Il linguaggio della Gen-Z e il regresso linguistico

Gli scrittori Andrea Maggi e Francesco Carbone alla CI di Pola per riflettere con i giovani sulla situazione attuale della lingua italiana

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Il linguaggio della Gen-Z e il regresso linguistico
Francesco Carbone (a destra). Foto: DARIA DEGHENGHI

Mettiamo che ti capiti qualcosa di “huge” (enorme) e devi impegnarti al massimo mettendoti “on fire”. Rischi comunque di fallire e finire “nella tromba” per cui diventi un “chad” o uno sfigato, oppure un “trayhardone” e “ceh” (cioè) uno che si applica troppo ma resta sempre un “nabbo” (una schiappa), che nessuno vuole “followare” e che le ragazze squalificano cortesemente “friendzonando” o declassando alla perenne condizione di amico. Insomma, sei spacciato. Per uno della “Gen-z”, nato tra il 1997 e il 2012, la comunicazione è un amalgama di neologismi, di acronimi, di troncamenti lessicali e stranierismi che sono diventati il nuovo canone del discorso orale. Una “t” è diventata il criterio di distinzione dell’intensità dell’amore e dell’amicizia, per cui tvb (ti voglio bene) e tvtb o tvttb (ti voglio tanto o tanto-tanto bene) non sono la stessa cosa, dal ché bisogna concludere che tra l’amare tanto o tantissimo e comunicarlo con sistemi di messaggistica elettronica, una consonante può non solo fare la differenza, ma può anche mandare in fumo un progetto di relazione.

Un’evoluzione continua
Come scrivono i giovani di oggi? Male, viene da dire a quelli come il professore e scrittore Andrea Maggi che ieri mattina ha dedicato all’argomento una splendida lectio magistralis in occasione della Settimana della lingua italiana nel mondo. Ma Maggi non lo dice, anzi, ci mette in guardia: “Guardiamoci bene dall’attribuire ai ragazzi l’etichetta di illetterati, perché non c’è lingua che non sia in perenne evoluzione e non c’è lessico che in passato non sia stato contaminato da stranierismi”. Cerniera, flanella, ragù, cotoletta, bignè e dessert? Tutti francesismi del Settecento. Cosa dire allora delle prime scritture in volgare? Quel “Sao ko kelle terre” del Placito capuano e quel “Boves se pareba” dell’Indovinello veronese, le prime testimonianze scritte di un italiano in gestazione, probabilmente suonarono così volgari alle orecchie dei dotti che sembrarono la fine del mondo. Ma era solo l’inizio e infatti da lì a qualche secolo Dante, Petrarca e Boccaccio ne avrebbero fatto una delle lingue letterarie più importanti del mondo.

La lingua del futuro
Insomma, non c’è lingua che in origine non sia stata in qualche modo una storpiatura e mai ce ne sarà una. Come la meccanizzazione, l’elettrificazione e l’automazione hanno cambiato la lingua nelle tre rivoluzioni industriali precedenti, così oggi le Reti, i dati e l’intelligenza artificiale della quarta influiscono sulla lingua del futuro. Rendersene conto è importante, ma rinunciare alla grammatica, al lessico, alla lettura e alla letteratura è altrettanto devastante. La povertà della nostra lingua è sempre lo specchio della povertà del nostro mondo, tant’è vero che “oggi, assodate le carenze lessicali dei nativi digitali, nella scuola dell’obbligo si attiva il recupero linguistico”.

Un lessico ridotto
“Dall’australopiteco Lucy all’uomo di oggi: tre milioni e mezzo di anni non abbiamo detto niente. Poi qualcuno ha parlato. E per 55mila anni abbiamo solo parlato: la società della conversazione. Cinquemila anni fa, qualcuno ha finalmente scritto: la schiuma di un mare profondo migliaia di metri. E oggi? Oggi siamo tornati a flettere la colonna vertebrale solo per stare chini sul cellulare. Insomma, per quanto si vada avanti con l’intelligenza, siamo sempre in tempo a regredire”. Pessimista Francesco Carbone, scrittore, illustratore, regista, relatore della lectio magistralis “Quando dico ‘amore’ mi capisci?”, seconda delle due in occasione della Settimana della lingua italiana su iniziativa dell’Italianistica polese.
Pessimista perché ogni progresso contiene in germe la possibilità intrinseca di un regresso. Una “lectio” fatta di aneddoti, immagini, similitudini, gossip, notizie false e amori veri, o piuttosto il contrario, ragionando su “che cos’è l’amore”, su Tristano e Isotta, su Marta Flavi e Tom Cruise, sulla follia dell’amore immaginario, sulle “relazioni” sbocciate su Tinder, sulla grammatica e sul lessico della Rete. “Il tuo profilo Tinder ti descrive. La grammatica, l’ortografia ti squalificano anche quando cerchi lavoro e chi ti giudica è un bot. Quindi l’intelligenza artificiale è superiore agli uomini anche in ambito linguistico”, afferma Carbone precipitando ulteriormente nell’abisso del pessimismo perché “è assodato che la padronanza del lessico dei ragazzi si sta disintegrando”. La prova definitiva? Trecento vocaboli per adolescente contemporaneo contro i 1.600 del giovane di qualche secolo fa.

La disgrafia è una pandemia
“La lingua è la casa, diceva Heidegger” e Carbone conferma il giudizio ma allarga il discorso ai contemporanei: “Che razza di casa abitiamo? Tra l’altro la tragedia non è neanche il regresso lessicale in quanto tale ma piuttosto la convinzione che vada bene così. Che sia normale”. Di più. Il quoziente intellettivo è in costante calo dagli anni Settanta in qua. Cos’è cambiato? “Abbiamo chinato il capo e la colonna vertebrale sul cellulare. Il cervello è diventato un fatto pubblico e l’algoritmo onnisciente. I bambini di un anno e mezzo sanno scaricare un’app ma non sanno allacciare le scarpe o impugnare il cucchiaio (o la penna). La disgrafia è una pandemia. La scelta è tra mondo reale e deserto virtuale: quale scelta fare?”
Le lectio magistralis hanno avuto una platea attenta e partecipe. Tra il pubblico che ha presenziato alla giornata letteraria anche il vicesindaco di Pola, Bruno Cergnul, il presidente dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul e la preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Pola, Lina Pliško con il corpo docenti del Dipartimento di Italianistica locale che ha organizzato la conferenza.

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