Dal reale all’astrazione: un’idea sempre attuale

A colloquio con il connazionale Mauro Stipanov, «spiritus movens» della mostra di Romolo Venucci «Viaggio verso l’astrazione» dedicata al ciclo delle «Rocce», che verrà inaugurata giovedì prossimo al Museo civico di Fiume

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Dal reale all’astrazione: un’idea sempre attuale

S’inaugura giovedì prossimo al Museo civico di Fiume (Cubetto) la mostra di Romolo Venucci “Viaggio verso l’astrazione” dedicata al ciclo delle “Rocce”. Un motivo tematico che il pittore fiumano realizzò nell’ arco degli anni Cinquanta e Sessanta. Iniziatore dell’evento è l’artista fiumano Mauro Stipanov, il quale, oltre alla sua intensa attività pittorica, negli ultimi anni è stato anche promotore di mostre – ricorderemo l’esposizione di ritratti di allievi di Venucci alla Comunità degli Italiani nel 2017- e ideatore di progetti di ampio respiro, che però attendono ancora di essere realizzati.

In quest’occasione non potevamo esimerci dall’approfondire tale argomento con lo “spiritus movens” dell’evento, per quindi estendere il discorso su un piano artistico più articolato, che pure ci riguarda da vicino, per concludere infine con delle considerazioni di ordine estetico.

Una ventina di lavori tra pastelli e olii

Come è nata l’idea di questa mostra? Quali sono le motivazioni che l’hanno spinto a promuovere tale iniziativa? Perché ha scelto proprio il ciclo delle Rocce di Venucci per quest’esposizione?

“Siccome sono ormai passati quasi tre decenni dalla retrospettiva di Venucci alla Galleria Moderna e dal momento che da più di quarant’anni custodisco opere del pittore fiumano, ho proposto alla curatrice Ema Makarun del Museo civico di allestire una mostra. Mia intenzione, e quella della curatrice è di puntare i riflettori sul ciclo delle Rocce, che reputo importantissime nell’opera complessiva di Romolo Venucci. L’allestimento metterà in visione una ventina di lavori tra pastelli e olii”.

Romolo Venucci in una foto d’archivio

Dal punto di vista dell’artista, vuole spiegarci il carattere, il significato, la “metodologia pittorica” che ha dato forma e oserei dire vita, a queste rocce?

“Queste opere nell’ambito della produzione di Venucci tengono, a mio avviso, un posto di riguardo, e sono paragonabili, anche se in un contesto diverso, ai lavori degli anni ‘30. L’idea di Venucci, che partendo dal massimo del reale si possa arrivare all’astrazione, è ancor oggi molto attuale e molto interessante.

Artisticamente intenso e avvincente è anche il modo espressivo e la fattura pittorico-strutturale di questi lavori, sia nei pastelli che nell’olio. All’epoca però non era stato assolutamente recepito in modo adeguato perché il nostro ambiente non era preparato a questo genere di pittura.

Ricordo bene che tale clima di incomprensione lo aveva colpito parecchio. Un giorno, passando per la strada di fronte al Palazzo del governo, in stato alterato, lo sentii bestemmiare – fu l’unica volta – perché una sua roccia era stata rifiutata per una mostra a Zagabria. Peccato non abbia continuato con le rocce perché in esse unì magistralmente la pittura e la musica in un intrecciarsi compositivo di tonalità e colori caldi e freddi di rara bellezza. Rapportate anche a una panoramica più vasta le sue rocce sono di gran lunga le più interessanti”.

Nella magnifica monografia di Erna Toncinich e Sergio Molesi dedicata a Romolo Venucci, nel capitolo ‘L’astrazione allusiva delle rocce e l’astrazione simbolica del costruttivismo espressionistico’, Molesi rileva che ‘…Romolo Venucci ritrasse le scogliere quarnerine in una visione sempre più ravvicinata, fino a cimentarsi col dettaglio significativo, che viene elaborato, scomposto e ricomposto fino ad assumere in un percorso di rastremazione semantica, caratteri decisamente astrattivi, o per lo meno allusivi…All’interno di tale operazione pittorica sul dettaglio naturalistico l’artista talora scompone e ricompone in senso razionale e talora, e più spesso, in senso organico, confermando ancora una volta la vocazione d’ascendenza cubista ed espressionista che era a monte di tale suggestiva esperienza’”.

Le rocce dipinte dal pittore fiumano Romolo Venucci

La traccia indelebile di Giulio Lehmann

Rimanendo in tema di mostre, qualche tempo fa lei aveva proposto alla Comunità degli Italiani di Fiume di intitolare uno spazio espositivo – all’interno di Palazzo Modello – al pittore fiumano di epoca austroungarica Giulio Lehmann; e in connessione a ciò un progetto di mostre di alcuni significativi artisti di Fiume. Vuole spiegarci di che cosa si trattava nel concreto?

