La lotta per ingabbiare le identità «fluttuanti»

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La lotta per ingabbiare le identità «fluttuanti»

L’esodo e le sue molle scatenanti tendono a rappresentare la fase finale di un acceso confronto nazionale sviluppatosi sulla costa orientale adriatica a partire dalla prima metà dell’Ottocento, ovvero da quando ha avuto inizio il risveglio etnico globale in Europa. Sono diverse le circostanze e le motivazioni storiche e politiche che hanno spinto sulla via dell’esodo buona parte della popolazione di tante località dell’Alto Adriatico e della Dalmazia. Le partenze massicce sono state anche un punto di rottura, un modo per marcare la differenza nazionale per quanto frutto di radici plurime, nelle zone dove la complessità etnica del territorio era particolarmente marcata e dove la libertà di scelta era venuta a mancare. Di esodi i territori adriatici ne hanno conosciuti diversi: alla base, oltre alle situazioni politiche, vi sono stati tentativi di uniformare concetti quali Stato, nazione, etnia, lingua, ovvero di “semplificare” il territorio.

Questi tentativi di “semplificazione” non hanno risparmiato nessun ambito territoriale. Le situazioni complesse di frontiera, infatti, non le troviamo soltanto nei grandi centri urbani dalmati o nei centri maggiori dell’Istria interna o delle isole. Anche in centri minori, piccolissimi, ma con una parvenza di vita urbana, ritroviamo situazioni in cui la frontiera, unita allo spirito campanilistico e municipale, dà vita a relazioni etniche particolari. Non bisogna, quindi, pensare che questa situazione riguardasse soltanto singole realtà dalmate. Esempi del genere li troviamo anche nell’Alto Adriatico. Riguardo alla questione dell’identità nazionale in Istria sono interessanti le osservazioni dello storico Vanni D’Alessio, a proposito delle scelte di appartenenza nazionale degli abitanti di Pisino nell’ultimo periodo asburgico. D’Alessio mette in luce come “accanto alle élite italiana e croata, per le quali l’appartenenza nazionale era l’elemento fondante di alterità sostanzialmente politiche e la cui scelta nazionale era chiara e univoca, esisteva una grande massa di persone, non così chiaramente definite nazionalmente e che si spostavano da un campo nazionale all’altro in base a convenienze personali (in primo luogo economiche). La struttura molto articolata di organizzazioni di tutti i tipi, creata da entrambe le fazioni nazionali, aveva la sua ragione d’essere proprio nella necessità delle due élite di attrarre questi soggetti ‘fluttuanti’ nel proprio campo nazionale. E l’appartenenza a una di tali organizzazioni significava anche una pubblica ammissione di appartenenza a una data nazionalità”.

Identità urbane

Ed è lì che gli storiografi di scuola nazionale trovano pane per i loro denti, per far valere le loro tesi. Anche perché quella complessità che investe la minoranza italiana, i rimasti, investe pure gli esuli. Così Sandi Volk nel suo libro ’Esuli a Trieste’ si richiama alle dichiarazioni di appartenenza nazionale italiana dei profughi di Grisignana, contraddette, secondo lui, da altri passaggi delle loro stesse testimonianze. I profughi di Grisignana danno l’impressione “che la loro italianità fosse più di natura sociale che non linguistica o culturale. Essi si riconoscevano nella comunità ‘cittadina’ di Grisignana, in realtà un centro agricolo un po’ più grande degli altri, che poteva però vantare il ruolo di centro amministrativo del più ampio circondario. Nonostante che molti in casa parlassero lo stesso ‘dialetto slavo’ e vivessero nelle stesse durissime condizioni di vita degli abitanti dei villaggi circostanti, i grisignanesi sembrano tenere molto al loro status di ‘cittadini’ e denotano quasi un atteggiamento sprezzante e a tratti ostile nei confronti degli abitanti del ‘contado’, Malgrado l’appartenenza alla ‘città’ e la pretesa ‘italianità’, la cultura italiana ‘alta’ (ma probabilmente anche quella meno alta) era loro estranea e limitata a quanto appreso alla scuola elementare (che non molti avevano frequentato). E tuttavia si consideravano lo stesso ‘cittadini’ e si riconoscevano nei non pochi grandi proprietari terrieri, commercianti, farmacisti e negli altri ‘maggiorenti cittadini’ italiani (e costoro lo erano veramente tanto per cultura che per lingua), dai quali dipendevano quasi completamente per la stessa sopravvivenza. Né va trascurato il fatto che probabilmente la pressione assimilatoria, nelle città e cittadine in cui erano presenti i rappresentanti del potere, era molto più forte che altrove. L’italianità era in sostanza inestricabilmente legata all’appartenenza ai ceti dominanti o almeno elevati (indifferentemente se si trattava di una condizione sociale effettiva o solo consolatoria, o se il raggiungimento di una posizione più elevata nella scala sociale fosse una speranza per l’avvenire, la cui realizzazione però esigeva di far ‘disimparare’ alle generazioni più giovani la lingua della comunità d’origine socialmente sottomessa”.

