatrici”, che posta in questi termini è quasi ingenua rispetto alle tematiche che vengono trattate in quegli ambienti. Per chiarire quello che vuole dire, spiega che la pelle è uno dei nostri tessuti che si rigenera più velocemente, che in un solo mese si rinnova completamente, per cui non ci sarebbe bisogno che un taglio, una ferita lasciasse dietro di sé un segno permanente. E questo è particolarmente rilevante per le ferite dell’infanzia che vengono subite nel momento di massima plasticità della pelle e che dovrebbero sparire senza lasciare traccia. E invece ce le abbiamo, come mai? Ebbene dopo anni che la domanda echeggiava nel vuoto, adesso i nuovi studi sui circuiti del dolore e sulla memoria cellulare epigenetica confermano l’iscrizione della memoria del trauma all’interno della cicatrice. Praticamente si sta dimostrando che la totalità del nostro organismo prende nota a livello cellulare della nostra storia di “errori” e iscrive nelle cicatrici il monito a non ripeterli più. L’argomento è affascinante e dimostra che vale veramente la pena di insistere su questioni che sembrano semplicistiche per approdare ad argomenti scientifici solidi e appurabili.

Parlando di università, a giurisprudenza, un mio amico si è sentito chiedere “Di chi sono i pesci?” che non è una domanda che ci si aspetta all’esame di diritto. A tutta prima la domanda impostata in questi termini può prendere alla sprovvista, ma se ci pensiamo è estremamente stimolante e mette in moto il cervello mandandolo ad esplorare tutte le istanze in cui esistono i pesci, e a pescare, è il caso di dirlo, le normative che regolano ogni singola istanza. In inglese la si definisce una situazione win-win, da cui tutti escono vincitori. Lo studente perché ha riorganizzato il proprio sapere su due piedi dando prova della sua competenza e del suo modo di elaborare la questione. Il professore perché con la sua domanda ha dimostrato di avere fantasia e ha ricavato più indicatori per misurare il livello di preparazione dello studente. Evviva questi professori, non come quelli che si limitano ad aprire il librone del codice a caso, cominciano a leggere un articolo e si aspettano che lo studente prosegua papale papale con il resto del testo sulla pagina. In quegli anni a Trieste succedeva anche questo.

L’ultima storia arriva dai tempi della scuola per gentile concessione del nostro storico insegnante di matematica, che con grande effetto ci aveva descritto una situazione disperata: una nave in mare aperto in rotta di collisione con una mina che al contatto la farà esplodere. Bisogna trovare urgentemente una soluzione. Tutto l’equipaggio, dai mozzi agli ufficiali, è riunito sul ponte e si sta spremendo le meningi su cosa fare per uscire vivi dalla situazione. Purtroppo ogni proposta viene scartata in quanto prevede il contatto di un oggetto con la mina con le conseguenze che si possono immaginare. Si sta già ipotizzando ad un sacrificio umano, un “volontario” che si immoli per salvare i compagni, quando il marinaio più tonto chiede “Perché non mettiamo tutti gli uomini in fila a fare la pipì sulla mina per tenerla lontana?”. Al che tutti si voltano a guardarlo sbigottiti, non perché ha detto una colossale castroneria, ma perché ha trovato la soluzione: l’acqua! È sufficiente un idrante con un getto abbastanza potente da sviare l’ordigno, ed è fatta. Aveva ragione il biochimico ungherese Albert Szent-Györgyi quando disse che “le scoperte consistono nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato”. E per quanto riguarda il marinaio in questione, eroi non si nasce, si diventa anche grazie ad una battuta scema.

Evidentemente è vero quello che dicevano gli antichi e cioè che non esistono domande stupide. A volte è solo questione di tempo prima di trovare la risposta, altre volte il trucco sta nell’impostare diversamente la domanda. Ma il punto centrale è che le domande sono importanti o, come disse il duca di Lévis “l’ingegno di un uomo si giudica meglio dalle sue domande che dalle sue risposte”.

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