“In mancanza di un serio spazio espositivo a Fiume, dopo la chiusura del ‘Piccolo salone’ in Corso, proposi due anni fa alla CI di Fiume d’intestare la ‘Sala mostre’ della Comunità a Giulio Lehmann. Artista di vaglia, le sue opere si trovano sia in collezioni private che nei Musei di Zagabria, Lubiana e Fiume. L’intento era di creare uno spazio espositivo serio! Con un programma di qualità aperto sia alla minoranza che alla maggioranza, per far sì che la Comunità potesse vivere, pulsare in questo segmento e diventare un fattore culturale di peso anche in ambito cittadino e oltre. Come inizio avevo pianificato quattro mostre di autori importanti, e cioé Lehmann, Udatny, Vidović e Venucci.

Nel 2017 avevo organizzato un’esposizione di Venucci (ritratti di allievi) nella Sala mostre sperando si continuasse sulla strada delle mostre di qualità. Invece ho incontrato soltanto disinteresse, superficialità, provincialismo. La Comunità degli Italiani e l’Unione Italiana, non da ieri, si accontentano della mediocrità. Non sono per niente interessate ad elevare il livello culturale, almeno per quel che riguarda il campo delle arti figurative”.

Chi era Lehmann? Che genere di personaggio era? Come vede la sua pittura? Venucci lo apprezzava? Lei ha notizia di qualche ricordo – magari di seconda, o terza mano -, o di qualche fatto legato a questo personaggio così singolare?

“Giulio Lehmann, anche se appartiene al periodo di fine Ottocento, rientra assolutamente in quella cerchia di pochissimi pittori la cui opera ha lasciato un segno a Fiume, sia come artista che come personaggio. Di lui si sa poco o niente. Pare, che per una delusione d’amore rinunciò a una vita ‘normale’. Visse di stenti, in povertà, senza fissa dimora. Si dice che barattasse le sue opere per un piatto di minestra, ma non perse mai la dignità. Mio zio Willy mi raccontava che quando lavorava come garzone, all’età di cinque o sei anni, Lehmann usava venire nella drogheria di Palazzo Adria a chiedere un po’ di colore. Veniva con un pezzo di vetro e si faceva spremere dai tubetti un po’ di ogni colore. Il proprietario si offriva di regalargli i tubetti interi, ma lui li rifiutava sempre”.

Romolo Venucci ,“Viaggio verso l’astrazione”

«L’assoluto pittorico personale»

Nei mesi scorsi la galleria “Kortil” ha ospitato la sua mostra personale “Cielo”, che rientra in un ciclo di riflessioni pittoriche legate a contenuti esistenziali, all’evoluzionismo, a quesiti filosofici; un ciclo che si conclude con il più etereo, e metaforicamente parlando, metafisico degli elementi. I suoi dipinti però, non raffigurano cieli limpidi, raggianti, celestiali…bensì cupi, a volte drammatici, squarciati da bagliori e screzi cromatici quasi violenti… Vuole spiegarci questi suoi lavori?

“Sul tema del Cielo ho iniziato a lavorare nel 2018, quando preparavo la mostra ‘Passeggiata’ al Museo civico. Dalle finestre dello studio vedo il Monte Maggiore e tutti quei tramonti romantici e a volte drammaticamente suggestivi che non lasciano indifferente l’occhio umano. Dopo un certo tempo l’uomo introietta tali rappresentazioni della natura e, tramite l’esperienza, la memoria e la libertà d’espressione cerca di esprimerlo sulla tela o con la fotografia. Il vantaggio della pittura sulla fotografia sta nel fatto che la pittura può esprimere l’imperfezione, il caso, la fotografia no. In fotografia l’uso del fotoshop è una degenerazione tecnico-mentale della fotografia. Una bugia nella bugia.
L’approccio al tema del Cielo mi ha permesso di avvicinarmi a quell’’assoluto pittorico personale’ al quale ogni artista dovrebbe tendere nel suo tragitto creativo. Probabilmente è anche frutto di una maturazione interiore ed è un traguardo molto difficile da raggiungere….Per adesso mi sento fortunato e privilegiato.
Da anni medito e penso al significato di questa parola, di questo spazio ‘infinito’, concetto presente nella mostra, come quello della ‘Mano invisibile’ di Adam Smith e di Dio, visti attraverso il pensiero dei vari filosofi, da Anassimandro, Vico, Kant, fino ai giorno nostri e a Guido Tonelli, scienziato e filosofo del CERN che con i suoi Libri e lezioni-spiegazioni dell’Universo affascina e stimola la fantasia di chi lo segue. L’ALIBI nel suo significato buono, in pittura e nell’arte in generale è molto importante, nel senso che è direttamente proporzionale all’intensità dell’energia che l’opera in sé stessa dovrebbe irradiare. Nel Cielo, forse inconsciamente e involontariamente sono presenti anche aspetti di pensiero romantico, aspetti di nichilismo-pessimismo, scetticismo. Preoccupazioni personali che, bene o male possono essere riflessi nella pittura. Con questa mostra ho chiuso una ‘Trilogia’ avviata nel 2016 e incentrata sul pensiero della Morte, ispirata dalle letture di Emanuele Severino e dall’opera poetica e filosofica su Leopardi; una riflessione che avevo approfondito dopo la morte dei miei genitori. Ha fatto seguito nel 2020 la ‘Giungla della vita’ pensando all’evoluzione darwiniana e leggendo Telmo Pievani, per quindi concludere con ‘Cielo’, come tema unificante della vita e della morte”.

