C’è una seconda vita per il gulag di Tito? (foto)

Campo di prigionia e di lavori forzati, da più di trent’anni luogo abbandonato, oggi l’Isola Calva, insieme con la vicina San Gregorio, è una specie di attrazione turistica, sulle orme dei detenuti di un tempo

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C’è una seconda vita per il gulag di Tito? (foto)
L'isola Calva

L’isola Calva e San Gregorio sono oggi attrazioni turistiche… a cielo aperto. Anche se definirle attrazioni non è il meglio, visto che durante il XX secolo queste isole sono state in primo luogo campi di prigionia e di lavori forzati. Abbandonate da ormai oltre 30 anni, sempre più sono visibili i segni del logorio dal tempo. Potrebbero essere dei veri musei e avere decisamente maggiori contenuti di quelli attuali, ma in mancanza di veri progetti il tutto in gran parte dipende dalle persone che lo visitano. C’è chi vi arriva individualmente, tanti altri grazie alle agenzie che organizzano visite guidate.
La nostra visita inizia dall’Isola Calva. Preso il battello da Jablanac, arriviamo al porto principale dell’isola dopo circa un’ora. Già avvicinandoci all’isola vediamo i principali edifici che si trovano quasi tutti sul lato meridionale dell’isola. Gli edifici principali si trovano vicino al porto, ma per conoscerli meglio e vederli tutti serve fare un giro di circa 5 chilometri. Insomma, in tre ore si può vedere tutto. L’ideale è farlo a piedi, anche se negli ultimi anni durante l’estate circola un trenino che si ferma nei punti principali. Per chi invece vuole fare una vista più completa e raggiungere la cima più alta dell’isola ci vogliono almeno altre due ore. La salita è semplice, lungo un sentiero piuttosto ampio. Il problema sono gli ultimi metri, da fare anche con l’uso delle mani, per raggiungere il bunker che si trova in vetta. Alla fine, però, si viene premiati con una fantastica vista panoramica a 360 gradi. Oltre a vedere tutta l’isola sono ben visibili anche quelle circostanti, come pure la catena del Velebit dall’altra parte.
L’Isola Calva (in croato Goli otok), detta anche del Maltempo perché i venti caldi e freddi sono costanti tutto l’anno, è uno scoglio di roccia calcarea, nudo e quasi privo di vegetazione, nel Golgo del Quarnero. Dista circa 6 km dalla terraferma e 5 km dall’isola di Arbe. Ha una superficie complessiva di 4,54 km², la lunghezza della costa è di 14,3 km, mentre la cima dell’isola è a 227 metri sul livello del mare. Si trova tra la parte nord-orientale di Arbe e la costa continentale nella parte settentrionale del Canale della Morlacca; a ovest ci sono l’isola di San Gregorio (Sveti Grgur) e quella di Provicchio (Prvić). Lungo la costa sud-occidentale dell’isola si trova il villaggio, in rovina e abbandonato, di Maslinje.
La maggior parte dell’isola è costituita da pendii rocciosi, spogli e con scarsa erba. Soltanto lungo la costa occidentale ci sono parchi, trascurati, di pini e altri alberi, che furono piantati con la forza su quella zona carsica nuda da ex detenuti del campo. Oggi non ci sono abitanti permanenti, ad eccezione di un gregge di pecore portato da Arbe. Nei secoli passati l’Isola Calva veniva utilizzata principalmente per il pascolo delle pecore, quindi c’erano solo alcuni casolari per i pastori e pozzi per l’acqua piovana.