Spinte fortissime

Partendo da simili presupposti e da simili idee che non possono essere ricondotte solamente a Sandi Volk, ma sono parte di un modo di vedere più ampio, è chiaro che, se non vi fosse stato l’esodo che ha svuotato in buona parte questi paesini la pressione assimilatoria per spingere i singoli a ritornare alla presunta etnia di partenza, per “semplificare” il quadro etnico sarebbe stata fortissima e la scuola avrebbe avuto un ruolo decisivo in questo contesto. L’esodo qui si è rivelato pure un modo per spingere, in un momento storico convulso, a una scelta di campo netta, senza ritorno. L’alternativa sarebbe stata una battaglia continua sull’esempio di quella illustrata da Grga Novak, con l’aggravante dovuta al fatto che a coloro che avessero scelto l’italiano sarebbero state magari appiccicate etichette ideologiche negative. Come del resto avvenuto spesso e volentieri con i rimasti.
Sandi Volk, richiamandosi sempre alle dichiarazioni d’italianità dei profughi di Grisignana, invita, dunque, a prenderle “con maggiore prudenza. Anche perché a contraddirle ci sono altri passaggi delle loro stesso testimonianze: come quelli in cui dichiarano che i loro genitori, quando non loro stessi, conoscevano e parlavano il ‘dialetto slavo’. E qui Volk osserva che “tra la popolazione dell’Istria, soprattutto nei suoi strati inferiori, e pure tra i profughi, era ed è molto diffuso il bilinguismo, che è spesso soprattutto un bi-dialettismo, cioè la conoscenza e l’uso (a volte nel corso della stessa frase) tanto del dialetto italiano che di quello croato (e/o sloveno) dell’Istria”.
Che ci fossero e che ci siano casi del genere e che anzi a volte (e oggigiorno spessissimo) questo faccia parte della regola non lo si può affatto negare. Il punto è un altro: è questa una ragione sufficiente per “imporre” un ritorno alla presunta nazione di appartenenza iniziale? Si può ragionevolmente supporre che, in assenza di una rottura brusca come quella dell’esodo che ha ridotto numericamente la componente italiana, le pressioni in tal senso sarebbero state moderate? Non è che per l’appartenenza a una comunità, quella italiana, si pongano così paletti rigidissimi, tra cui l’esclusiva conoscenza di una sola lingua o di un solo dialetto, giammai da mescolare con altro nell’ambito di una frase? Purezze simili sono inimmaginabili in un’area di confine e possono produrre soltanto situazioni di esasperazione. Nella lettera al Piccolo intitolata Esodo “volontario” e propaganda politica, Marco Coslovich rileva che ”con l’arrivo della liberazione le speranze di molti furono umiliate e violate da ex alleati diventati vendicatori ottusi e nazionalisti esasperati”.