Lei proviene da una famiglia in cui la passione per la pittura e per la musica è presente da generazioni.

“A casa mia dipingevano il nonno e mio padre. Ricordo che da bambino l’odore di trementina e olio di lino mi piaceva molto. Fin da piccolo mio padre mi dava dei compiti da disegno e di pittura… Mia sorella e il fratello più giovane (eccelso clarinettista jazz, nda) avevano talento sia per le arti figurative che per la musica. Lo zio Willy, che era già venuto a mancare, realizzava i manifesti per i tanti film che si proiettavano nelle sale cinematografiche di Fiume. Suoi lavori erano anche i maxi cartelloni per il cinema ex Partizan, oggi Fenice. Nel 1966 vinse un concorso come illustratore della ‘Domenica del Corriere’ a Milano; ma poi rinunciò ad andarci perché non riusciva a stare lontano da Fiume. Peccato che tutti e due non si fossero iscritti all’Accademia di Belle arti. Avrebbero potuto fare una carriera artistica interessante, con tante soddisfazioni”.

La Bellezza, un concetto portato agli estremi

Che cos’è per lei la Bellezza? Quanto è presente nell’arte e nella società contemporanea?

“Parlare di bellezza oggi è un compito abbastanza arduo. Nell’antichità tale concetto era spesso legato all’opulenza, anche in senso fisico. L’esatto contrario di oggi in cui l’estetica dell’anoressia sembra essere un traguardo. La bellezza, in senso antropologico, era associata senz’altro all’idea di serenità, tranquillità, armonia. Non a caso gli antichi Romani usavano il termine ‘bonellum’ per indicare che il ‘bello’ era associato al ‘buono’.

Le società cambiano e così i costumi e le abitudini; attualmente, in un appiattimento verso il basso. Siamo testimoni di manifestazioni a dir poco disgustose. Vedi l’imbrattamento delle facciate dai cosiddetti graffiti fatti con gli spray. Non mi piacciono neanche quando apparentemente sembrano ben fatti-programmati. Non mi piacciono perché dietro c’è l’idea ossessiva del trasformare un qualcosa in qualcos’altro. Per esempio: se su un foglio bianco tracciamo delle righe il foglio bianco sparisce nel suo essere. Così accade pure con le facciate dei palazzi. Per non parlare dei tatuaggi, del piercing e di altre pratiche aggressive, che i giovani, specialmente, infliggono al proprio corpo. E poi la moda dei pantaloni tagliati, sfilacciati… Tutti costumi che un tempo sarebbero stati inconcepibili.

La bellezza come valore immutabile non è mai esistita. Come tutte le manifestazioni umane della modernità, anche questo concetto è stato portato agli estremi. Nell’odierna Babele – alludo alla sfrenata velocità della vita, alla smania ossessiva di produrre e cambiare la realtà delle cose – anche i canoni della bellezza sono diventati relativi. Pure il termine ‘bello’ viene usato sempre più raramente. Si preferisce l’aggettivo ‘interessante’. L’utilitarismo, l’effetto, la sorpresa e il pragmatismo hanno preso il sopravvento sul bello, soprattutto nelle arti visive, nella pittura, scultura e architettura.

Il concetto di bellezza era più presente nel passato, perché il bello aveva il tempo di lasciare ‘traccia’. Oggi, con lo strabiliante mutare delle cose, l’unica traccia viene lasciata dalla tecnologia…e….neanche di questa abbiamo certezza”.

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