La storia tra fiction e metamorfosi politiche un «colpo d’ala» per la letteratura

RECENSIONE Una vita in secca (Oltre Edizioni, 2019) di Aljoša Curavić

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La storia tra fiction e metamorfosi politiche un «colpo d’ala» per la letteratura

In prima pagina alcuni versi di T. S. Eliot tratti da Waste Land (“Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato nel tuo Giardino,/ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?”), che il poeta canta attraverso la voce profetica di Tiresia, pongono al centro il corpo politico in estinzione, il processo di corruzione del corpo morto, come metafora di una città irreale, guasta, desertica, dove gli uomini si muovono come dannati e i cadaveri in giardino non germogliano più. La poesia non può più consolare né elevare là dove nulla è eroico e dove il mito s’è svuotato. Ma già fin dalla copertina intristita da un albero dai rami contorti e stecchiti, Una vita in secca, ultimo romanzo di Aljoša Curavić, non promette bene, lascia intuire una strada grama.
Viviamo in una prima società che non permette la reductio ad unum, e non c’è più un discorso che sussuma in un orizzonte di senso tutto ciò che accade, e non c’è più uno spazio fuori dal multiverso in cui viviamo, che è un sistema ad alta complessità, fatto di discorsi, immagini, media differenti, soggetti che articolano le proprie narrazioni. La vita è molto complessa e l’autore la rappresenta adottando il genere meticcio del racconto letterario intrecciato con l’indagine giornalistica e la ricerca storico-documentaristica, per una coralità di vicende diverse nel loro collegarsi e sovrapporsi nella compressione spazio-temporale di un’area di confine ex veneziana, ex austriaca, ex italiana, ex jugoslava, sottoposta alla dinamica di annientamento del Vecchio e alla nascita stentata del Nuovo, a ridosso di una frontiera che spaccava il mondo in due.
Una trama intricatissima
Ne nasce un arcipelago narrativo, dalla natura rapsodica e frantumata e dalla trama intricatissima. Già mettere insieme i membri della famiglia del pittore Dragan sceso dal nord-est è impresa non facile; o seguire il tragitto del bus della Linea n. 2; o il comportamento del giornalista bicefalo Marij Anton Krogla/Mario Antonio della Boccia, scaltro nel destreggiarsi tra ideologia comunista e nazione-madre; o seguire le improvvise apparizioni del misterioso uomo canuto e togato (evocante il Sebastiano martire, infilzato da una miriade di frecce o il podestà Sebastiano Contarini?), finto suicida ma omicida di Mario; o la storia della Torre rossa con orologio, come primo furto fatto al paesaggio; o la riflessione sul doppio e sull’identità che unitamente a Mario/Marij interessa tutta quanta la CNI; o la vita del diabetologo veneziano di origini istriane Davide Santin, del suo affrontare la medicina con spirito filosofico, delle sue amicizie americane, dei suoi amori e della sua missione in Africa con ‘Medici senza frontiere’, spariti senza lasciar traccia in un deserto africano in seguito a un incidente aereo; o la presenza di donnine dell’est che si propongono con calda generosità; o gli avvenimenti relativi ai ladri esportatori di opere d’arte già “trafugate”; o l’intrecciarsi di incontri e ‘cenacoli’ dei maggiorenti e degli sponsor per la candidatura di Kaštel/Castello a Capitale europea della Cultura; o gli orli sfumati del sogno di Davide nel castelletto, che trasudano malessere e oscure premonizioni, ecc. ecc. ecc.