L’Alcatraz croata
In seguito al conflitto tra l’Unione Sovietica di Stalin e la Jugoslavia di Tito nel 1948, la prima clamorosa rottura nel blocco stalinista in Europa dell’Est, le autorità di Belgrado istituirono in questo luogo sperduto e inospitale un campo “politico” punitivo o di “rieducazione” per gli oppositori (o presunti tali) del regime, dove chi era sospettato di simpatie staliniste veniva confinato per lo più sulla base di decisioni amministrative, ossia senza alcun processo.
Si dice che la decisione di fondarlo sia stata presa personalmente da Josip Broz Tito, su suggerimento di Stevo Krajačić, uno dei più stretti collaboratori del maresciallo. Un personaggio, quest’ultimo, pieno di ombre: mise in piede una delle più complesse reti di intelligence, sistemi paralleli e controsistemi, di cui solo lui tirava le fila ed era l’unico a sapere quale fosse il loro obiettivo finale. Marko Lopušina, autore serbo, afferma che era una specie di “gemello spirituale di Josip Broz e l’unico uomo in Jugoslavia che poteva fare davvero tutto ciò che voleva”. Fu il primo capo dell’Ozna croata, dal 1944 al 1946, poi fino al 1953 ministro degli Interni della Repubblica di Croazia e presidente del Parlamento di Zagabria dal 1963 al 1967).
Tornando sull’Isola Calva, questa scogliera è stata praticamente disabitata fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Il primo insediamento nacque quando l’Austria-Ungheria vi costruì un campo di internamento per i prigionieri russi provenienti dal fronte orientale. Dopodiché l’isola fu abbandonata e utilizzata per l’allevamento di pecore. Tornò a ospitare dei detenuti dopo la seconda mondiale, durante la Jugoslavia socialista. I primi furono gettati dalla nave sugli scogli, il 9 luglio 1949, per un totale di circa 1.200 persone. Fu l’inizio della storia dell’isola come prigione severa, dove venivano detenuti soltanto prigionieri politici e oppositori di Tito, con l’obiettivo di convertirli al socialismo jugoslavo.
Se all’inizio furono qui esiliati stalinisti e anticomunisti – in maggioranza serbi, croati, macedoni e albanesi –, negli anni successivi arrivarono sull’isola sempre più prigionieri di vari orientamenti politici. L’Isola Calva divenne un terribile campo di rieducazione, conosciuto sarcasticamente anche come le Hawaii di Tito o l’Alcatraz croata: per la sua posizione il lager era ideale come prigione di massima sicurezza, nessuno poteva vedere cosa succedeva e fuggire era impossibile, sia per il sistema di sorveglianza ma anche a causa delle forti correnti marine e della grande distanza dalla terraferma.
Non si sa con certezza quanti detenuti giunsero sull’Isola Calva: i dati oscillano dalle 11.000 alle 18.000 persone, di cui 287 morirono in seguito agli stenti, alle torture, alle violenze fisiche nel periodo 1949-1956. Circa 300 sono stati gli italiani imprigionati nell’isola, 14 persero la vita (sulle esperienze degli istriani finiti a Goli c’è il romanzo autobiografico del rovignese Ligio Zanini, “Martin Muma”, pubblicato nel 1990, mentre la storia è stata ricostruita da Luciano Giuricin e Giacomo Scotti).
Le condizioni erano insostenibili, i detenuti erano costretti a infiniti turni di lavoro sotto la pioggia, il gelo e la bora dell’inverno e al soffocante caldo estivo, cucinati dal sole e asfissiati dall’afa a 40°C. Le guardie picchiavano e maltrattavano regolarmente i prigionieri, sia fisicamente che psicologicamente e moralmente, attuando un perfido sistema di annientamento, volendo distruggere la personalità dei prigionieri. Quelli più ingestibili finivano nel Reparto 101, detto “Il Buco”, rinchiusi, lasciati senza cibo e senza acqua, costretti solo a lavorare fino allo sfinimento. In molti si suicidarono, e i casi di violenza tra detenuti erano all’ordine del giorno. È qui che si registrò il più alto numero di morti.
Le attività di rieducazione politica sull’isola durarono fino a quando Tito ebbe consolidato il suo ruolo, dopo che Stalin era morto da tre anni e i rapporti con l’Unione Sovietica si stavano pian piano ricostruendo. La prigione rimase nelle mani del governo federale fino al 1956, quando passò sotto la giurisdizione della Croazia. Lentamente si trasformò in carcere per criminali comuni (furti, omicidi, incidenti stradali…) e talvolta anche delinquenti minorenni. Il carcere cessò di funzionare nel 1988 e un anno dopo, nel 1989, fu completamente abbandonato e da allora l’Isola Calva è scivolata nell’oblio della storia. Oggi è frequentata soltanto da sparuti gruppi di turisti, curiosi di camminare su quella terra arida teatro di tanti orrori durante la dittatura di Tito.
L’Isola Calva era destinata soltanto ai prigionieri di sesso maschile; le donne, infatti, venivano condotte alla vicina isola di San Gregorio (Sveti Grgur in croato), pure questo situato nel Canale della Morlacca. La superficie dell’isola è di 6,38 km² e la lunghezza della costa è di 14,5 km. La vetta più alta è Štandarac, a 225 metri sul livello del mare. Si trova tra Arbe e Veglia. L’isola più vicina è Arbe, a meno di 700 metri a sud-ovest. Dista 8 km dalla terraferma.
A parte i pendii settentrionali, simili a gole, la maggior parte dell’isola è ricoperta di macchia mediterranea ed è l’isola sempreverde più settentrionale con l’aspetto mediterraneo sull’Adriatico. Oggi è disabitata e nella baia nordoccidentale di San Gregorio ci sono soltanto edifici fatiscenti e il porto. In precedenza, sull’isola veniva estratta la bauxite e, in tempi recenti, l’isola è stata affittata come terreno di caccia ai daini. San Gregorio era conosciuta anche nelle mappe medievali con il nome antico di Arta. Fin dai tempi più remoti, gli abitanti di Arbe portavano le proprie pecore a pascolare a San Gregorio.
Durante la Seconda guerra mondiale San Gregorio fu prima campo di concentramento per prigionieri “speciali” di ambo i sessi, quasi tutti ufficiali delle forze armate e della polizia italiana. In seguito vi vennero deportati anche dei comunisti dissidenti, oppositori politici di Tito, soprattutto dopo che il Partito comunista jugoslavo venne espulso dal Cominform (1948). Fino al 1988 San Gregorio fu sede di un penitenziario per prigionieri politici di sesso femminile.

