Il Mediterraneo, fucina di popoli e mescolanza di culture da sempre

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Il Mediterraneo, fucina di popoli e mescolanza di culture da sempre

TRIESTE | Abbiamo incontrato Slavatore Settis, archeologo e storico dell’arte, intellettuale di grande spessore e importanza, a Pescara qualche anno, fa dove era stato insignito del Premio Flaiano insieme al nostro Konrad Eisenbchler, professore lussignano a Toronto. Settis-Flaiano-Eisenbichler: un legame emblematico che continua a echeggiare nel presente, in un momento in cui abbiamo bisogno di capire che cosa stia succedendo in questa nostra società, locale e globale, obnubilata dalle emergenze, estranea a sé stessa. Qualche giorno fa Salvatore Settis ha scritto un commento per “Il fatto Quotidiano” dopo un viaggio a Malta, che gli ha offerto altri ricchi spunti di riflessione che vogliamo percorrere insieme, dialogando con l’autore. Il tema è quello delle migrazioni, che ne riassume altri in questo presente che ci restituisce un Mediterraneo della paura e del dolore.
Settis

Professore, davanti a noi quest’immagine storica del Mediterraneo, i graffiti di Malta con le rotte marittime. Cosa c’è di emblematico in questo reperto?

“I graffiti di Malta risalgono a quasi quattromila anni fa, e rappresentano decine di navi che solcano il Mediterraneo. Ci mostrano che il mare non è una barriera, ma una strada di comunicazione. Che le migrazioni sono sempre esistite, e sempre esisteranno. Che dobbiamo, come sempre è stato nella storia, venire a patti coi problemi del nostro tempo, e non rimuoverli dalla coscienza”.

La storia dovrebbe aiutarci a comprendere il presente. Perché non è così?

“Dipende in gran parte dalla progressiva marginalizzazione della conoscenza storica e dello studio della storia nelle scuole. Come se il passato fosse un peso e non una ricchezza. Eppure, nessuno di noi rinuncerebbe a sapere qualcosa della propria infanzia, della propria giovinezza. Per una società, la storia corrisponde a quel che la memoria di sé è per un individuo. Rinunciarvi è un suicidio”.

Per decenni si è parlato di crisi economica, come se l’unico problema fosse la finanza; che cosa ha prodotto a livello di coscienza individuale?

“In primo luogo, un’ossessiva concentrazione sul presente, come se al di fuori di esso non vi fosse nulla. Ma se pensiamo solo a un presente senza passato, chi progetterà il nostro futuro? Lo sguardo corto, miope è diventato una caratteristica frequente nei politici di mestiere, spesso bravissimi a giostrarsi nei tempi brevi ma incapaci di elaborare strategie di lungo periodo. Ma una comunità, un Paese, hanno bisogno di uno sguardo lungo. Anzi, di una lungimiranza bifronte, volta sia al passato che al futuro.

La paura dell’altro, del diverso, è un retaggio antico; perché non si riesce a razionalizzare, a capirne i meccanismi, trasformarla in opportunità?

“Credo dipenda proprio da questa miopia dello sguardo. Nei tempi brevi, può parerci meglio se tutto resta immobile. Per capire che nei tempi lunghi non è così occorre ricorrere a un’esperienza più vasta e varia, che gli individui non hanno, ma la società sì. Si chiama storia”.

Ibridazione, una straordinaria ricchezza

Oggi tutti i nostri problemi sembrano concentrarsi sugli sbarchi, eppure le migrazioni ci sono sempre state, lo spostamento di popoli è sempre stato uno strumento di potere sia politico che religioso. Che cosa abbiamo dimenticato?

“Abbiamo dimenticato chi siamo. Nessun popolo è più ibrido, più meticcio degli italiani. Sin dall’antichità una fecondissima, prodigiosa mescolanza di culture ha per nostra grandissima fortuna caratterizzato la Penisola. Greci e italici, fenici ed etruschi, celti e illiri. E dal Medio Evo in poi arabi, bizantini, longobardi e altri popoli germanici, slavi, albanesi, francesi, catalani, spagnoli, austriaci e così via. Un elenco completo è impossibile, perché di fatto coincide con la lista dei popoli che si sono sviluppati intorno a quel grande lago interno che è il Mediterraneo. Chi, nell’infausto 1938, elogiava le leggi di Mussolini perché proteggevano la razza italiana, davvero non sapeva di che cosa stesse parlando. La purezza razziale non esiste, la mescolanza e l’ibridazione sono una straordinaria ricchezza, che per fortuna noi italiani possiamo anzi dobbiamo rivendicare. E se questo è il nostro passato, perché mai non dovrebbe essere il nostro futuro?”

