Il «fare» rimane la priorità

Mente scimmia o elogio alla pigrizia? Calma, ragioniamo forse c'è la terza via

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Il «fare» rimane la priorità

Secondo l’antico pensiero orientale, buddhista cinese in particolare, l’essere umano è spesso paragonabile a una scimmia irrequieta, in continuo movimento da un ramo all’altro, che si ferma in uno stesso posto solo per pochi istanti. In sostanza la sua dimensione abituale è il caos, pertanto pericolosa, per sé e per gli altri.
La similitudine sembra essere oggi più attuale che mai, quando le nevrosi umane si espandono a livello mondiale, ancora più europeo e parossisticamente italiano. L’isterismo mondiale per l’arma atomica anziché quella diplomatica, il balletto di Ursula von der Leyen per conciliare la sua appartenenza tedesca con l’alto ruolo istituzionale di presidente della Commissione europea, i fisiologici pruriti italiani post elettorali per affermare il primato ideologico dell’una sull’altra parte e viceversa (ignorando le vere emergenze dei cittadini) attualizzano il pensiero zoo-antropologico non per nobilitarlo, ma per far regredire di qualche millennio la capacità analitica della mente umana; sembra quasi ci sia un bisogno compulsivo di saltare da un tema all’altro (dalla pandemia alla guerra, dalla stabilità all’inflazione, dalla crescita alla stagnazione) perdendo interesse per circoscrivere una determinata situazione lanciandosi a tutti i costi in una tensione diversa.
Nella scimmia un comportamento del genere può essere definito naturale, fermo restando che anche le scimmie hanno bisogno talora di godersi del meritato riposo e di fermarsi ad apprezzare un sano momento di ozio creativo; meno naturale sarebbe (il condizionale è d’obbligo) per la mente umana, talché la filosofia buddhista suggerisce che la causa dell’infelicità dell’uomo è da attribuirsi al caos simil scimmiesco, un eccesso che alimenta alternanza di certezze e dubbi esistenziali in un loop ad alta frequenza.
L’overthinking
I sociologi più affermati definiscono il fenomeno con l’ennesimo neologismo anglosassone, l’overthinking, ovvero il pensare troppo, rimestare le stesse cose senza arrivare a una conclusione razionale, sia riguardo al lavoro, sia alle sfere affettive, sia alla vita sociale. Pur non condividendone in toto il pensiero, troviamo interessante a tale proposito la definizione di Ivan Petruzzi, “la mente è un ausilio prezioso, ma terribilmente ingombrante”, come espresso nel suo brillante lavoro dal titolo icastico “La cattiva abitudine di essere infelici”.
Peraltro, se a incentivare la mente scimmia ci pensa la lobby delle armi, o il cartello finanziario assicurativo europeo o il legislatore italiano in materia fiscal-burocratica, ci ritroviamo costantemente esausti, né il riposo ci impedisce di essere irrequieti, il pensiero resta “ingombrante” e il sonno, paradossalmente, è un momento logorante, di sofferenza; in sintesi, l’overthinking non ci rende più intelligenti.
Meglio l’autarchia?
Quanto sopra non autorizza i teorici della “decrescita felice” a esultare: la condivisione di autarchia e povertà hanno storicamente causato lutti e guerre civili; al di là delle cause, la decrescita dei consumi energetici è in questa fase una necessità contingente, mentre sappiamo che l’aumento dei consumi è direttamente proporzionale alla diffusione della ricchezza. Non a caso anche un autarchico ante litteram come Guglielmo di Occam (filosofo del Trecento, teorico del famoso rasoio) scriveva che “è inutile fare con più ciò che si può fare con meno”, ergo il “fare” rimane comunque la priorità, il non fare è dei pigri accidiosi, il progresso tecnologico ha bisogno del comportamento proattivo degli utenti.
