Dalla parte dei giovani… perché rimanga memoria di noi

Intervista con Fulvio Mohoratz, esule fiumano a Genova, da sempre nel Libero Comune-AFIM e iscritto alla CI

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Dalla parte dei giovani… perché rimanga memoria di noi

El me ciama e parlemo per ore… racconta Laura Calci di Fulvio Mohoratz, tutti e due per anni nel Libero Comune di Fiume, ora AFIM (Associazione Fiumani Italiani nel Mondo). Fulvio è un amico, per tanti, per cui quelle lunghe telefonate da Genova – città in cui vive – diventano pillole di saggezza, storie di vita vissuta che cerchiamo di sintetizzare in quest’intervista. Si può trattenere la sabbia? E i pensieri di un uomo libero dentro? Proviamo.

Definisciti…

“Veramente dovrebbero essere gli altri a definirmi. Comunque se devo dire chi sono, son fiuman come tutta la mia famiglia. Critico nei confronti dei miei familiari e anche degli altri. Ma ti son vecio, i me dixe. E no miei cari, casomai el contrario, ala mia età non dir la verità sarìa una agravante”.

Quindi Fiume al centro di tutto?

“Ovviamente”.

Quale vita si è lasciata alle spalle la tua famiglia?

“Mio padre era uno statale e quindi diciamo che avevamo una vita facile, fino al momento di lasciare la nostra casa/città per puntare, esuli, su Gorizia. Mio padre si spostò per primo alla volta di Venezia, mentre noi restammo altri sei mesi per finire la scuola, a Gorizia ho terminato la prima media”.

Donne forti

Donne forti le nostre donne, tua madre è stata un esempio per tanti/e. Che cosa conservi della sua saggezza?

“El carattere buffo, ringraziando iddio, ebrea la era e non poteva neanche nasconderlo con quel naso aquilin che se notava a distanza. E d’altro canto, una Lust la era. Quando mi chiedono se sono ebreo rispondo: non abbastanza purtroppo, perché quel lato del mio essere è veramente ricco a forte”.

Che cosa ti avrebbe dato in più?

“Eh l’intelligenza che non ho, perché xe un popolo che se pol definir in tanti modi, ma moni non de sicuro…”.

Sei sempre stato molto tagliente con amici e parenti, con tuo cugino, padre Sergio Cattunarich, pilastro dell’associazionismo gliuliano-dalmato, gesuita, ecumenico, c’era un rapporto molto interessante…

“È vero. Conflittuale fino all’ultimo. Invecchiando anche lui è cambiato, in modo molto evidente. Era diventato più saggio, mi stava ad ascoltare, cosa che prima era impensabile: quando ci si incontrava facevamo due monologhi, il che serviva a poco, non si arrivava da nessuna parte. Una ventina d’anni fa, in modo sibillino, mi propose di candidarmi al ruolo di sindaco del Libero comune e io gli risposi: matto sì, ma mona no. Comincio a diventar vecio e non go voia de gaver a che far coi fiumani, a far barufa tutti i santi giorni o magari uno sì e uno no, che te xe la stesa roba”.

Senza schei non se va da nesuna parte

La visione del rapporto esuli-rimasti vi vedeva d’accordo?

“In gran parte sì. Però con lui era difficile essere d’accordo, se non in via generale, tutto cambiava quando si scendeva nei particolari, aveva delle idee incredibili, anche valide a tavolino, ma spesso dovevo fargli presente che per raggiungere determinate mete servivano, uomini, fatti e anche bori, che non guasta, anzi i xe indispensabili e dove i se prende? Tra l’altro, omini ghe ne gavemo pochi e idee anche quele non ghe ne circola assai, ma in definitiva xe i soldi che move le robe e me par che i manchi anca quei. Disemosela, non ti va da nesuna parte senza schei”

La necessità di spendersi per l’associazionismo a quali scelte ti ha portato?

“Uscito da Fiume vivevo un’avventura nella disavventura, percepita come poteva farlo un ragazzo di undici anni e nove giorni, visto che sono andato via il 25 febbraio del 1946. Ricordo che molti cercavano di dissuadere mio padre adducendo come argomento a favore del rimanere un ipotetico arrivo degli anglo-americani. Al che egli rispondeva: ma non gavè capì proprio un tubo, nella prima guerra che ierimo alleati, in due i ne ga dado dosso e gavevimo radighi, ti te imagini adesso che ierimo contro. I fiumani salivano sui tetti nella speranza di vedere arrivare gli Inglesi. Mi digo ciapadi de cofe va ben… ma miga fino a quel punto. Ma per rispondere alla domanda, a 14 anni diedi un’impostazione alla mia vita. Quando si è profughi si matura presto forse perché ci si sente terribilmente a disagio. Sappiamo come vennero accolte le navi degli esuli a Venezia… Ricordo le discussioni soprattutto nel 1948 nel corso delle campagne elettorali, trovai modo di confrontarmi con una realtà pesante che non ci voleva e lo dichiarava apertamente. Un giorno, mi trovai con delle persone, non di estrema destra né di estrema sinistra dopo le batoste subite dall’una e dall’altra parte, ad affiggere manifesti trascinando un secchio pieno di colla. Fummo circondati, io avevo sulla testa un basco e mi indicarono come un biondino delle SS. Solitamente non reagivo, ma allora compresi che dovevo essere sicuro della mia identità civile e religiosa. Già dopo aver letto la Bibbia avevo fatto la mia scelta, era ora di entrare anche in un’associazione che mi rappresentasse, così decisi di darmi da fare e non ho mai più lasciato. Ricordo che iniziai a partecipare ai Raduni, anche a Pisa dove ebbi modo di incontrare Monsignor Ugo Camozzo. Sentivo un legame forte con i fiumani, xe poco da far”.
Incontri nelle scuole

La tua parola è spesso rivolta ai ragazzi. Ogni 10 febbraio una maratona nelle scuole e poi il Viaggio del Ricordo. Quali risultati?