La nostra società sta vivendo un profondo cambiamento: è soprattutto il lavoro ad essere al centro di una trasformazione radicale, quale futuro?

“Un futuro senza lavoro umano è impensabile, ma la natura del lavoro sta cambiando: è sempre meno fatica fisica, e sempre più impegno mentale. Questa trasformazione avviene nel segno della produttività e del profitto delle imprese, ma spesso tiene assai poco conto delle conseguenze di natura etica, sociale, politica. È un fronte assolutamente vitale per la sopravvivenza dei principi di convivenza civile che abbiamo elaborato”.

L’ingegno in funzione del bene comune

Se la tecnologia sostituirà la forza lavoro, forse la vita dell’uomo è destinata a non avere più valore?

“Dovrebbe, al contrario, avere ancora più valore, perché maggiore potrebbe essere l’impegno individuale e collettivo a elaborare forme di civiltà, di cultura, di umanità, che forse oggi non sappiamo ancora immaginare, ma in cui la fertilità dell’ingegno individuale in funzione del bene comune potrebbe crescere a dismisura”.

I giovani abbandonano l’Italia e il continente, le nuove destinazioni sono l’Australia, il Canada. È forse questa la vera paura, che questi vuoti vengano riempiti da genti di altre culture, lingua e tradizioni?

“Il timore dell’altro è umano, ma va combattuto con qualcosa di ancor più umano, che è la curiosità per l’altro. E il desiderio di suscitare nell’altro altrettanta curiosità. Per camminare in questa direzione occorrono convinzioni di fondo, senza di che ci si rinchiuderebbe nel rancore degli eterni sconfitti”.

Un nuovo equilibrio

La cultura può aiutarci a ragionare in modo diverso sul mondo che vogliamo? Quale cultura?

“Anche quella di un feroce razzista è, a suo modo, una ‘cultura’: la cultura dell’odio, dell’isolamento, dell’egoismo più sfrenato e stolto. E anche chi dichiara di disprezzare la cultura ha una propria cultura, quella che idolatra l’ignoranza e svilisce la competenza. Dipende dunque quale cultura è quella che vogliamo. A mio avviso, quel che dobbiamo trovare è un nuovo equilibrio fra coscienza storica, sensibilità etica, visione politico-economica e conoscenza tecnologica. Ma in questo nuovo equilibrio è assolutamente essenziale che abbiano una funzione centrale valori come la democrazia, la giustizia, il rispetto per gli altri, la libertà di parola e di scelta, la dignità umana, l’eguaglianza fra gli esseri umani”.

Dove sta andando l’Europa, perché sembrano niente settant’anni di pace? Di tutti i valori della democrazia, l’unico che ancora funziona è il voto e ci sta massacrando; come fare ad attivare gli altri strumenti per farla funzionare davvero?

“L’afasia di molta politica rivela che in questa fase storica sarebbe necessario attivarsi ‘dal basso’, ricreare l’immaginazione che muove le istituzioni, che sa riflettere, criticare e proporre. L’educazione al pensiero critico dovrebbe essere la vera, anzi la sola funzione della scuola. Ma purtroppo non è più così, se non si ha la fortuna di avere insegnanti eccezionali e per fortuna ce ne sono tanti”.

Lei ha lavorato a lungo in America. Spesso si portano ad esempio meccanismi che in quella società funzionano, ma possono valere anche per realtà diverse come la nostra o si rischiano effetti paradosso?

“Amo gli Stati Uniti, anche se non amo affatto Trump. Sono un grande Paese, ma con la propria esperienza e la propria storia. Non è identificandoci con loro che l’Italia o l’Europa può trovare la propria strada”.

Che cosa lascerà questo presente ai posteri?

“Vivamente spero non siano solo frammenti, polvere, rovina. Dipende da noi, da quello che ciascuno saprà e vorrà fare, a seconda degli spazi di vita e di lavoro in cui ci si muove. L’Europa ha attraversato momenti assai più oscuri di questo, e ne è sempre uscita migliore, anche fra atroci sofferenze. Abbiamo un enorme serbatoio di energia, che viene dal nostro passato e dalla nostra cultura, anzi dalla pluralità delle nostre culture. C’è ragione di essere ottimisti”.

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