Smascherare con ironia
L’ironia aiuta a smascherare le imposture indagate con dovizie di particolari, svela la corruzione nella pubblica amministrazione, schernisce ministri, preti e nuovi governanti, la loro vacuità, i loro progetti megagalattici, il loro sfrenato arrivismo, la corruzione, la brama di potere e soldi, utilizzando i principali mezzi di comunicazione di massa mediatici. Secondo il ragionamento logico di chi governa i territori, i potenti di turno viaggiano spediti e dritti come un treno nei loro piani di riforma che riguardano la sparizione dell’antica via che collegava la città al monte San Marco, il prosciugamento e la bonifica di bacini acquitrinosi e palustri con potenti colate di cemento, la costruzione della costa operativa e del porto commerciale, l’ampliamento di strade, la costruzione di binari e raccordi, la nascita della circonvallazione. Sullo sfondo di Castello, poi Castello/Kaštel, poi ancora, come conviene, Kaštel/Castello, tanto concreto per Capodistria quanto simbolico per tante altre cittadine istriane, si registra un cambiamento in atto, una topografia coatta caratterizzata da prepotenze mutilanti, una trasformazione che riduce in polvere la storia e pone tutto un mondo sotto l’onda d’urto di una potente metamorfosi che fa perdere al luogo il genius loci. Pezzi del vecchio assetto urbanistico, sedimentati nelle vene della città, formano insieme alle nuove strutture l’odierno tableau, nato dall’imperfetta e dolorosa saldatura tra vecchie e nuove dinamiche politiche, economiche, finanziarie, sociali e culturali, in cui le relazioni sono ancor sempre assillate da comportamenti del passato che non sembrano esorcizzabili.
La finzione ci salva
L’invenzione pura non esiste. La finzione è necessaria, essa ci salva, noi esseri umani non possiamo vivere senza fiction, perché la realtà è dura, aspra, spesso sgradevole. Curavić impasta insieme realtà e fiction. I suoi personaggi sono costruiti con frammenti di persone reali. Sembrano arrabattarsi nelle secche dell’impossibilità. Rari i grandi sentimenti – salvo quello umanitario in Davide Santin, l’alter ego di Luca Sinicovich – e tante invece le meschinità di individui mediocri, arrivisti, doppiogiochisti, faccendieri da strapazzo, esseri spregevoli e puttanieri.
Il lavoro di un romanziere è quello di farsi domande e gli anni Novanta sono stati terreno fertile per porsi dei dubbi. Nel coacervo di storie, di percorsi, di tracce, si pone la questione di quale sia il tema centrale, di quale sia stata l’ossessione di partenza e quale la Domanda che l’autore si è posto osservando, nella transizione, un mondo che finiva e un altro che non cominciava.
Qual è il dubbio primario?
La Domanda riguardava forse il thriller del trasporto di opere d’arte nel corso della Seconda guerra mondiale dall’Istria a Palazzo Venezia a Roma, per preservarle dalla furia dei combattimenti? Nel libro alcuni quadri “trafugati” e alcuni disegni del Tiepolo spariscono e poi vengono intercettati da loschi e meno loschi figuri. È quello il tema centrale?
La Domanda riguardava forse il confine? È quello il tema centrale? Curavić affonda il suo bisturi nella linea grigia italo-slovena e racconta la difficoltà con cui gli umani portano in giro la propria vita in secca, come per effetto di una drammatica e irreversibile bassa marea, perché è proprio lui – il confine – la stella polare del movimento: frena gli spostamenti e li circoscrive, altera i trasferimenti, obbliga in strettoie linguistiche, emotive e architettoniche. Il confine con la sua natura predatoria sfilaccia e corrompe la dignità delle persone, provoca una scissione dell’esistenza, nega i luoghi della vita, deruba la vita fino a ucciderla, per suicidio o per omicidio. Ha il volto della morte che s’intravede dietro le nuove barriere anti migranti. Perciò il confine era malattia e malattia resta. Inguaribile. E anche quando l’ultimo confine sarà abbattuto fisicamente, resterà malattia inguaribile nella sua invisibilità nelle teste degli uomini.
O forse la Domanda riguarda il rapporto tra il soggetto e il suo doppio, l’ossessione dell’identità, della sua frantumazione, dell’accettazione della metamorfosi, dello sdoppiamento, dell’ibrido, del desiderio di congiungere le parti, del permanere in uno stato di frustrazione o di servilismo volontario oppure sottrarsi, scegliere di andarsene, mollare, abbandonare, fuggire, come ha fatto il padre di Davide. È questo il tema centrale?