Coslovich afferma di ritenersi un figlio dell’antifascismo a tutto tondo, ma anche un esule a denominazione controllata e ricorda: ”Nel lontano 1924 mio nonno Marco fu minacciato più e più volte dai fascisti di Buie e lui se ne rimase più e più notti sul tetto della casa di Materada ad aspettarli con la doppietta spianata. A casa del nonno si parlava croato e fuori di casa l’italiano: era la cosa più naturale del mondo prima dell’arrivo di quegli ‘scalmanati di fascisti’. Spontaneamente, con la guerra, mio padre e mio zio Rudi, andarono in bosco a guerreggiare contro i tedeschi e fascisti. Mio padre, segnatamente, fece saltare il ponte di Sicciole durante l’avanzata tedesca nell’ottobre 1943, e intraprese diverse altre iniziative guerresche, della quali vado assolutamente fiero”.
Ma con l’arrivo della liberazione le speranze di molti, tanti italiani, sia di quelli che se ne andarono, ma anche di quelli che rimasero, prosegue Coslovich, “furono umiliate e violate. Gli amici, gli alleati di ieri, in gran parte si trasformarono in vendicatori ottusi, in nazionalisti esasperati, senz’altro in antidemocratici. Sbandieravano una libertà che non c’era, esibirono addirittura un accurato e maniacale rispetto della pluralità linguistica che serviva come foglia di fico per nascondere le sopraffazioni e le vessazioni. Mia sorella Marisa, che non spiaccicava una parola di croato, fu costretta a frequentare la scuola croata e mio padre, senz’ombra di processo e senz’ombra di colpa, fu condannato a tre mesi di lavori forzati. La mia famiglia, nel lontano 5 maggio del 1955, lasciò Cittanova con un dolore immenso. Era stanca di subire umiliazioni, tanto più cocenti in quanto inferte dai liberatori. Abbandonò la casa avita e gli amici e il mare e la campagna che amavano”.

Emigranti, optanti…

Quando si parla di esodi e pulizie etniche in queste terre, va sottolineato, sostiene l’ex Ambasciatore croato a Roma, Drago Kraljević, che essi non sono iniziati dopo la Seconda guerra mondiale, ma molto prima, all’inizio del 20.esimo secolo, prima dell’avvento al potere del fascismo: “I primi esuli e l’inizio della modifica coatta dei cognomi risalgono già al 1919. Allora (e questo era appena l’inizio) vennero modificati oltre 5.000 cognomi slavi”. Kraljević, nel tornare indietro nel tempo si ferma, dunque, al 1919. “Stando all’ultimo censimento della popolazione, effettuato nel 1910 dall’Austria-Ungheria, in Istria vivevano 404.309 abitanti. Già nel 1921 questo numero si era ridotto drasticamente a 343.401. Mussolini nel 1922 aveva lanciato a tutti un eloquente messaggio: “Quando la geografia non può essere armonizzata con i criteri etnici, allora sono le comunità etniche quelle che si devono muovere”. Dieci anni dopo, nel 1931, l’Istra contava 297.526 abitanti, e nel 1936 era scesa a 296.460 abitanti. Cos’era successo nel frattempo? In questo periodo erano dapprima ‘scomparsi’ ovvero erano stati ‘etnicamente ripuliti’ 13.279 cittadini di nazionalità tedesca. Erano pure ‘scomparsi’ circa 3.000 abitanti di nazionalità ceca e ungherese. Dei 168.116 croati ne erano rimasti appena 90.262. Le statistiche dimostrano che non erano stati tutti cacciati, bensì molti si erano ‘volontariamente assimilati’. Dall’altro lato, il numero degli italiani nel territorio dell’Istria era salito da 147.416 (1910) a 199.942 nel 1921”. Questi, sostiene ancora Kraljević, sono tutti fatti che precedono l’esodo dopo la Seconda guerra mondiale. E sono fatti che servono anche a creare differenze “etniche” tra gli esuli in questo caso, in linea con l’approccio di Volk. Qual è stato il numero reale “di emigranti” dai territori dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, si chiede Kraljević, che conclude: “Fino ad oggi non ci sono posizioni univoche in merito. Si menzionano cifre diverse. In queste cifre è assente la struttura etnica degli emigranti. In Croazia per gli emigranti del dopoguerra si usa il termine ‘optanti’ (coloro che hanno usufruito del diritto all’opzione in base al diritto internazionale) e non di profughi (esuli)”. Non è accettabile, conclude infine l’ex Ambasciatore, ”la prassi che in via sostitutiva, al posto della parola ‘optante’ si usi il termine ‘esule’, perché questo sta a significare che tutti gli emigranti, inclusi coloro che sono emigrati volontariamente, sarebbero stati dei “profughi”, il che non corrisponde al vero”. Però, ammette Kraljević, in Italia la parola “optante” per molti cittadini e politici è inaccettabile, e può rivelarsi un’offesa.

