Fiume e le migrazioni nel secondo dopoguerra

La giovane ricercatrice Francesca Rolandi ha presentato in una conferenza online i risultati preliminari sul cambiamento dei confini nel capoluogo quarnerino

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Fiume e le migrazioni nel secondo dopoguerra

La città di Fiume, abbandonata da una parte consistente della popolazione autoctona negli anni del secondo dopoguerra, anziché subire un calo dei suoi abitanti, si assestò, secondo i censimenti, su un trend di crescita costante, che si sarebbe rivelato in tutta la sua intensità negli anni Sessanta e Settanta. Sin dalla fine del conflitto, ma con rinnovato vigore dopo il Trattato di pace del 1947, la città divenne infatti meta di un’emigrazione costante, proveniente da differenti aree dell’ex Jugoslavia. Individui di diversa provenienza, estrazione sociale, con diverse aspettative, speranze, motivazioni, s’inserirono nel mercato del lavoro della città adriatica, uno dei maggiori centri industriali dell’ex Federazione, nonché suo porto principale. La loro integrazione nel tessuto cittadino, tuttavia, non fu scevra di elementi di problematicità, la cui analisi permette di discernere alcune delle contraddizioni che covavano sia nel Paese che nella città, pur in anni di “boom economico”.

 

Una ricerca di grande interesse
Ne ha parlato la giovane ricercatrice Francesca Rolandi, la quale ha conseguito il dottorato di ricerca in Slavistica presso l’Università degli Studi di Torino, nel corso di una conferenza online dal titolo “Došao sam u grad iz pasivnog kraja. Le migrazioni inter-jugoslave a Fiume dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Attualmente collabora al progetto “Rijeka in Flux”, nato dalla collaborazione tra il Centro di studi avanzati di Fiume e la University of British Columbia Okanagan. La conferenza è stata moderata da Stefano Petrungaro, docente di Storia dell’Europa orientale e dei Balcani dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Una zona passiva
Rolandi ha iniziato l’esposizione del materiale della sua ricerca spiegando che si tratta di risultati preliminari di un progetto di ricerca breve, che fa parte di uno più grande in cui sono coinvolti quindici colleghi e si concentra sul cambiamento dei confini nella Fiume del secondo dopoguerra.

“Per Fiume i confini hanno significato molto – ha spiegato Rolandi – e quest’anno celebriamo il centenario dello Stato libero di Fiume che è durato de iure quattro anni. Fiume è stata segnata dai confini in ogni senso. Si trovava al confine tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Ancora un confine al suo interno è il porto; la dogana è un elemento di contatto con l’esterno. Pure il nucleo attuale urbano conteneva un confine con la vicina Sušak. Il mio progetto si occupa di barriere e confini, ma anche di flusso e circolazione, di industrializzazione e deindustrializzazione dagli anni Novanta. Ho scelto il titolo che parla di ‘pasivni kraj’ (una zona passiva) in quanto viene usato in una canzone del gruppo ‘Mrtvi kanal’ e parla del periodo socialista e delle zone economicamente arretrate”.

Rolandi ha spiegato che il disagio provato dalla classe operaia degli anni Ottanta è legato alla parabola migratoria all’interno dell’ex Jugoslavia. La frustrazione e l’alienazione di un lavoratore che vuole sfuggire a una realtà squallida frequentando bettole e cattive compagnie erano sentimenti in cui moltissime persone si riconoscevano nel 1983, anno in cui è uscita la canzone che descrive il contrasto tra benessere presente e ostentato di Fiume (esibisce beni di consumo) e immagine degli immigrati in città, che rappresentano uno strato di persone escluso o marginalizzato dal benessere. A comprovare questa situazione sono pure gli standard abitativi dell’epoca, che spesso lasciavano a desiderare.