Non c’è verità nell’acqua
O forse la Domanda è rivolta all’acqua? Con la sua struttura liquida circolare – per cui la bassa marea dell’inizio coincide con la bassa marea della fine, tanta strada per arrivare al punto di partenza come nel gioco dell’oca. È l’acqua il tema centrale? Viene in mente La lettera rubata di E. A. Poe. Il modo migliore per nasconderla è quello di metterla in bella mostra là dove nessuno andrebbe a cercarla, cioè sul tavolo. Per cui la perquisizione della polizia che cerca la lettera rubata non dà alcun risultato, perché viene cercata nei luoghi più nascosti e alla fine si ritrova dove nessuno era andato a cercarla: in bella mostra sul tavolo. Questa è l’operazione fatta da Curavić: ha posto la sua “lettera rubata” in mezzo a tantissime altre narrazioni. In mezzo, sotto, sopra, ed è sempre e solo l’acqua. L’onnipresente, l’onnipervasiva acqua, sulla quale galleggiano tutte le narrazioni.
Non c’è un punto di verità nell’acqua. Acqua stagnante, paludosa che avviluppa, che ingurgita tutto, che lega, che impedisce il cambiamento. Che le sue vittime si trovino a New Orleans, sotto la pioggia notturna omicida e muoiano di sete durante l’uragano Katrina, disidratati dalla siccità piena d’acqua, o si trovino lungo la costa slovena vittime di incidenti vari, o sia un mare diventato obitorio a cielo aperto, o sia quell’acqua sollecitata dal poeta Gregorčić a straripare per affogare le orde di stranieri, o che appartenga alla memoria incistata nell’infanzia di Davide, poi diventato adulto di fronte alla laguna di Venezia – c’è sempre un gorgo d’angoscia che governa l’eterno respiro del mare che bagna tanto Castello quanto Venezia o (dal mare) la poco lontana New Orleans.
Proteggere la vita con scetticismo
È forse il mare in ritirata il protagonista di questa vita in secca? O esso è soltanto lo sfondo su cui si muove e avviene qualcos’altro? Quel qualcos’altro che si chiama stile. Ed è questo “qualcos’altro” a creare e trasmettere senso. Abbandonata in maniera radicale (e Curavić in larga parte lo ha fatto già nella produzione letteraria precedente) la narrazione tradizionale novecentesca storicista, messianica, ottimista, marxiana, pedagogica e moralista, le cui opere svelano l’esperienza terribile del Novecento, mostrando come le innumerevoli catastrofi siano state prodotte da visioni positive e ottimistiche, da ideologie e da progetti che hanno messo in gioco “tutto” pur di mirare alla propria realizzazione, abbandonate insomma le filosofie del Progresso e le utopie dell’Uomo nuovo, nel cui ottimismo covava un potenziale distruttivo inimmaginabile, forse lo scetticismo e l’ironia di Curavić tendono a proteggere meglio la vita, a salvarne meglio i fondamenti. Del resto, il compito dello scrittore è proprio quello di disturbare e inquietare le coscienze e non di tranquillizzarle. Aljoša Curavić non è uno che dice cosa è bene e cosa è male: insegna a utilizzare la luce della ragione. È facilmente condivisibile il suo dubbio che sarà molto difficile rendere trasformabile questo presente in secca che si presenta come un destino ineluttabile, destinato a permanere eternamente su tutto il giro d’orizzonte. Il mondo non può essere trasformato ma ci si può adattare a esso come unico mondo possibile, dimenticando le promesse redentive del passato e cercando almeno delle chances individuali emancipative rispondenti ai tempi e alle mode.