Il percorso… da visitatori
Torniamo, però, al porto, dove inizia il nostro percorso. Da qui parte una salita che ci porta subito al complesso industriale. In passato qui venivano fatti tutti i prodotti che poi venivano venduti (anche all’estero), dalle sedie alle piastrelle. Una lunga serie di case e magazzini ci porta sul punto più alto dell’itinerario. Arrivati in cima, vediamo alla sinistra l’Isola di San Gregorio e in una piccola parte la zona del porto industriale. Proprio da questo porto inizia la strada larga che arriva alla sommità dell’isola. Va subito premesso che le baracche che ospitavano i detenuti sono semidiroccate, gli edifici eretti negli anni sono fatiscenti e pericolanti.
Usciti dal complesso industriale, alla nostra destra c’è il più grande contenitore per l’acqua (per garantire l’approvvigionamento di acqua potabile i prigionieri costruirono grandi bacini di raccolta, dai quali l’acqua veniva convogliata agli edifici attraverso canali di pietra aperti e poco profondi). Il primo edificio che i condannati vedevano era “la quarantena”: qui trascorrevano circa un mese per imparare le regole di comportamento e vi stavano nuovamente per un breve tempo prima di andare via dal campo. In questo stabile veniva assegnata la matricola ai detenuti, ricevevano la divisa e venivano sottoposti a visita medica per stabilire le loro capacità psicofisiche.
Poco più avanti c’è il primo complesso di prigioni, noto con il nome di Petrova rupa (letteralmente buco di Pietro). Qui si trovavano le prigioni per circa 130 detenuti, ma anche la cucina. Era appunto il famigerato “buco” dove venivano torturati i condannati, ma che doveva anche isolare i prigionieri. Procedendo, arriviamo nel reparto dell’”ospedale”, accanto al quale c’è un piccolo campo di calcio. Oltre al porto, è l’area più verde dell’isola. Nelle immediate vicinanze un altro serbatoio per l’acqua.
E da qui comincia la discesa verso quello che è stato il primo campo di prigionia noto come “Žica”(filo di ferro). La zona arriva fino al mare e al piccolo porto. Qui finivano i prigionieri con “peccati” minori e qui è stato costruito negli anni anche il centro per i “comandanti”. In questa zona si trovano diversi campi per la ricreazione, campi di basket e pallamano. Dietro al palazzo in vetta c’è anche il teatro/cinema che poteva contenere un centinaio di persone. Peccato che negli ultimi anni il tetto abbia ceduto e rimangono ben visibili soltanto il palco e poche sedie.
Saliamo indietro fino al serbatoio e continuiamo il nostro percorso. Da questa parte è molto panoramico, prima verso l’ultimo complesso visitato e tutta la baia e poi verso l’isola di Arbe che si vede praticamente tutta. Ritornando nella zona boschiva, poco prima dell’ultimo complesso di edifici si trovano anche delle gallerie. L’ultimo complesso era noto con il nome sarcastico di “Hotel”, per le sue buone condizioni di costruzione, in netto contrasto con gli alloggio spartani dei prigionieri, realizzato con blocchi di pietra dell’isola scalpellati dai condannati. Qui vivevano i maggiori esponenti dell’Udba – l’intelligence jugoslava –, della polizia e altri servizi amministrativi.
All’inizio negli anni ‘50 era una zona rocciosa con pochi edifici. Poi con gli anni il tutto è stato migliorato con tanti alberi e ora sembra quasi un complesso di ville a più livelli, con tanto di spiaggia. Ed è qui che finisce la nostra visita all’isola. Poco avanti, infatti, facciamo ritorno al punto di partenza e al porto.
Oggi l’isola ha un aspetto spettrale e attira sempre più turisti, ma allo stesso tempo è una zona triste e con una storia difficile che forse un giorno sarà valorizzata di più e sarà convertita in un vero museo.

