LA RECENSIONE «Schmarrn». Una riflessione sul senso dell’esistenza umana

Nel romanzo della scrittrice e poetessa connazionale Laura Marchig, la gastronomia tradizionale aiuta a riallacciare i legami con la nostra storia

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LA RECENSIONE «Schmarrn». Una riflessione sul senso dell’esistenza umana

Oggi il cibo fa moda, frotte di cuochi spuntano dai palinsesti televisivi, dalle riviste e da tanti volumi presenti sul mercato editoriale. Ricette e piatti sono il pilastro delle società attuali, la chiave interpretativa delle nostre vite, dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Nella letteratura il cibo è presente da sempre, sempre ricercato, sognato, consumato, divorato. Ebbene, con quest’anno – 2022 – le ricette di cucina entrano a pieno titolo anche nella letteratura CNI. Con lo “Schmarrn” di Laura Marchig (Fedra art projekt 2022) le ricette si conquistano il proprio posto tra “le parole rimaste”. A proposito, sapete cos’è lo schmarrn? Quando alcuni amlèt non ti vengono bene, ti si attaccano, si stracciano, non si buttano mica, si sistemano su un piatto, si cospargono di zucchero e si mangiano. Nel suo “Lessico famigliare” Natalia Ginsburg li chiama “gli smarren” e li dice di provenienza tedesca. Nella sua nota introduttiva l’autrice richiama le tappe di ideazione come occasione per far interagire culture, appartenenze e cucine che hanno attraversato confini nazionali, processi storici e conflitti etnici, lasciandoci in eredità un insieme di “radici intrecciate”.

Con mano lieve Laura ci introduce in un singolare contesto familiare, quello di papà Edi, di mamma Angela, di nonne, zie e zii, interpreti di vicende della vita quotidiana, sempre nella presenza pervasiva del “fattore cibo”, nel quale trova espressione la natura specifica, senza confini, della cucina istriana, delle sue pietanze mitteleuropee, in piena coerenza con il senso di appartenenza alla “terra di mezzo”, un mondo all’interno di altri mondi. I piatti, legati alla tradizione familiare e territoriale, sono colmi di ricordi volti al passato e, soprattutto, a persone che sono ormai in parte scomparse. Come lo zio Luciano morto a soli 26 anni, il ragazzo biondo ripreso in copertina al Bagno Riviera in un tuffo perfetto nel Quarnero, in una foto del 1941. O come nonna Maria Triscoli in Marchig che nemmeno in carrozzina aveva rinunciato a controllare gli gnocchi di prugne fatti dalle altre donne di casa, le zie Silvia, Maria e Olga, che a Cosala si destreggiavano fra orto e cucina. Nella casa piena di libri, il papà, bibliofilo e filologo, uomo sensibile e colto, rimasto per cinque anni ingessato in un letto d’ospedale, da sano, preparava le cosce di tacchino arrosto che “devono durare un’intera settimana” cotte a fuoco lento con cipolla e sale. La zia Maria, rimasta vedova dello zio Ante e senza figli, faceva da collante fra le altre cuoche, tutte brave, chi per la minestra di truchigne con il battuto di aglio e lardo, chi per gli useleti scampai, chi per le paste creme o le polpette, chi per le crespelle con gli spinaci o per la torta con il formaggio garbo, per il the nero col latte, la torta al cioccolato, la gelatina di ribes. Non sfiguravano i piatti legati al modo di dire “del maiale non si butta via niente”, senza dimenticare la barbarie dell’ammazzamento del piccolo quadrupede domestico. E non poteva mancare il pesce. Per la casa passavano polpi e calamaretti, datteri e pelosi mussoli, sardelle e sardoni, orate, gronghi, asinelli, astici, granceole, che finivano in brodetti o fritti o arrosti al forno. Molto apprezzata era la busara di scampi con polenta che si gustava secondo una ritualità che ne prevedeva il godimento anticipato, la sua pregustazione nella parola, e il prolungamento postumo di tale piacere nelle lodi o nelle critiche.

Nonno Dagoberto aveva costruito la casa a Valvosc’izze, sopra la scogliera per dare un tetto a nonna Triscoli Maria in Marchig e ai tanti loro figli, mentre lui se ne andava in giro a fare il socialista sovversivo in un’Italia fascista. Da lì la famiglia se ne era andata a Fiume nella primavera del 1934. Ma lì tornavano in un periodico pellegrinaggio i tre fratelli Edi, Dago e Piero con le famiglie. Sparpagliati tutto l’anno, d’estate, tornavano alla casetta avita. Ma dalle deviazioni e dagli andirivieni si impara molto, talvolta più che da una linea retta. Erano lunghissime ore conviviali, che perduravano in una sorta di banchetto perpetuo, in cui il pranzo sembrava congiungersi alla cena senza soluzione di continuità. In tavola: busara de astisi. L’eccitazione e il piacere del cibo producevano la poesia del cibo, la sua convivialità, la sua sacralità, la condivisione di affetti, la congiunzione di nonni e nipoti.

La scrittura trascina. La Marchig traspone le tante figure familiari dalla verità dei foglietti, delle buste di plastica, dei cassetti misteriosi e delle fotografie alla verità assoluta della letteratura. Questa è letteratura sulla letteratura, è poesia scaturita dalla zampillante fontana dell’arte che circola libera e impetuosa, ci avvolge e ci contagia, lasciando intravedere dietro di essa la vera vocazione di Laura: la lettura. Credo che lei non abbia mai smesso di leggere, inseguendo in ogni libro una forma dell’infinito. Non ha fallito nell’inseguirlo, lo si vede in ogni pagina. Perché Schmarrn non è solo ricette, è al contempo un monologante romanzo di idee, affidato alla sola voce dell’autrice che gestisce tutto il materiale narrativo. I cibi forniscono spunti di riflessione più profondi sul senso della vita e della morte e quindi dell’esistenza umana, sono presenti le tematiche più diverse – non ultima quella riguardante Fiume, città diasporica, ferita dalla guerra e cresciuta nel dopoguerra in un processo incessante che elabora l’identità rispetto all’alterità – che complessivamente rimandano a una critica del nostro tempo, ora più ironica, ora più tagliente, sempre filtrata dall’autobiografia dell’io narrante.

Poetare del cibo come fa Laura Marchig, immaginarlo e raccontarlo in ogni dettaglio, fermentarlo a lungo nella parola prima di gustarlo nel piatto, poi esaltarlo dopo averlo mangiato, stimola le papille gustative. Non rimane che augurare buona lettura e buon appetito, perché l’appetito vien leggendo…

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