«Montaggio» filmico
Balza agli occhi il “montaggio” filmico del libro: le inquadrature, la divisione in tre tempi con un epilogo e un’uscita d’emergenza, ogni tempo spezzettato in capitoletti simili ai fotogrammi di una sequenza che a volte gira a nastro riciclando se stessa (il leitmotiv del torsolo della mela lasciato sul bancone della pasticceria albanese, o il taccuino inseparabile nel quale Mario registra ogni muoversi di foglia, ecc.), tagli discontinui che sovvertono l’ordine cronologico della narrazione e rendono difficile seguire il filo della storia. In questa poetica del frammento i tasselli assumono un senso sia da soli (la razza canina, l’Indice dei libri proibiti, il nematonotus spinosus, il branzino in crosta di sale cotto in forno, la filosofia del “quasi”, i versi di Mohamed Ali Babà sul retro degli annunci mortuari, la dispersione delle ceneri o l’affidamento del corpo alla terra, ecc.) – tanto che possiamo tranquillamente saltare un paragrafo senza sentire la narrazione incompleta – oppure leggerli insieme al tutto, trovando un senso più ampio in virtù della matrice aperta e polifonica del libro che si presenta come un involucro atto ad includere la poliedricità dell’esperienza, la pienezza della vita. A prescindere dall’influenza cinematografica, Curavić usa tecniche stilistiche peculiari quali l’ambiguità, i paradossi, l’iperbole, l’indeterminatezza, lo spaesamento, gli angoli morti, i punti ciechi, forti suggestioni e digressioni storiche, filosofiche, gastronomiche, linguistiche, letterarie. Fra una storia e l’altra si possono degustare pagine piene di poesia, dove l’anima della natura penetra nella psiche dei personaggi come se ci fosse davvero un’armonia nella creazione.
E poi c’è l’ironia. Sicuramente l’ironia non aiuta a risolvere i problemi, ma è una dichiarazione di dignità, è l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che di brutto gli capita nella vita. L’ironia arriva circolarmente un po’ dappertutto, penetra le zone grigie, permette di guardare il mondo da un’altra angolazione, è il contravveleno alle ipocrisie sociali e alle idee precostituite.
La forma guida la ricerca
Ritengo che le operazioni metaletterarie siano coraggiose e significative tanto quanto i contenuti letterari. Ritengo che la risposta alla Domanda e alle ossessioni dell’autore venga data dal libro tutto intero, dal suo insieme, dalla forma che si è fatta contenuto. Il vero contenuto del libro è la forma della narrazione. Dalla prima all’ultima pagina è la forma che guida la ricerca. Come a dire che qui lo stile non è fine a se stesso ma portatore di senso tanto quanto i contenuti. Alla fine la risposta è che non c’è risposta alla Domanda, ossia la risposta è il libro, cioè l’intera ricerca. Ma non è una risposta chiara tassativa univoca, bensì è una risposta ambigua, equivoca, poliedrica, ironica, cioè la stessa Domanda è la risposta. Nella frammentazione, nella molteplicità dei temi non c’è un punto di verità. Se lo deve creare il lettore stesso dal confronto con i tanti punti di vista.
Naturalmente il giudizio che qui avanzo è una delle possibili mappe di lettura di un testo narrativo complesso e multiforme, che rimane aperto a molteplici interpretazioni.
La nostra editoria sta attraversando un periodo di grave depressione. E, per riflesso, le nostre scritture sembrano aver perso molta della loro vivacità. È cambiata profondamente la comunità italiana nella sua composizione, nei suoi modi di lavoro e di vita, nei suoi bisogni e rapporti con la realtà e l’immaginario, nei suoi sistemi di comunicazione, in cui alla scrittura/letteratura sembra riservato uno spazio sempre più marginale e irrilevante. Il colpo d’ala che le ha impresso “Una vita in secca” potrebbe produrre un effetto di rilancio, potrebbe suscitare il gusto dell’innovazione. Inutile la letteratura? Inutile ma necessaria. Può anche cambiare il mondo e farlo uscire dalle secche se – leggendo – cambia la percezione che il lettore ha del mondo. Quindi: leggere Curavić!

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