Il tempo si è fermato
Il battello ci porta all’isola San Gregorio, più grande e con tanto verde; è un’impresa ardua scegliere il percorso. Da lontano si scorge una scritta a caratteri cubitali, scolpita sulle pendici rocciose: “Tito”. E ci incamminiamo proprio in questa direzione. A pochi passi dalla riva ci accolgono degli animali “locali”, docili, abituati alle presenze turistiche, sempre affamati. Poco dopo si intravedono i resti delle prime case/prigioni. Più avanti è un susseguirsi di rovine a più piani.
Dopo qualche minuto arriviamo al punto più alto delle prigioni. Ci ritroviamo in un grande piazzale con il palazzo più grande dell’isola. Una volta visitato torniamo indietro fino alla riva, dove ci imbattiamo in un monumento. Subito accanto parte un sentiero che in parte fa il periplo dell’isola, una specie di lungomare che porta a un’altra spiaggia e a un secondo complesso di case/prigioni. Per il resto c’è ben poco da vedere. L’isola come centro di detenzione non si è mai sviluppata più di tanto, per cui la natura è rimasta la vera padrona.
Da quando le due isole sono state dismesse come penitenziario, 34 anni fa, nulla è cambiato. Si ha l’impressione di essere in quei paesi in cui c’è stata una calamità naturale e il tempo si è fermato. L’unico intervento che è stato fatto per il turismo è stato quello di posizionare delle targhe in cinque lingue diverse, riportanti la descrizione dell’edificio e la sua posizione sull’isola.
L’azzurro del mare e il panorama che si offre a noi, con una vista fantastica sulla vicina Arbe e uno scorcio unico dell’Adriatico, stridono con la consapevolezza dei crimini contro l’umanità che sono stati commessi in questo fazzoletto di terra, il cui fascino sta tutto nella sua natura, aspra e incontaminata, e la sua storia. Ed è questa ad attirare i turisti.
Purtroppo finora, nonostante alcuni progetti – una quindicina d’anni fa la Commissione per i diritti umani del Parlamento croato ha iniziato a occuparsi di un memoriale sull’isola, voluto fortemente dall’associazione degli ex-deportati –, non è stato possibile conservare gli oggetti, gli arredi e le strutture originali, né trasformare uno degli edifici in una specie di museo. Oggi solo una targa e una croce ricordano le sofferenze patite dai detenuti, il loro soggiorno sull’isola segnato dal terrore, dalla violenza e dalla condanna. Da quanto è stata istituita la Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari, in questo luogo si raccolgono ogni anno i rappresentanti dello Stato croato per rendere omaggio alle vittime delle persecuzioni del regime comunista jugoslavo.

L’entrata nel porto
L’inizio della salita alla zona industriale
L’area in cui i detenuti lavoravano
Qui si produceva un po’ di tutto
La vista dalla cima
Il famigerato «Buco» («Petrova rupa»)
La zona ospedaliera
con il campo di calcio

La zona ospedaliera

I resti del cinema

La panoramica sulla “Žica”

L’Hotel, il palazzo del capi

Il porto dell’Isola Calva
San Gregorio con la scritta Tito

La zona più alta di San Gregorio
Il monumento ai caduti

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