Costruzione di nuovi quartieri
“Nel secondo dopoguerra Fiume ha dovuto affrontare una grande sfida – ha continuato la ricercatrice. Dopo l’esodo che portò via 20.000 persone soltanto nella prima ondata (1947), si è dovuto pensare a ricreare un nucleo cittadino integrando le migliaia di arrivati dal circondario della città e successivamente pure da aree più remote. Nella ricerca ho cercato di tracciare questi fenomeni sul tessuto cittadino e sul tessuto urbano studiando i grattacieli che caratterizzano il panorama fiumano e sono il prodotto della costruzione di nuovi quartieri residenziali per i nuovi arrivati. Ma i grattacieli convivono con piccole abitazioni, costruite spesso senza un piano regolatore. Lo stesso fenomeno lo troviamo anche in alcune città italiane che hanno vissuto un veloce inurbamento e poca pianificazione, con il conseguente proliferare di costruzioni informali.

Dopo l’esodo a Fiume c’è stato un forte influsso di nuovi abitanti dalla cornice jugoslava

Sono fenomeni (le dinamiche del consumo, il mercato e le differenziazioni sociali) riscontrabili sia nei Paesi socialisti che in quelli capitalisti. Riferimento anche a studi che invitano a guardare a Paesi dal sistema socialista non solo in contrapposizione ai capitalisti, ma fenomeni e dinamiche riscontrabili da entrambe le parti”. Dopo l’esodo Fiume non diventa spettralmente vuota come Pola, perché c’è un forte influsso di nuovi abitanti dalla cornice jugoslava. Nel 1948 la città aveva 68.000 abitanti, mentre nel 1981 tale numero era salito a 148.000. Nella società fiumana, che stava subendo una doppia transizione, a un nuovo sistema statuale e al socialismo, la pressione poliziesca da parte dei nuovi organi era molto forte. Rolandi ha spiegato che il ripopolamento avveniva con manodopera per lavori in fabbrica e per la ricostruzione e che spesso i nuovi operai venivano collocati negli appartamenti degli esuli incamerati dallo Stato. Spesso l’occupazione degli appartamenti era illegale, oppure le famiglie facevano pressione sugli enti portando i mobili in strada. D’altra parte un grande numero di lavoratori non qualificati viveva in baracconi o in dormitori.

Necessario un permesso di residenza
A metà degli anni Cinquanta, ha spiegato Rolandi, si è avuto un “boom economico” che ha attraversato tutta l’allora Jugoslavia ma ha interessato in particolare Fiume che si pose in capo alla Federazione per reddito pro capite e sviluppo dell’industria pesante e di altro tipo, ma anche servizi ed export. Le autorità cercavano di sradicare determinati fenomeni (campagna contro la prostituzione o altre manifestazioni di disagio sociale) e il punto di vista dominante è quello del controllo. Per risiedere a Fiume era necessario un permesso di residenza, motivo per cui i cittadini indesiderati spesso venivano espulsi dal tessuto cittadino. La marginalità così presente nel centro storico nel dopoguerra gradualmente si sposta ai margini e i lavoratori fluttuano da un posto di lavoro all’altro anche in base alle sistemazioni e alle mense. A parlarne è pure la rivista Panorama dell’Edit, che pubblica un numero intitolato “Ombre tra i grattacieli”.

«Una città senza elementi autoctoni»
“Ho voluto usare Fiume per dimostrare le contraddizioni nella Jugoslavia socialista – ha concluso Rolandi -. Alla fine degli anni Ottanta questa sfida d’integrazione si può dire che sia riuscita e la città in alcuni decenni ha fatto passi da gigante, anche se le conseguenze si vedono tutt’ora. Nel 1952 Edo Jardas, sindaco del dopoguerra, disse pressappoco questo: ‘Siamo una città nuova senza elementi autoctoni e la gente non si è assimilata e non ha imparato ad amare la città’. Non possiamo sapere se si trattasse di un momento di scoramento o era questa veramente la sua prospettiva, ma fatto sta che la creazione di questa nuova koinè fiumana non è stata indolore. Nonostante tutto, però, i nuovi arrivati trovano qualcosa in comune e le tensioni nazionali spesso sono molto più deboli di quelle sociali. In conclusione invito i miei colleghi a studiare le aree di confine multinazionali, senza far dipendere le dinamiche sociali da questioni nazionali”. È seguito un interessante dibattito sul socialismo, il diritto alla casa, lo standard di vita del dopoguerra, le forme di protesta, la mobilità sociale, i flussi migratori, l’aspetto identitario fiumano e tanti altri temi più che mai attuali.

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