Pertanto, se oggi produciamo in proprio solo l’8 p.c. del petrolio e il 10 p.c. del gas che consumiamo, dobbiamo trovare il modo di sostituire quel 92 p.c. del greggio e quel 90 p.c. del gas che importiamo dall’estero pensando e lavorando nella direzione più opportuna, quella della razionalità e non delle nevrosi, degli isterismi e della sopraffazione dell’uno sull’altro, affermando il primato ideologico delle proprie idee. Stante l’impossibilità di eliminare i combustibili fossili, ergo l’impossibilità di diventare de plano energeticamente autonomi, dobbiamo programmare lucidamente il fabbisogno di agricoltura, industria, servizi e residenziale nelle rispettive esigenze e, con un programma specifico dedicato, ottimizzare i consumi energetici del comparto trasporti. Il tutto con l’occhio attento al grande tema occupazionale e alla sostenibilità della spesa sociale.
Historia magistra vitae: il 26 febbraio 1815 Napoleone evade dall’Elba e organizza precipitosamente una nuova campagna militare, conclusasi a Waterloo il successivo 18 giugno 1815. Troppa ansiosa frenesia?
L’esempio in agricoltura
Diversamente da altri Paesi, l’Italia deve quindi prendere atto che oggi più che mai l’energia non è un male incurabile, l’industria non è un nemico da combattere e l’agricoltura non è un semplice orto dietro casa, ma la risposta produttiva alla crescente domanda di cibo. Se il neoliberismo ci produce nevrosi da mente scimmia e l’alternativa è l’oleografia bucolica, Dio ce ne scampi; il nostro obiettivo deve essere incentivare il consumo di alimenti provenienti dalla “filiera corta”, razionalizzare (e moralizzare) l’attività degli intermediari commerciali e promuovere corrette distanze fra aree di produzione, trasformazione e commercializzazione: tra il chilometro zero e la globalizzazione selvaggia devono esistere i chilometri utili.
Non dimentichiamo che l’Italia dal punto di vista alimentare non è autosufficiente: produciamo solo il 65 p.c. del grano duro necessario al fabbisogno nazionale (il resto ovviamente lo importiamo), così come importiamo rilevanti quantitativi di legumi, latte e carni bovine. Ciò rende incomprensibile la strenua battaglia dei teoreti accidiosi contro gli organismi geneticamente modificati, riassunti nell’ormai famigerato acronimo OGM. Secondo questi orgogliosi pantofolai dell’orto casalingo, gli Ogm non solo non devono essere utilizzati, ma neppure studiati, manifestando il più irrazionale rifiuto di un possibile (probabile, certo?) aiuto alle colture biologiche. Non vogliono approfondire, che la promozione e incentivazione della produzione di proteine vegetali può limitare l’utilizzo di mangimi arricchiti con farine animali, ma senza irrobustire la semina con fonti proteiche vegetali realizzate grazie alle nuove tecnologie biochimiche, le verdure saranno di pessima qualità e costose come un Rolex.
Pertanto, se da un lato la mente scimmia ha nevroticamente voluto le colture e gli allevamenti intensivi con le ben note conseguenze sociali, di territorio e salutistiche, de l’autre coté i teoreti dell’indolenza vogliono inibire la ricerca scientifica e l’evoluzione della tecnologia, che da sempre contribuiscono a migliorare la qualità della vita.
Meglio prescrivere tout court alcuni giorni la settimana di dieta vegana nelle mense scolastiche, o è preferibile studiare il più equilibrato regime alimentare per l’adolescenza? Deve essere previsto un generico “accesso alla terra” agli anziani e ai soggetti deboli della società, o è preferibile adeguare il loro utile apporto ad integrazione dell’operatività agro industriale? Ci risulta che il lavoro dei campi, senza automazione, sia piuttosto faticoso.
Per cui…
Se silenziare la mente è un modo per guardare più profondamente dentro di noi, vivere in uno stato di lentezza significa narcotizzare l’evoluzione e la sete di conoscenza; allontanarci dalla condizione “scimmia” deve riavvicinarci a quello di esseri umani, non di bradipi. Assumere lo status di libertà di pensiero significa semplicemente poter scegliere i propri pensieri in modo autonomo, dinamicamente distante dal caos della scimmia irrequieta. Privilegiamo quindi il risveglio della nostra mente quale risveglio di spirito e corpo, e non quale elogio della pigrizia. E non solo in economia e in geopolitica.
Ad majora!

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