“Alla partenza potrebbe sembrare un viaggio di piacere, godemosela, ma poi, lentamente arriva la presa di coscienza del fatto che si tratta di un vero e proprio viaggio d’istruzione, di un seminario di studi nelle terre in cui queste tragedie hanno avuto luogo. A mano a mano che si rendono conto, sentono parlare la gente del posto, prendono visione di certe realtà, cambiano atteggiamento, rivoltati come calzini. E non solo i ragazzi, succede anche ai docenti che li seguono e ai funzionari regionali liguri che ci accompagnano. Quando mi sentono le prime volte, sono convinti magari che io esageri, poi però il racconto si ripete a Fiume, in Istria, in Dalmazia a conferma che questo nostro popolo ne ha passate di crude e di cotte, allora anche le mie parole acquistano un diverso peso e al rientro ci subissano di domande. Vogliono sapere ancora ed ancora”.

Ci sono stati anni in cui il 10 febbraio a Roma “ricaricava” la nostra gente: è una spinta che si va esaurendo?

“Com’è nel mio modo di essere, ho sempre avuto delle perplessità sul 10 febbraio, noi l’avevamo ricordato anche molto prima che diventasse legge, però nonostante la nostra costante presenza in regione Liguria, solo nel dicembre del 2004 è stata varata una legge regionale che ci permise, da quel momento in poi, di muoverci nelle scuole e per le scuole e a realizzare questo grande concorso che tanti risultati e soddisfazioni sta dando nel tempo, attraverso la presa di coscienza della nostra vicenda. All’inizio fu Daneo che ci aprì le porte, persona eccezionale, seguito da Valenziano, Ronzitti e altri, con i quali siamo diventati amici. La Regione divenne la mia seconda casa, ci andavo spesso per realizzare le nostre iniziative. Poi certo c’è stato un affievolirsi, ma è nella natura delle cose. Ogni tanto ci vorrebbe una nuova spinta, anche da Roma”.

L’importanza del dialetto

Negli ultimi anni sei entrato nelle scuole italiane di Fiume parlando “in dialetto”. Quale l’importanza?

“Ho cercato di portare il dialetto nelle scuole e in Comunità dove sono stato accettato, seguito e apprezzato come esule e come fiuman, ovvero quel Mohoratz nato in Braida in via Parini 4, quarto pian, interno 4, tutto 4, anche a scola ciapavo 4, facile de ricordar era quasi un vizio. Da parte mia ho sempre garantito la massima attenzione a ciò che dicevo e a come lo dicevo trattandosi di un pubblico de mularìa. Certo non sono mancati confronti il che mi sta bene, la mia dialettica ha bisogno di esprimersi”.

Le tue preghiere in dialetto quale significato assumono, oltre alla salvaguardia dell’idioma?

“Importante per la nostra gente sparsa ovunque che si ritrova in poche occasioni e il dialetto è casa, in particolare durante la messa. Per quanto riguarda Fiume, ho notato che non tutti i giovani che frequentano le scuole italiane, capiscono il dialetto, ma nella ripetizione delle parole, dei toni e degli accenti, trovano modo di iniziare a confrontarsi con il nostro idioma. Il problema è che il dialetto fiumano non si parla in casa, preferendo la lingua italiana. Qualcuno mi definisce un esperto del nostro dialetto, ci sono stati altri più meritevoli di me, come il dott. Mario Bianchi, purtroppo scomparso, uno degli autori del Dizionario del Dialetto Fiumano curato da Michele Pafundi per la nostra associazione. La mia conoscenza la devo a mio padre che non ha mai smesso di parlare fiumano in famiglia, come ho fatto io con le mie figlie e con i nipoti”.

Fiume è diventata negli anni più vicina. Come e perché?

“Lo era sempre stata. Sono rientrato prima della distensione per partecipare all’inaugurazione della stele che ricordava i morti nei campi di sterminio, tra cui mio zio Lust…che Dio l’abbia in gloria…”
De Ambris, un sindacalista

In questo 2019, si ricordano i cent’anni dell’Impresa dannunziana, che cosa ti piace sottolineare di questo momento di storia fiumana?

“Che la storia della Fiume dannunziana sarebbe tutta da riscrivere: gli uomini che gli stavano accanto non erano tutti di destra, tutti fascisti, come il regime ha voluto far credere. Basti dire che aveva per segretario, il famoso Alceste De Ambris, un interventista sì, ma soprattutto sindacalista che dovette fuggire in Svizzera per non finire la sua esistenza in una patria galera. Questo per capire quali persone volesse al suo fianco. Spesso sento parlare della Carta del Carnaro di D’Annunzio, ma mi facciano il piacere, lui ha corretto il testo di De Ambris, a mio avviso peggiorandolo, edulcorandolo, mi piace decisamente meno, proprio nel punto in cui tratta della tutela della proprietà”.

Quando sei a Fiume, chi sei?

“Ah, uno perfettamente a suo agio che se miscia da fiuman. Quel che me frega xe de non conoser neanche una parola de croato e neanche una de inglese. So el tedesco che a Fiume se parlava assai, ogi non più”.

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