Selezione etnica

Sussiste una determinata tendenza delle élite politiche e delle storiografie dominanti nell’Europa sudorientale di effettuare una selezione nell’ambito delle componenti nazionali minoritarie, al fine di renderle quanto più “innocue”. Non sono mancate anche nell’ambito del conflitto degli anni Novanta nell’ex Jugoslavia dichiarazioni dalle quali si poteva evincere che determinate presenze minoritarie fossero tollerabili se ridotte considerevolmente di numero, completamente allineate rispetto allo Stato ed espunte di ogni elemento di disturbo. Tornando alle vicende del secondo dopoguerra, chiaramente le autorità jugoslave volevano dimostrare che la netta maggioranza degli istriani fosse croata ovvero slovena. Questo non significa però che si volesse la cancellazione della minoranza italiana. Si voleva anzi dimostrare che in Jugoslavia esisteva eccome una minoranza italiana che era felice, godeva tutti i privilegi culturali e politici e preferiva vivere in Croazia o Slovenia che in Italia. E perciò le autorità cercavano di creare, soprattutto su una fascia di territorio costiera circoscritta, di dare un’impressione di perfetta uguaglianza tra i croati, ovvero gli sloveni e gli italiani. Inizialmente era presente lo slogan della “fratellanza italo-slava”. Nessuna sistematica assimilazione, anzi tolleranza ampia in alcune zone. Ma una riassimilazione selettiva in altre. E per quest’ultima di certo i pretesti e le “ragioni” non mancavano, vista la complessità etnico-identitaria del territorio. Di fatto la tendenza finiva per essere quella perseguita sempre nelle lotte nazionali di stampo ottocentesco: la chiarezza o semplificazione etnica. Senza però arrivare alle estreme conseguenze della sparizione della componente minoritaria: ragion per cui il processo di “riassimilazione” si è fermato quando c’era il rischio globalmente di arrivare a una situazione senza ritorno, con una componente storica del territorio completamente assimilata.
Lo storico italiano Raoul Pupo conferma che nel secondo dopoguerra “a entrare pesantemente in gioco nella determinazione delle politiche da tenere nei confronti degli italiani, infatti, accanto all’appartenenza di classe, alla militanza ideologica e alla fedeltà istituzionale, era comunque anche la dimensione etnica. Si partiva quindi da una concezione della nazione di stampo etnicista”. Dal momento che una “componente significativa della popolazione italiana della Venezia Giulia risultava in realtà frutto di assimilazione, nei suoi confronti non solo non c’era alcun bisogno di applicare la normative di tutela prevista per gli italiani ma, al contrario, andavano indirizzati specifici provvedimenti volti al ripristino della ‘naturale’ fisionomia etnica, stravolta dagli errori della storia”.

Lo Stato nazione

A prescindere dai tentativi di restituire la purezza nazionale, resta il fatto che la nazione è in primo luogo una delle astrazioni-concrete in cui si realizza l’identità comunitaria. Si tratta di un prodotto storico-sociale, con connotazioni politico-giuridico-economiche. Ma vi intervengono certamente di solito anche fattori “naturali” come il sangue e il suolo, la lingua e le tradizioni culturali… L’accezione di nazione come differenza naturale, di sangue, lingua, cultura, suolo, si presta anche, al rafforzamento della nazione come identità politica reale e quindi, in nome di essa, alla repressione delle nazionalità da essa “naturalmente” differenti. Alla logica dell’identità etnica sviluppata fino alle estreme conseguenze appartiene anche l’idea dello Stato monoetnico, dello Stato etnicamente puro. Uno Stato monoetnico non si è mai visto, ma tale idea è stata prodotta e fatta circolare nel moderno sistema di comunicazione politico-mediatico. Il risultato ne sono stati e ne sono nel mondo gli scontri nazionali, etnici e religiosi, con i conseguenti esodi di quanti si ritrovano ad essere in un determinato momento gli anelli deboli della catena delle nazionalità. L’Adriatico orientale non è stato un’eccezione a questa regola. Gli sforzi omologatori delle singole matrici nazionali hanno avuto come unico risultato l’impoverimento della complessità originaria di questa terra. A volte l’unico modo per sfuggire a questa omologazione, per confermare con orgoglio la propria alterità rispetto al modello che si voleva imporre è stato l’esodo. O magari in alternativa il mimetismo con la “fuga” nelle catacombe, in attesa di tempi più propizi, come ad esempio in Dalmazia. L’unico antidoto agli scenari del passato è l’accettazione delle identità, delle alterità e delle complessità, ma soprattutto della libertà di scelta, senza che nessuno si ritrovi ad essere “marchiato” per averla compiuta.

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